MIRANDA Milva Maria Cappellini
Prendere un cane, come molti le suggerivano, non sarebbe stata una buona idea, su questo fin dal principio non c’era dubbio. Pure, Miranda aveva considerato l'ipotesi, per giungere presto alla conclusione che non avrebbe sopportato il cattivo odore nei giorni di pioggia e i peli dappertutto. Uno dei vantaggi dell'essere rimasta sola era appunto non sentire altri odori e non trovare altri peli se non i propri, in giro per casa. Anche essere obbligata a uscire ogni sera poteva essere un fastidio, e non tanto per il fatto in sé: anzi, la cadenza regolare dell'impegno le risultava un'idea rassicurante, come pure la leggera gravosità della faccenda, il passeggero disgusto della raccolta di escrementi caldi in un sacchetto di plastica. Piuttosto, era la provenienza esterna del vincolo a disturbarla: non sopportava più imposizioni di altri, fossero pure di origine canina. E dire che la sottomissione era stata, negli anni, la sua dote migliore. Una dote non innata, beninteso: qualcuno nasce forse disciplinato, con bisogni docili e sfinteri obbedienti? La qualità dell'ottemperanza ai voleri degli altri era stata acquisita semmai precocemente, ed esercitata con tale silenziosa minuziosità da apparire, agli inesperti, del tutto naturale, come una disciplina piccola e indolore, imparata senza sforzo e praticata con spontaneità. Certe donne sanno, invece, che per una esistenza intera è necessaria una montagna di petrosa osservanza, da polverizzare un po' ogni giorno, e da bere ogni giorno sciolta come una medicina in un bicchiere d'acqua, fino a spianare la roccia, fino a vedere di fronte a sé una vasta pianura.
Dunque, un cane non era la soluzione. E non lo era neanche – per svariati e concorrenti motivi – il volontariato, o il circolo del cucito.
Il problema, in generale, si era affacciato con la pensione per diventare poco più tardi, con la vedovanza, imperioso. Per tutta la vita, coerentemente con la sua condiscendenza, ogni azione di Miranda era stata generata e si era compiuta nel cerchio di una relazione, di un'esigenza altrui, di un obiettivo estrinseco; non ricordava di aver mai sentito il bisogno spontaneo di intraprendere niente. Così, una volta rimasta sola, senza figli, senza parenti prossimi, senza amici assidui o vicini socievoli, si era trovata ad avere ben poco da fare. Nessuno dei suoi studenti l'aveva mai cercata, dopo il diploma: era stata un'insegnante coscienziosa, ma poco incline a praticare o sollecitare negli altri intemperanze affettive o transfert o maternage.
La soluzione era venuta dal giornale, una mattina di settembre. Se certe notizie ti si attaccano, esigono che tu prenda risoluzioni operative e determinanti, vuol dire che qualcosa dentro di te era già pronto per quella notizia, quell'evento. L'articolo, poco più di un trafiletto in una pagina interna, dava conto del ritrovamento, nella parte indiana dell'Himalaya, della mummia di un uomo morto quasi seicento anni prima. Capelli e denti in sede, nessuna spaccatura della pelle, uno dei due bulbi oculari disseccato ma ancora nella sua orbita. Perfino gli organi interni al loro posto. Ma il fatto impressionante era che, secondo l'equipe di scienziati britannici recatasi al remoto villaggio dove da decenni il corpo era oggetto di riservata venerazione, l'uomo si era - a quanto pareva - automummificato. Una setta buddista, gli insegnamenti di un mistico giapponese, l'ascesi estrema, l'illuminazione in una sola vita. Il culmine della disciplina. Miranda ritagliò l'articolo e, dopo aver sistemato la casa come ogni giorno, andò in biblioteca a procurarsi informazioni sul maestro Kukai e sui fanatici Shington. Riempì un quaderno di appunti, scrupolosamente, e quando rientrò aveva preso la propria decisione.
