CINQUE NOTE DA UN CHIRURGO Arben Dedja
antigoneQuando il regista Hans Von Sippel mise in scena nel Piccolo Teatro di Bayreuth, nell’autunno del 1989, l’Antigone tragedia di Sofocle, per rendere ancor più palpabile la cupa e soffocante atmosfera di sangue versato, di delitti e carogne umane a cui decreti supremi vietavano la sepoltura finché non le avessero divorate i cani randagi, nascose sotto il palcoscenico, a insaputa di direzione attori e pubblico, la carcassa di un asino morto, lasciato imputridire per tre giorni e tre notti nella terrazza chiusa a chiave dell’edificio. Il fetore fece subito sgomberare le prime file e verso metà spettacolo l’attore che interpretava Creonte perse i sensi dalla puzza che l’aveva avvolto. Nessuno era in grado di sostenere se lo spettacolo era da considerarsi un successo o un fiasco. Solo quando i dettagli di questa storia vennero a galla, si seppe, per esempio, che il giovane assistente-regista, l’unico che insieme al regista era a conoscenza e d’accordo per l’utilizzo della carcassa, aveva fatto una proposta leggermente diversa: utilizzare carogne di topi infilate sotto le poltrone, ma non in platea, bensì nei palchi riservati alle autorità.
museoLa curiosità professionale mi spinse di visitare a Linz, in Austria, il più strano e forse anche il più divertente museo che io abbia mai visitato, unico nel suo genere, fondato ben nel 1872 da un chirurgo locale, il Dott. Kirchgarden, un personaggio al quale di certo non mancava il senso dell’autoironia. Mi riferisco al museo degli oggetti dimenticati dai chirurghi nelle pance dei loro pazienti – ma il suo nome in tedesco (una sola parola) non sono ora in grado di riprodurlo. Si poteva trovare lì un’ampia gamma di strumenti chirurgici di tutte le epoche e dimensioni (spiccava, per esempio, un divaricatore toracale 30 x 40 cm d’inizio secolo, che il diavolo solo sa come poteva essere dimenticato dentro un paziente), molti dei quali oggi caduti in disuso (non è chiaro se per modernizzazione della chirurgia, oppure per la loro intrinseca tendenza, come veniva chiaramente comprovato dal museo, ad essere dimenticati su due piedi dentro la pancia di un qualsiasi paziente, senza troppe discriminazioni per livello di qualità o latitudine geografica dell’ospedale: per esempio se a Edimburgo, Melbourne, Los Angeles o San Paolo). Per il compiacimento di una natura un po’ sadica si potevano contemplare anche una moltitudine di altre cose, diciamo «extrachirurgiche», sufficienti a popolare una ben fornita botteguccia di cianfrusaglie. Si potevano ammirare, tra le altre cose, diversi orologi da polso (uno dei quali un «Rolex» – a dire il vero più che a una modesta bottega andava bene a una banca svizzera), due accendini e addirittura un paio di occhiali con montatura d’oro. Siccome non avevo trovato alcuna valida spiegazione sugli occhiali nelle altrimenti sempre precise didascalie che accompagnavano gli oggetti, mi sono incuriosito chiedendo informazioni all’unica guida del museo. Nominò il Professore cui gli occhiali appartenevano, un luminare della chirurgia contemporanea, del quale il nome non rivelerò ora. Ma, precisò, quella dimenticanza nella pancia del paziente non era colpa del Professore, bensì del suo assistente.
vino rossoUno scheletro sicuramente umano, scoperto tre mesi or sono durante un’operazione pianificata d’igienizzazione proprio nell’interno di una delle tre cisterne giganti dove viene prodotta l’intera quantità di vino del comune di Währing, alla periferia di Vienna, dall’esame del DNA risultò che apparteneva a Leopold W., scomparso da casa senza lasciare traccia la sera del 10 settembre 2001. I familiari e la polizia, sapendo che avevano a che fare con un noto bevitore, lo avevano invece cercato insistentemente per mesi nei canali, nei vitigni e nei bidoni d’immondizia presso le enoteche della zona, ma a nessuno venne in mente, in quei giorni torbidi per il futuro dell’Occidente, a cercarlo dentro le cisterne, dove rimane un mistero anche per gli esperti come Leopold sia riuscito a calarsi. Lo stesso anno, per la prima e, forse, per l’ultima volta, il vino del Comune di Währing vinse il primo premio in un concorso internazionale di enologia.
