Torna alla homepage

Sagarana LA PAROLA NO


Brano tratto da Lo sguardo estraneo ovvero La vita è una scorreggia in un lampione


Herta Müller


LA PAROLA NO



 

(…) Durante l’interrogatorio l’accusa non si limita ai resoconti forniti dalla spia. I fatti realmente accaduti le servono soltanto come promemoria, per muoversi da lì verso teoremi imprevedibili. Ma un promemoria è importante. L’accusatore deve sapere quali e quante invenzioni può connettere ai dati di fatto. Il suo mosaico dev’essere  governato da una logica pedante, in modo che egli possa reggere le fila di tutto quanto. Che qualcosa non sia accaduto non costituisce una deficienza bensì un vantaggio. All’interno dell’invenzione l’accusatore può muoversi più liberamente di quand’è costretto dai vincoli della realtà effettuale.
Dalla sua situazione di difesa all’insegna della più assoluta debolezza, la cosa migliore che può fare l’accusato è avviare un contraddittorio che entri nel merito dell’invenzione. La parola NO sarebbe la più ovvia, potrebbe e dovrebbe venir ripetuta di continuo a propria difesa. Eppure, per difendersi, NO è la parola più sciocca. È troppo breve, è qualcosa che si disperde senza attirare l’attenzione dell’accusatore. Durante l’interrogatorio NO è il contrario di una difesa; l’accusato si è arreso e si lascia travolgere dall’accusa nel momento in cui dice NO anziché mettersi a discutere. Inoltre, quanto meno discute tanto più tempo lascia all’accusatore per l’ampliamento del suo teorema.
Durante l’interrogatorio DISCUTERE significa entrare nel merito di ciò che è stato inventato. In quanto accusato bisogna non tener conto di chi si è in realtà. Bisogna dedicarsi a colui che viene presentato nel contesto dell’invenzione – senza confondere tuttavia se stesso con l’invenzione. Occorre attenersi rigidamente all’invenzione, non si deve esulare mai dal suo contenuto, ritenendo di evitare in tal modo l’invenzione successiva. Con dettagli non inerenti all’invenzione si spalancano semplicemente porte che forse l’accusatore da solo non avrebbe aperto. Un’unica parola detta di troppo può suggerire nuove sfumature o intere diatribe alla cieca. A propria difesa non si devono mai tirare in ballo elementi che non siano già presenti nell’accusa. Non si deve fare una contro domanda. Non si deve turbare il senso di sovranità che anima l’accusatore. Ma quand’è il proprio turno bisogna parlare finché non si viene interrotti. Frapporre delle pause di silenzio alla ripetizione dei propri NO fa andare in collera l’accusatore, gli rovina l’opinione che ha di sé. Lui vuole che l’accusato si dia da fare, ha bisogno della sua collaborazione. L’accusato deve partecipare all’interrogatorio con tutta la sua testa e con tutta la sua testa se ne deve tener fuori, verificando continuamente se si tratta di rimasticature di vecchie accuse o di una nuova colpa che gli viene imputata. Se si tratta della rimasticatura di un vecchio interrogatorio bisogna essere più attenti che mai, in modo da ripetersi con la massima esattezza, meglio ancora se con le stesse parole. Si deve mantenere nei propri confronti lo stesso distacco che si ha verso l’accusatore, senza però abbandonarsi all’impassibilità. Soltanto a questo modo ci si può aiutare. È solo nel magnetismo dello scrutarsi a vicenda che si può avere una chance.
Ma si dispone soltanto di una testa. In quante diverse persone ci si trasforma, per metà o per un quarto, durante ogni interrogatorio? E quali sono quelle di loro che svaniscono o che restano nel cranio dopo che l’interrogatorio è finito, intanto che il prossimo, se ne può essere certi, è già alle porte?
La propria testa ne rimane turbata, com’è normale in base alla tattica distruttiva dello stato e al suo contesto. La reciprocità magnetica dello sguardo diventa una seconda natura, da cui ci si aspetta un qualche sostegno.