Il primo e più importante passo era pianificare l'intera attività. Un’opera quasi decennale. Mille giorni di solitudine e progressiva riduzione del cibo. Altri mille di nutrizione speciale, fino ad arrivare ai giorni in cui solo l'acqua è permessa. Infine, mille giorni di sepoltura. Alla riesumazione avrebbero pensato gli altri, è ovvio. Ma bisognava procurarsi i viveri e l'acqua, la bara, il piccolo tubo di bambù per l'areazione. Il reperimento di certe sostanze – l'arsenico, la lacca rossa, il succo di urushi - avrebbe creato senz'altro difficoltà. Meno problematico, senz'altro, interrompere i già scarsi rapporti sociali, organizzare un isolamento non disturbato da incombenze e intrusioni, sparire.
L'aspetto che avrebbe potuto preoccuparla era quello spirituale. Genericamente cartesiana per indole e docilmente pragmatica per consuetudine, non aveva mai nutrito alcun particolare interesse per la religione né per l'interiorità. Anni prima - era alle soglie della menopausa e per qualche mese era stata preda di uno struggente bisogno di consolazione - spinta da una collega entusiasta, aveva frequentato un corso di meditazione; dopo due o tre incontri, aveva lasciato perdere, senza irritazione e senza giovamento. Risolse ora che, in ogni modo, alla trascendenza avrebbe semmai pensato in seguito: compiere azioni concrete, procurarsi e spostare oggetti, intervenire su realtà fisiche l'aveva sempre aiutata a soddisfare anche certi – peraltro limitati – bisogni profondi. Si mise al lavoro.
Calcolò che per l'organizzazione logistica sarebbero stati necessari alcuni mesi di lavoro. La domiciliazione bancaria risolse il problema di riscuotere la pensione e pagare bollette, luce, gas, spese di condominio. Da tempo non aveva più il telefono fisso, perfino il gestore nazionale aveva desistito dopo il rituale martellamento di proposte. Gli abbonamenti a quelle due o tre riviste erano in scadenza, bastava lasciarli scadere. Per depistare la corrispondenza, sarebbe stato probabilmente sufficiente togliere il cognome dalla cassetta delle lettere; e del resto le scrivevano in pochi, e nessuno si sarebbe allarmato non ricevendo risposta. Ebbe la buona idea di appendere subito un cartello con scritto affittasi a una delle finestre sul davanti: pensò che l’avviso avrebbe indotto a supporre un trasferimento imminente o addirittura già avvenuto, sollecitando quella curiosità effimera che garantisce poi, presto, la dimenticanza totale. Anche il progressivo inselvatichirsi del giardinetto sarebbe risultato normale, dissimulato nella leggera incuria del contesto: anzi, meglio smettere fin d'ora di strappare erbacce e potare aiuole. Le circostanze le erano straordinariamente favorevoli: la villetta approssimativamente liberty era rimasta quasi solitaria tra condomini di pochi piani sorti, nell'arco di qualche anno, nell’area di recente lottizzazione. Nel piccolo palazzo a fianco, un paio di appartamenti venivano affittati stagionalmente a studenti della vicina città universitaria, in un altro viveva una famiglia di adulti indaffarati e scontrosi. Pensò che avrebbe magari trascorso qualche giorno fuori, prima di iniziare, in modo che l'estinguersi di quel minimo di movimento risultasse graduale, inavvertito.
Cominciò a procurarsi il necessario per la futura vita quotidiana, sapone, biancheria. Per stipare tutto, fu necessario liberare spazio. Il servizio di ritiro rifiuti ingombranti fu abbastanza rapido e discreto. La cosa più faticosa era stata impacchettare libri e dischi. Rimase un letto singolo nella stanza degli ospiti, a pian terreno, rimasero alcuni tappeti e un tavolino basso. Qualche stoviglia, coltelli, bicchieri e caraffe, una teiera. Molti asciugamani e lenzuoli. Candele, e un piccolo scaldavivande simile a un bruciaessenze.
Poi fu la volta degli alimenti. Calcolarne la quantità non fu semplice: passò diverse serate seduta davanti alla calcolatrice, moltiplicando pesi per giorni, per mille e mille e mille giorni.