Il suddetto concorso si svolgeva in Transilvania.
obitorioNoi, in qualità di chirurghi di pronto soccorso abbiamo semplicemente preso atto dell’arrivo nel nostro reparto di due cadaveri verso le ventidue e dieci di mercoledì, portati alla nostra attenzione dal proprietario del bar dove era avvenuto il reciproco delitto (reciproco perché, come ci è stato riferito, si aveva a che fare con un massacro per accoltellamento tra l’uno e l’altro cadavere, a causa di una pietra terminale, vale a dire per ragioni di proprietà) il quale proprietario era, se non andiamo errati, l’unico testimone di questo grave fatto, cosa che lo spinse ad andarsene, immediatamente dopo aver compiuto questo atto umanitario, ricordiamo, tremante di paura perché, diceva, rischiava di veder andare in rovina il suo bar in virtù della caratteristica esplosione di dolore dei familiari dei morti (chiamiamoli comunque realmente morti), evento che puntualmente si avverò come abbiamo potuto leggere dai giornali (vedi la stampa locale di Rrashbull), e allora decidemmo di farli accompagnare, secondo protocollo, da un infermiere del pronto soccorso ciecamente affidabile e con esperienza quindicinale di trasporto all’obitorio di cadaveri, il quale poi ci giurò, ma immaginiamo giurò anche a voi quali organi competenti delle indagini, che nulla di straordinario era avvenuto durante quel triste incamminamento verso l’obitorio tranne una pioviggine e una sottile striscia di nebbia, in realtà un po’ inconsueta per quella fascia oraria in un giorno di metà ottobre, e che, nonostante la nebbia, nessuna persona si era sostituita ai morti, e a nessun altro era saltato in mente qualche scherzo macabro del genere, li facemmo dunque accompagnare come si deve, cosa che abbiamo già descritto, verso l’obitorio dell’ospedale, a 200 metri circa dal pronto soccorso, laddove l’obitorio storicamente è ubicato malgrado le continue richieste indirizzate alla Direzione Sanitaria per trasferirlo più vicino al pronto soccorso, semplicemente per una questione pratica, perché l’infermiere vedesse cos’era successo, tenendo conto dell’alta affinità che noi, chirurghi del pronto soccorso, abbiamo per l’obitorio; dove lui, l’infermiere in questione, con l’alta dedizione al lavoro che lo caratterizza, si munì anche di una ricevuta per presa consegna di cadaveri rilasciata da parte del tecnico dell’obitorio, anche lui uomo di lunga esperienza in quel posto di lavoro, anche se, dicono, un po’ ubriacone, condizione forse più che comprensibile tenendo conto del grosso carico psicologico con il quale di solito s’imbatte quando, non vogliamo mentire ma saranno passati forse un trequarti d’ora da questa procedura standard, la faccia sconvolta del tecnico dell’obitorio, il quale anche se abbiamo già detto che era un ubriacone non esalava dalla bocca nessuna puzza eccessiva di kognac o altri odori di superalcolici, a parte quell’aroma alcolico di sottofondo che anche noi stessi come chirurghi di pronto soccorso manifestiamo e, chiediamo scusa, per il vostro profilo di lavoro, immaginiamo che anche voi manifestiate come organi incaricati di indagini; ci comparve, per farla breve, alla porta della sala operatoria del pronto soccorso urlando e facendo delle gesticolazioni incontrollate con le braccia, simili un po’ ai giri dei mulini a vento, così che da tali urla, ma dopo un po’ anche dalle gesticolazioni, abbiamo saputo in ante prima quello che ormai sanno tutti dalla stampa di oggi, cioè che i morti (chiamiamoli comunque realmente morti), dopo che lui li aveva distesi per bene, come da prassi, in due tavoli di acciaio dell’obitorio ma, malauguratamente per il tecnico, un po’ vicini perché tutte e cinque gli altri tavoli erano occupati da cadaveri (compresa una testa mozzata che è lì da Natale senza che nessuno si faccia avanti) e li aveva coperti, sempre come da prassi, con lenzuola bianche, all’improvviso si alzarono, malgrado i generatori funzionavano perfettamente mantenendo, come lo stesso tecnico ci giurò, le temperatura adeguata della cella frigorifera, cioè –2°C, e con dei movimenti rigidi e netti da burattini si indirizzarono inizialmente verso il vicino tavolo, da dove afferrarono bisturi e coltelli (e addirittura una motosega, di quelle che si usano per spaccare la scatola cranica) e poi si scagliarono l’uno addosso all’altro pieni di odio fatto a forma di pietra terminale, ognuno staccando all’altro arti, naso, orecchie, dita, che cadevano rumorosamente sul pavimento e, naturale, senza una goccia di sangue, e non manifestando niente contro gli altri cadaveri ma, come ci è stato detto dal tecnico dell’obitorio (un dettaglio questo che potrebbe non aver raccontato durante le successive deposizioni come conseguenza della sua confusione mentale, ma che, forse, potrebbe risultare utile alle