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Sagarana IL VENTRE DI UNO SCONOSCIUTO


Brano tratto dal romanzo Una forma di vita


Amélie Nothomb


IL VENTRE DI UNO SCONOSCIUTO



 

(…) Cara Amélie Nothomb,
sto un po’ meglio e trovo la forza per scriverle. Bisogna che le spieghi: soffro di una malattia sempre più frequente tra le truppe americane inviate in Iraq. Dall’inizio dell’intervento nel marzo del 2003, il numero dei malati è raddoppiato e la percentuale continua ad aumentare. Sotto l’amministrazione Bush la nostra patologia veniva nascosta, era ritenuta degradante per l’immagine dell’esercito americano. Dopo l’elezione di Obama i giornali hanno cominciato a parlare di noi, ma in punta di piedi. Lei starà sicuramente pensando a una malattia venerea ma si sbaglia.
Sono obeso. Non è la mia natura. Da bambino, da adolescente, ero normale. Da adulto, sono dimagrito a causa della povertà. Ni sono arruolato nel 1999 e sono ingrassato in fretta, ma non in maniera esagerata: ero soltanto uno scheletro affamato al quale veniva finalmente concessa la possibilità di mangiare. In un anno ho raggiunto quello che doveva essere il mio peso di soldato muscoloso: 80 chili. Mi sono mantenuto così senza difficoltà fino alla guerra. Nel marzo del 2003 ho fatto parte del primo contingente inviato in Iraq. Laggiù sono iniziati subito i problemi. Ho affrontato i miei primi veri combattimenti, con il lancio dei razzi, i carri armati, corpi che ti esplodono accanto e uomini che sei tu a uccidere. Ho scoperto il terrore. C’è gente coraggiosa che sopporta, io no. C’è gente che perde l’appetito per questo, ma la maggior parte, tra cui ioi, ha una reazione opposta. Torniamo dal combattimento stupefatti, sbalorditi di essere ancora vivi, spaventati, e la prima cosa che facciamo dopo esserci cambiati i pantaloni (ce li sporchiamo a ogni esplosione) è buttarci sul cibo. Per la precisione, partiamo con una birra – anche questo è cosa da grassi, la birra. Ci scoliamo una o due lattine e poi arraffiamo roba più consistente. Gli hamburger, le patatine fritte,i peanut butter and jelly sandwiches, l’apple pie, i brownies, i gelati, ci può dare dentro a volontà. E noi ci diamo dentro, eccome. È incredibile quanto riusciamo a ingurgitare. Siamo fuori di testa. Qualcosa si è rotto dentro di noi. Non è che ci piaccia mangiare così, ma è più forte di noi, potremmo ammazzarci di cibo, e forse è proprio quello che tentiamo di fare. All’inizio alcuni vomitano. Io ci ho provato, ma non ci sono mai riuscito. Lo avrei tanto voluto. Stiamo malissimo, con la pancia sul punto di scoppiare. Giuriamo a noi stessi di non rifarlo mai più, è troppo doloroso. L’indomani dobbiamo ritornare a combattere, prendiamo parte a orrori peggiori di quelli del giorno prima, a cui è impossibile abituarsi, ci viene una diarrea mostruosa senza che possiamo smettere di sparare e di correre, e vorremmo che l’incubo finisse. Chi scampa a quell’inferno è ridotto a un vuoto. Allora, ricominciamo con la birra e il cibo e poco a poco lo stomaco si dilata al punto da non fare più male. Chi vomitava non vomita più. Ingrassiamo come porci. Ogni settimana siamo costretti a chiedere una divisa più grande di una taglia. La cosa ci mette in imbarazzo, ma nessuno riesce a invertire la tendenza. E poi non è il nostro corpo. Questa faccenda succede al corpo di qualcun altro. Quel cibo lo scaraventiamo nel ventre di uno sconosciuto. La prova è che ce be accorgiamo sempre meno. E allora ingurgitiamo ancora di più. Non proviamo piacere, ma un atroce conforto.
Il piacere, io lo conosco: non è questo. Il piacere è qualcosa di grande. Per esempio, fare l’amore. Non mi capiterà mai più. Innanzitutto, perché non mi vorrà nessuno. Poi, perché non ne sono più capace. Come si fa a muovere seppure di poco un corpo di 180 chili? Riesce a immaginarselo? Da quando sono in Iraq, sono ingrassato di cento chili. Diciassette chili l’anno. E non è finita. Ne ho ancora per diciotto mesi: il tempo di prendere trenta chili. Ammesso che tornato al mio paese smetta di ingrassare. Io sono come tanti soldati americani, un bulimico incapace di vomitare. In queste condizioni, dimagrire è l’ultima cosa ipotizzabile.
Cento chili è una persona enorme. Mi sono arricchito di una persona enorme da quando sono a Baghdad. Dato che mi è capitato qui, la chiamo Sharazád, che doveva essere una creatura snella. Preferisco però identificarla con una persona sola piuttosto che con due, e con una donna piuttosto che con un uomo, sicuramente perché sono eterosessuale. E poi, Sharazád fa proprio al caso mio. Mi parla per notti intere. Sharazád sa che non posso più fare l’amore, allora sostituisce quell’atto con bellissime storie che mi incantano. Voglio confidarle il mio segreto: è grazie alla mia immaginaria Sharazád che sopporto l’obesità. Se i miei compagni sapessero che ho assegnato al mio grasso un nome di donna, non devo farle un disegno di quello che mi succederebbe. Ma lei, so che lei non mi giudicherà. Nei suoi libri ci sono parecchi obesi, e lei non li descrive mai come persone senza dignità. E nei suoi libri, i suoi personaggi inventano bizzarre leggende per continuare a vivere. Come Sharazád.
Ho l’impressione che sia lei a scrivere questa lettera: non riesco a farla smettere. In vita mia, non ho mai composto un messaggio così lungo, ecco la dimostrazione che non ne sono io l’autore. La mia obesità mi fa orrore, ma amo Sharazád. La notte, quando il mio peso mi opprime il petto, penso che non sono io, ma immagino che sia una bella ragazza sdraiata sul mio corpo. Se riesco a calarmi completamente in questa fantasia, sento la sua dolce voce femminile mormorarmi all’orecchio cose ineffabili. Allora, le mie grosse braccia stringono quella carne e la convinzione è così potente che, invece di sentire il mio grasso, tocco la soavità di un’innamorata. Mi creda, in quegli istanti, sono felice. Meglio: siamo felici, lei e io, come solo due amanti possono esserlo.
So che questo non mi protegge da nulla: si può morire di obesità, e visto che continuerò a ingrassare mi succederà di certo. Ma se Sharazád mi ama davvero morirò felice. Ecco. Sharazád e io volevamo raccontarle questo
Sinceramente,
Melvin Mapple
Baghdad, 5/03/2009 (…)






Brano tratto dal romanzo Una forma di vita, Voland editrice, Roma, 2012. Traduzione di Monica Capuani.




Amélie Nothomb
Amélie Nothomb (Kobe, 13 agosto 1967) è una scrittrice belga. Figlia di un ambasciatore belga membro di una delle famiglie brussellesi più in vista ha trascorso la sua infanzia in Giappone, per poi trasferirsi in Cina per ragioni diplomatiche. Autrice, tra l’altro, dei romanzi Biografia della fame e di Uccidere il padre.




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