Per le castagne bisognò aspettare l'autunno. Furono intanto necessari innumerevoli viaggi a tutti i supermercati della città per ammassare sacchi di noci, nocciole, noce moscata, grano saraceno. E altrettante spedizioni sulle montagne vicine per mettere insieme intere balle di corteccia e radici di pino, pigne, foglie, radici e terra. Per procurarsi l'argilla, prima si rivolse alle erboristerie, poi, per accelerare i tempi, ai vivai di piante allineati lungo la superstrada appena fuori dalla città. Prudentemente, acquistava confezioni piccole, facendo viaggi non troppo frequenti. Stipava il bagagliaio della macchina e poi portava in casa il materiale un po' alla volta, un paio di borse piene, la consueta spesa settimanale: non c'era fretta, stavolta. Dopo tre mesi di accumulazione, l’abitazione era pieno di scatole di cartone chiuse con lo spago (con nodi non troppo stretti, perché non voleva rischiare che le forze mancassero proprio per quell'operazione banale), sacchi di juta, grandi buste di carta. Nelle stanze, che areava ogni notte, stagnava un odore umido di sottobosco, minuscole scolopendre correvano veloci lungo il perimetro delle pareti per rifugiarsi nel battiscopa di legno. Di giorno, mentre nelle lame di sole danzava il pulviscolo, piccole tarme farinose volavano nel corridoio.
Ordinò tavole di legname grezzo tagliate a misura, recuperò nel ripostiglio martello e chiodi, reliquie del tempo in cui suo marito dedicava al bricolage i pomeriggi di sabato. Con cautela, cercando di attutire i rumori, inchiodò le assi a formare un parallelepipedo sufficiente a contenerla; non era necessaria una grande stabilità, ma cercò lo stesso di eseguire il lavoro con precisione. Quando si sdraiò dentro la cassa, per prova, non avvertì speciali emozioni, ma solo il formicolare dei muscoli che pian piano si raffreddavano e, dopo, un indolenzimento alla mascella, per aver serrato i denti senza avvedersene.
Comprò subito, in uno dei negozietti cinesi che pullulavano in centro, una specie di chimono rosso a ricami dorati, per la vestizione finale; evitò di chiedersi chi e come avrebbe provveduto all'incombenza.
Alla fine, rimasero da reperire i due ingredienti più difficili: il succo di urushi e l'arsenico. Nelle ricerche di quei mesi – svolte alle postazioni internet della biblioteca in ore mattutine, quando le grandi sale erano popolate solo da pochi studenti svogliati – aveva acquisito dimestichezza con la rete e con i motori di ricerca. Imparò come ordinare prodotti e compiere operazioni bancarie; rimpianse di aver trascurato l'inglese, in una vita quasi tutta spesa – dopo un esordio promettente, con un semestre accademico in una grande capitale durante il quale aveva sofferto silenziosamente una nostalgia feroce - dentro i confini nazionali.
Il succo puro di urushi era introvabile. Fece di necessità virtù, ripiegando su surrogati e semilavorati. La flessibilità può essere un valore perfino in un orizzonte di intransigenza assoluta. Imparò che l'urushi viene dal Japan Varnish Tree, l'albero della lacca, e visitò tutte le mesticherie della regione per acquistare molte confezioni di una costosa vernice per mobili che ne conteneva, stando alla lista degli ingredienti, dosi significative. Nella casa si diffuse un odore vetroso di colla: uno dei contenitori doveva essersi aperto nel trasporto.
L'ostacolo dell'arsenico invece sembrava davvero insormontabile. Bisognò rinunciare di nuovo al rigore che pretendeva ingredienti esatti e puri, e rivolgersi anche in questo caso a succedanei. Del resto, nemmeno l'aria dell'Himalaya, che forse aveva una parte nell'intera operazione, era riproducibile in quella cittadina di pianura.