indagini), osservando con intensa e curiosa ammirazione la testa mozzata, con l’intero spettacolo che era durato un totale di 4-5 minuti e si era poi tolto dalla retina del tecnico dell’obitorio (ma era rimasto per sempre conficcato nei suoi incubi), quando lui ci corse incontro in cerca di aiuto, giusto nell’attimo in cui uno dei cadaveri tentava di mettere la spina della motosega, con l’unico sfacelo di braccio rimasto, composto dalla metà di una mano con sole due dita, e così allora, per tagliare corto, dopo questo racconto, noi come chirurghi di pronto soccorso, che come parte della nostra professione abbiamo la mancanza di paura dei morti (chiamiamoli comunque realmente morti), ci precipitammo verso l’obitorio per vedere tutto con i nostri occhi, cosa che se fosse stata possibile, grazie ai nostri occhi ben sviluppati, di sicuro avrebbe riportato tutti i puntini sulle «Ï», quando vedemmo, in forma di sciami umani, i due clan dei morti (chiamiamoli comunque realmente morti) avventarsi (uno dei due clan era tutto sopra un camion) da opposte direzioni verso l’obitorio per mettere in atto quello che noi abbiamo visto con i nostri occhi, ma che ormai sanno tutti dalla stampa: la riduzione in rovine, come accaduto al bar dove era successo il fatale litigio, di tutto l’obitorio, soltanto, come si dice, perché in preda alla disperazione e perché temevano un autopsia che era, secondo loro, del tutto indesiderata e senza valore, e dove loro si sono trovati davanti al fatto che dovevano prima calmare i propri morti (chiamiamoli comunque realmente morti) i quali, in realtà si sono subito e definitivamente calmati scorgendo l’arrivo dei loro cari, in santa pace perché potevano lasciare in mani sicure la continuazione della storia, e si sono così avviati a sdraiarsi da soli sotto le lenzuola, ma lasciando aperto ai loro familiari il problema che non si era più in grado di capire quale dito caduto sul pavimento appartenesse a chi, cosa che portò, dicono, che parte delle dita di un cadavere fossero seppellite con l’altro cadavere – il numero totale delle dita, comunque, fu esatto: cioè 39, perché uno dei due morti (chiamiamoli comunque definitivamente morti) era da tempo con un dito in meno –; attacco di clan questo che fece sì che noi tornassimo precipitosamente alla nostra postazione, cioè dentro la sala operatoria del pronto soccorso dove, secondo un metodo recentemente sviluppato e ben rodato, noi come chirurghi di pronto soccorso (che come parte della nostra professione abbiamo ormai la paura dei vivi, risultato delle perdite umane subite nei ranghi dei chirurghi di pronto soccorso, o semplicemente delle ferite e ematomi ripetuti e continui causati a tutti noi dai familiari dei vari cadaveri che, presi dalla disperazione, ci hanno spesso considerato noi come responsabili diretti o indiretti della perdita dei loro cari) mettemmo supino sopra il tavolo operatorio l’infermiere del pronto soccorso ciecamente affidabile e con un’esperienza quindicinale riguardante il trasporto all’obitorio dei cadaveri il quale, istruito alla meglio, interpretò anche stavolta brillantemente il suo ruolo di paziente alle prese con un intervento chirurgico mentre noi, vestiti chirurgicamente a tutti gli effetti, maschera e guanti compresi e con lo strumentario di un vero e proprio intervento chirurgico tra le mani, portavamo a termine il finto intervento aspettando che si calmasse un po’ l’onda odierna dei familiari armati, nella speranza questa volta interamente ricompensata che questa onda non traboccasse su di noi, e a parte quello che non si ripresentasse più uno di quegli altri piccoli incidenti capitati durante la prima fase, quella della messa a punto del metodo quando per esempio, messi sotto pressione da un familiare armato fino ai denti che fuori di sé si era intrufolato dalla strada direttamente in sala operatoria (anche lui in cerca di una testa mozzata che, grazie a Dio e giustamente, non era neanche passata per il pronto soccorso), uno di noi due (dalla tensione creatasi ancor oggi non siamo in grado di dire chi ma, in ogni caso, colui di noi il quale in quel momento stava interpretando il primario) fece all’infermiere del pronto soccorso ciecamente affidabile e con un’esperienza quindicinale riguardante il trasporto all’obitorio dei cadaveri, una vera e propria incisione addominale (la cui cicatrice la potete ammirare ancor oggi sulla pancia di quel povero Cristo) per simulare un intervento chirurgico di pronto soccorso il quale intervento fece sì che il finto paziente in questione urlasse con tale dolore e disperazione che il familiare della testa, fuori di sé, s’impressionasse talmente tanto che si limitò poi a sparare una raffica di kalashnikov soltanto al soffitto, fulminando del tutto la lampada operatoria mentre se ne usciva calmo dalla sala.