Scoprì che in Australia era in vendita un prodotto contro le termiti che conteneva arsenico, tentò di acquistarlo online ma la procedura risultò così complicata da scoraggiare la sua recente testardaggine. Inoltre, non tutto l'iter le sembrò legale, e lei non intendeva trasgredire alcuna legge. Alla fine, risolse di arrischiare una visita al liceo dove aveva insegnato per decenni: i colleghi la accolsero con incredulità, ricordando la sua eterna riservatezza e la sua totale scomparsa dopo il pensionamento (non aveva partecipato nemmeno alla tradizionale festicciola per il personale in uscita, e il foulard di seta comprato con un fondo istituito all'uopo in sala docenti era rimasto in un cassetto della vicepresidenza). In sala docenti, Miranda simulò con qualche sforzo cordialità e generico rimpianto. Resa temeraria dalla disperazione, chiese del collega di chimica, bell'uomo brizzolato dalla tenace fama di libertino. Con qualche sorrisetto imbarazzato, subodorando chissà quale tresca o attardata illusione di vedova inquieta, i bidelli la indirizzarono al laboratorio. Qui, Miranda prodigò invano le proprie mediocrissime competenze salottiere: manovrando con gran fatica la conversazione che stentava, tirando in ballo Madame Bovary e la contaminazione dei frutti di mare, riuscì a estorcere al professore – interdetto dalla visita inaspettata e dalla loquacità inedita – un'informazione preziosa: sì, la leggenda che circolava era vera, nell'armadietto erano conservate vecchie confezioni di sali arsenicali. Ma la chiave era stata smarrita da tempo e i sali di certo ossidati. Miranda si alzò con un gesto stanco dallo sgabello accostato ai banconi pieni di provette. Sollevato dal congedo che si profilava imminente, il professore come sempre in vena di scherzi le suggerì, se proprio voleva avvelenare qualcuno, di usare l'orzata: le mandorle amare (Prunus dulcis varietà amara, precisò) contengono amigdalina ed emulsina che, quando il seme viene schiacciato e bagnato, si combinano e liberano acido cianidrico, detto anche prussico, che in quantità apprezzabili risulta tossico. E lo stesso accade con le armelline, il seme bianco all'interno del nocciolo dell'albicocca. Era quanto bastava a Miranda, che ricordò all'improvviso le ipotesi sulla morte di Napoleone per avvelenamento accidentale, tra orzata e calomelano somministrato come purgante. Prima ancora di controllare le dosi di tossicità, comprò tutte le mandorle amare che riuscì a trovare in negozi e ingrossi per pasticceri, aggiungendo anche fiale di essenza, come rinforzo. Comprò chili di albicocche e confezioni di lassativi energici. Tornò in biblioteca e apprese che l´avvelenamento mortale, nell'uomo adulto, in realtà avviene dopo assunzione di 7~5 ml di olio di mandorle amare contenente il 2~4% di acido cianidrico; sufficienti una quindicina di mandorle appena. Impiegò un'intera giornata a calcolare con qualche approssimazione le dosi progressive necessarie per mandare a buon fine (nei tempi lunghi previsti: una sorta di mitridatizzazione, ma con esito capovolto, infausto) l'intero procedimento. Poi si mise al lavoro. Per tutta la vita, seppure quasi sempre controvoglia, aveva cucinato: non sarebbe stato troppo complicato ottenere olio dai semi ovali e scanalati, aguzzi alle estremità, profumati di cannella. Eliminò con facilità la buccia immergendoli per qualche minuto in acqua bollente. Anche per la spremitura a freddo dovette usare mezzi di fortuna: schiacciò le mandorle e le armelline nel mortaio, poi improvvisò una gramolatura nel frullatore, infine distribuì la pasta su dischi sovrapposti di carta da forno che pressò con due mattoni recuperati in giardino. Scartò la sansa e imbottigliò il liquido – forse un po' troppo torbido e denso. Preparò anche una gran quantità di decotto di foglie di lauroceraso (una siepe cresceva provvidenzialmente nella striscia di giardino sul retro). Finalmente, allineò le bottiglie di vetro scuro chiuse con tappi a vite, affinché l'apertura non fosse troppo faticosa nemmeno a dita indebolite dal digiuno. Cucinò pappe di cereali, schiacciò noci, pelò castagne, riempì ciotole.
Ora tutto era pronto. Concluse che avrebbe del tutto tralasciato la dimensione spirituale, che all'inizio l'aveva preoccupata. L'illuminazione, nel caso, sarebbe venuta da sé. Era ormai estate piena, la città era quasi vuota. Una mattina, Miranda con le cesoie da cucina tagliò i capelli grigi all'altezza delle orecchie, come immaginava si facesse alle suore al momento dei voti perpetui. Chiuse con cura persiane e finestre, e serrò il portone d'ingresso con i due chiavacci che, sebbene un po' sgangherati, l'avevano protetta per decenni; staccò la corrente elettrica e il gas (non l'acqua, indispensabile per quel po' di igiene alla quale non avrebbe saputo né dovuto rinunciare, almeno all’inizio); dispose, in camera e lungo il corridoio e poi nelle stanze accanto, i prodotti che avrebbe dovuto assumere nei mesi a venire: l'ordine di consumo era inverso, poiché Miranda non si nascondeva certo che, con il passare del tempo, sarebbe stato sempre più arduo percorrere quei pochi metri, quei centimetri; mise un telo impermeabile sul materasso e lenzuola pulite, ben tese; si lavò con cura e si pettinò, poi indossò una camicia da notte bianca, quella tenuta in serbo per anni in vista di eventuali emergenze ospedaliere. Su una sedia adagiò, piegato con cura, il chimono: sopra, bene in vista, un foglio contenente le istruzioni da seguire per completare, al momento debito, il rituale; sperava vagamente che i soccorritori – non ci sarebbe stato soccorso da prestare, ma sul momento non seppe trovare un termine migliore – avrebbero agito con la reverenza dovuta alle circostanze.
Da settimane, in camera era sistemata la bara, parallela al letto nello spazio tra questo e la finestra, abbastanza vicino da potervi al momento stabilito scivolarvi con facilità. La cannuccia di bambù, procurata durante una camminata primaverile sull'argine del fiume, fuori città, e lasciata a essiccare per alcuni mesi sul balcone, era posata all’interno della bara stessa, all'altezza del volto della futura giacente: la sua funzione pratica era nulla, dato che la fase del seppellimento in vita era impensabile in assenza di aiutanti; ma era un simbolo potente e Miranda non intendeva rinunciarvi.
Infine, si sdraiò sul letto stretto come una branda o una barella. Supina, con le braccia stese lungo i fianchi, cominciò ad aspettare, respirando nella penombra. Subito affiorarono immagini e ricordi; memore di ciò che il maestro raccomandava al corso di meditazione, si sforzò di guardarle senza lasciarsene turbare e senza affannarsi a cacciarle. Prima rivide scene recenti della preparazione, poi il profilo di sé bambina con un vestito di nylon rosa, e di seguito gli occhi di sua madre, il volto di un'amica perduta molti anni fa, lo sguardo senza sorriso di suo marito. Si assopì quasi subito. Al risveglio, si girò nel gesto usuale di cercare l'ora, ma si rese conto di aver buttato anche la sveglia, con l'orologio e i calendari: era stato forse un errore, ma avrebbe rimediato osservando l'alternarsi di luce e buio. In fondo non era necessaria una grande precisione, il tempo scorre da sé. Si alzò, raggiunse l’estremità più lontana del corridoio costeggiando tazze e scatole. Masticò alcuni gherigli di noce e un po' di pasta di grano saraceno e bevve un po' d'acqua. Si addormentò di nuovo e si svegliò nel buio: dalle persiane non filtrava più la luce del giorno. Sentì salire un primo senso di nausea, forse di paura. Cercando di mantenersi sdraiata sulla schiena, composta e dignitosa come la solennità del momento richiedeva, chiuse di nuovo gli occhi e si riaddormentò. La svegliò un senso di freddo agli arti, incongruo nella canicola di luglio. Andò in bagno, appoggiandosi agli stipiti per non cadere: il ribrezzo le dava il capogiro. Bevve di nuovo, un bicchiere d'acqua con un cucchiaio di argilla, e tornò a letto. Sentiva la lingua gonfia e impastata sul palato, le membra intorpidite. Si addormentò di nuovo, si svegliò e si addormentò. Nei dormiveglia, vedeva filtrare dalle persiane, in successioni confuse, ora la luce imperiosa del giorno, ora quella attutita dei lampioni. Cominciò a faticare nell'alzarsi: mangiare le nocciole e le noci moscate, mettersi in bocca manciate di poltiglia inacidita, sciogliere l'argilla nell'acqua, andare in bagno diventarono azioni sempre più