aquila bicipiteQuando nei Balcani il quinto stato in soli tre anni, appena dichiarata l’indipendenza, adottò come bandiera un’aquila bicipite (nonostante i colori dell’aquila e lo sfondo), la pazienza dello Stato Albanese giunse al limite e con una lunga e dettagliata nota di protesta indirizzata a tutte le più importanti istituzioni internazionali, chiese d’urgenza il non riconoscimento delle suddette bandiere giacché plagiavano spudoratamente quella albanese, una nota questa che fu presa in seria considerazione nelle relative sedi, anche se la loro possibilità di intervenire nella politica interna dei neo-stati era limitata, cosa che produsse una nuova ondata di delusione verso le istituzioni internazionali in Albania e, parallelamente, una forte ondata di nazionalismo pan-albanese, con la nascita di gruppi e forze politiche dalle proposte più strane, parte delle quali suggerivano, per esempio, un ampio attacco diplomatico, non solo verso gli stati con un’aquila bicipite nella loro bandiera, ma anche verso quelli con un’aquila con due teste, con una sola testa o senza nessuna testa nel loro stemma statale (stati per niente trascurabili come gli Stati Uniti, la Russia, la Germania, ma anche molti altri fuggiti alla nostra attenzione) mentre un altro partito, un po’ più realista propose dal canto suo (e la Galleria Nazionale delle Arti lo seguì al volo bandendo un concorso in concomitanza con la Festa Nazionale) di modificare graficamente l’aquila bicipite della nostra bandiera in coerenza con le nuove sfide del tempo, in modo tale che lei comunque si mantenesse superiore alle altre, ritoccando pesantemente in particolare la forma e le dimensioni del becco uncinato e degli artigli, mentre le proposte più estreme in quest’ambito arrivavano a chiedere la riammissione nella nostra bandiera dei Fasci Littori insieme con la Stella Rossa Partigiana, che di sicuro avrebbero dato all’aquila un’arma in più nella sua superbia verso le altre, cosa che naturalmente comportò la formazione di analoghi movimenti nazionalisti negli altri stati Balcanici, che cominciarono anche loro a fare delle modifiche con armamento grafico delle loro aquile, cosa che portò come conseguenza che una sessione straordinaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite disponesse la creazione a tempi brevissimi di una task force con il compito di monitorare in tutte le cerimonie ufficiali dell’ONU, ma anche in senso più lato in qualsiasi cena di lavoro, meeting, cerimonia di Olimpiadi, ecc... le bandiere Balcaniche con aquila bicipite, in modo tale da non lasciarle mai capitare insieme, per un maligno gioco del destino, nelle vicinanze, ma sempre divise una dall’altra da almeno quindici bandiere di altri stati, in caso contrario il rischio che le aquile (per di più che erano bicipite) bisticciassero, si azzuffassero, litigassero, combattessero, era molto, ma molto alto, con minaccia imminente che le bandiere in questione si riducessero reciprocamente a brandelli, rendendo così possibile l’inizio di un nuovo conflitto di dimensioni imprevedibili in quest’area ancora calda del pianeta. Arben Dedja (1964) è nato a Tirana (Albania), dove studiò Medicina e Chirurgia e si specializzò in Chirurgia Generale. Vive in Italia dal 1999 e lavora come ricercatore presso l’Università degli Studi di Padova. Pubblica articoli scientifici nel campo della trapiantologia e delle cellule staminali. In Albania sono usciti due suoi libri di poesie e tre di traduzioni poetiche («Tutte le poesie» di Guido Cavalcanti; «Poesie scelte» di Umberto Saba; e ancora «Poesie scelte» del poeta ceco Miroslav Holub). Autotraducendosi, ha potuto pubblicare suoi testi anche in Italia, in riviste («Semicerchio», «Pagine», «Dedalus»), riviste on-line («Sagarana», «El-Ghibli») e pagine on-line («Kúmá», «Absolute poetry», «Nazione indiana»).
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