lente e gravose; salire di nuovo sul letto era uno sforzo che la lasciava sudata e ansimante. Dopo aver bruciato una sola volta qualche grano di incenso oleoso, non aveva più acceso lo scaldavivande. Non avvertiva più, come i primi tempi, le fitte della fame, ma il voltastomaco non l'abbandonava un istante e fitte acute le trapassavano tempie e nuca. Si svegliava in preda a brividi violenti, si trascinava carponi sul pavimento per raggiungere le scodelle e le bottiglie, impiegava ore per rimettersi sdraiata, supina, sul letto. Ebbe lunghe allucinazioni olfattive, con ondate repellenti di profumi rancidi mischiati ad aglio e carne putrefatta, e i conati la scossero. Poi vennero impressioni di sapori immondi, e vomitò succhi giallastri, imbrattando il cuscino che ebbe appena la forza di girare. Da fuori venivano di tanto in tanto rumori indistinti, poi lunghi silenzi, poi ancora rumori; una sola volta, una scampanellata, ripetuta due volte. Nella stanza le ombre si facevano dense, corpose; il letto a volte sembrava girare forsennatamente su se stesso, le pareti si stringevano e si dilatavano come in uno stomachevole respiro spugnoso. Poi fu il suo corpo a gonfiarsi a dismisura, e poi a stirarsi. Sulle gambe, le ramificazioni di capillari si trasformarono in ampie, compatte chiazze violacee. Un giorno, svegliandosi, valutò che fossero passate settimane. Poi le parvero mesi. Poi anni, forse. Stimò che fosse giunto il momento di passare alle cortecce e alle radici di pino: se ne procurò una manciata in ore di sforzi, cominciò a masticare ma la resina le legava i denti, le scaglie dure le raschiavano il palato gonfio. Ributtò ancora, schiuma con striature di sangue, riuscì a strisciare fino al bagno ma non a sedersi sul gabinetto e riempì il piatto della doccia di feci liquide e verdi; si addormentò sulle piastrelle bianche, al risveglio le sembrò che lungo le commettiture sfilassero, vicino al suo viso, scorpioni e piccoli ramarri. Raggiunse il letto, salirvi le costò un tempo incalcolabile. Pianse, e le lacrime e il muco si seccarono sul suo viso. Ebbe visioni oscene, tentazioni simili a quelle degli anacoreti nel deserto: il suo ventre arido da anni sembrò liquefarsi in desideri innominabili, sentì odore dolciastro di sangue mestruale. Sentì un corpo parassita spuntarle dall’ombelico e pesarle addosso, ottusamente. L'urina le scaldò cosce e reni, ma quando ebbe la forza di allungare la mano sentì la stoffa della camicia quasi asciutta. La pelle le si fece secca, i polpastrelli squamosi; sollevare le palpebre diventò una pena, tanto che cominciò a tenere gli occhi chiusi, negli spostamenti di giorno in giorno più rari e brancolanti. Passarono, certamente, altri mesi, certamente anni. Venne la neve che la coprì, a larghe falde, e poi una nuvola di falene che le riempì la bocca e le narici. I pensieri si estinsero, e dopo anche le sensazioni. Sentiva rimbombare nella testa soltanto i battiti del cuore e il raschiare della deglutizione, poi suoni metallici, sibili e scoppi improvvisi. Non aveva più vomito ma rigurgiti continui e acidi che le davano piccole convulsioni alle spalle e alla gola. Proseguì nella sua sequenza di sonno e veglia, per altre settimane, altri mesi, anni. Avvertiva insetti pesanti zampettare sulle gambe fredde. Le sembrò, una notte, di sentire scrosci d'acqua, un temporale con tuoni e lampi: la luce accecante che esplose nella stanza le sembrò il segno che annunciava un'altra fase. Strisciò fino alle bottiglie di acqua mischiata con vernice, succedaneo dell' infuso di urushi, e ne bevve un sorso che le bruciò le labbra e la gola. Rigettò, bevve di nuovo. Si addormentò sul pavimento, o perse i sensi. Si svegliò dopo anni. La camicia da notte era sporca di vomiticcio e di escrementi, intrisa di sudore. I lampi continuavano, il rumore nel cranio era insopportabile. Ritenne di non poter più aspettare. Strusciò sulle mattonelle gelate fino alle boccette con l'olio di mandorle; faticò ore, con le dita rattrappite, a svitare il tappo che rotolò lontanissimo. Trascinarsi fino alla bara, dall'altra parte del letto, le apparve un'impresa impossibile. Un aroma di coccoina di diffuse per la stanza, risucchiandola verso la sua aula di prima elementare, mentre mandava giù, con le ultime energie, un lungo sorso amaro.
***
- Jezusi, qëerë! Nuk duhet të jetë një kafshë të vdekur ose qese mbeturinash harruar diku.
- Dhe priste? Eshte një shtëpi e braktisur, apo jo? Kjo nuk është hotel. Do t'i japesh një të pastër jo, nuk do qëndrojme këtu përgjithmonë, apo jo? Tani për tani, derisa njerëzit të kthehen nga pushimet deri në shtator. Akoma më mirë se duke fjetur në stacionin, apo jo?
- Unë nuk e di, nuk është shtëpia jonë, kjo ... Ne nuk erdhem për të vjedhur shtëpitë ...
- Por ajo është e pabanuar, nuk është ajo? Pra, çfarë? Dëshironi të qëndrojë ende në stacion, me të varurit nga droga, dhe me gjithë policisë, dhe me fëmijët? Dhe me fëmijën që ka një ethe për tre ditë ... Po ku janë ata të mallkuar? Hey, prisni, Fabian, Laert, Brunhilda... damn, mos alloni të vraponi andej-kendej, mos beni xhurm, gjykoj ...
- Hey, oh ma, oh pa, hajdeni, përtej tokë është një grua e vjetër që babbles, është plot me mut! Cfare erë e keqe! Nëse e vajme, ne mund ta ...?*
(* -Gesù, che odore! Dev'esserci una bestia morta, o sacchi di immondizia dimenticati da qualche parte..
- E che ti aspettavi? E' una casa abbandonata, no? Mica un albergo. Darai una pulita, mica dobbiamo rimanere qui per sempre, no? Per ora, finché la gente non torna dalle ferie, fino a settembre. Meglio che dormire ancora alla stazione, no?
- Non lo so, non è casa nostra, questa... non siamo mica venuti per rubare le case...
- Ma è disabitata, no? E allora? Vuoi stare ancora alla stazione, con i drogati, e con tutta quella polizia, e con i bambini? E con il piccolo che ha la febbre da tre giorni… Ma dove sono ora quei dannati? Ehi, aspetta, Fabian, Laert, Brunhilda, dannati, non cominciate a correre di qua e di là, non fatevi sentire, dannati...
- Ehi, mamma, mamma, vieni, di là per terra c'è una vecchia che farfuglia, è tutta piena di cacca! Senti, senti come puzza!
- Se la laviamo, la possiamo tenere?)
(Per la parte in albanese, ringrazio di cuore Izaura Avdulaj).
Milva Maria Cappellini č nata a Pistoia, dove insegna al liceo. Si č a lungo occupata di lessicografia, di didattica e di editoria scolastica. Ha lavorato sulla letteratura popolare dell'etŕ medievale e moderna e su autori moderni e contemporanei. Ha curato edizioni di autori soprattutto otto-novecenteschi, tra i quali Gabriele d'Annunzio, Giovanni Boine, Renato Serra, Geno Pampaloni e della scrittice pistoiese Leda Rafanelli (ma anche di Giovanni Boccaccio e Giambattista Basile). Collabora a diversi periodici letterari. In uscita un volume sulla storia della casa editrice fiorentina Barbčra e l'edizione genetica e commentata della tragedia dannunziana La nave. In preparazione, tra l’altro, un volume di saggi sulle fonti dannunziane e una raccolta di novelle anticolonialiste di Leda Rafanelli. Ha scritto un romanzo a quattro mani, Il dio delle donne, con Roberto Piumini.
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