Solo dopo aver lasciato uno stato del genere i perseguitati possono dirsi fuori dal circuito magnetico. Lo sguardo addestrato a lanciare intorno delle occhiate profondamente inquiete in brevi sequenze è uno sguardo deformato. Nel nuovo ambiente, dove la maggior parte della gente non ce l’ha, fa l’effetto di qualcosa che guizza sul volto. Lo sguardo estraneo che ci si è portato appresso è una cosa vecchia. Di nuovo ha soltanto che, in mezzo agli altri sguardi integri, lo si nota. Non lo si può eliminare dall’oggi al domani, forse non lo si potrà mai.
Di questo sguardo le persone integre se ne accorgono alla svelta. Credono che questo sguardo si sia sviluppato adesso e che siano loro stessi e il loro ambiente la causa di questo modo di scrutare. Riferita a questo sguardo, ho sentito usare già più volte, da parte di persone integre, la parola “contestatario”. E intendevano dire che, con questo sguardo “contestatario”, non dovevo meravigliarmi se nel paese da cui venivo mi avevano trattato male. Quest’affermazione comporta che sia stata io a costringere la dittatura a perseguitarmi e non essa a impormi questo sguardo.
Che la gente di qui si mostri così infastidita, così infondatamente e smisuratamente allarmata nei confronti di chi è estraneo, tanto da distanziarsene come per istinto, tutto ciò è qualcosa che ha a che fare con questo sguardo. Non è che io voglia prendere le difese dello sguardo estraneo. Esso fa il suo lavoro senza badare a chi non c’entra nulla, rivela il proprio nervosismo perché non può fare altrimenti. Nello scompartimento ferroviario, al supermercato, nella sala d’attesa o nel negozio di fiori affronta gli altri, osservandoli in una maniera vivace e penetrante a cui non sono abituati. Spiana volti e gesti di sconosciuti, pervenendo a rapide constatazioni, come si è esercitato a fare per anni e anni: gli basta un’occhiata e ha già incorporato la decifrazione. Per chi è integro ha la stessa scarsa indulgenza che quello ha per lui. Gli capita di trarre conclusioni errate, spesso drastiche, che non vengono corrette. Lo sguardo estraneo si mette aggressivamente in difesa, senza che ce ne sia alcuna necessità. Ha bisogno dello stato d’allarme a cui è abituato, della continua irritazione in brevi cadenze, si ricarica con chi gli sta casualmente di fronte, si serve di persone che non c’entrano in alcun modo. Proietta su di queste la malevolenza che gli occorre per replicare con un atteggiamento difensivo, attribuisce loro: insensibilità, freddezza, perfidia. E, se chi gli sta di fronte è cordiale, lo incolpa di ipocrisia. Lo sguardo estraneo non ce lo si può accattivare, dal momento che esso mescola con la sua vita passata gente che non ha nulla a che farci, si ritiene offeso ed è incline alla presunzione. È ben possibile che lo sguardo estraneo col suo continuo atteggiamento provocatorio – che però non ha alternative – sia corresponsabile dell’ostilità che suscita in chi ne è il bersaglio incolpevole. Mette a repentaglio se stesso come se avesse qualcosa da nascondere. Nello sguardo estraneo si annida la doppiezza degli oggetti insignificanti che gettano ombre significative, l’opposizione del denudarsi per farsi crisalide. Esso somiglia alle cose del suo mondo sotto sorveglianza d’un tempo.
Una volta ho comprato la cartolina illustrata di un paesaggio bavarese su cui era stampigliato un motto di Herbert Achternbusch: “Questo paese è stato la mia rovina. Continuerò a starci fin quando, guardandolo, non lo si noterà” . Nella sua filosofia questo motto di spirito è molto serio. Quella volta, leggendolo, mi è bastato cambiare un unico pronome per farne il ritratto più sintetico e grandioso del profugo per motivi politici: “Questo paese è stato la mia rovina. Continuerò a starci fin quando, guardandoMI, non lo si noterà”. Lo sguardo estraneo consiste nel fatto che LO si nota. E molto più tardi ho buttato giù la frase: “Ciò che si porta fuori da un paese, ce lo si porta dentro, in faccia”.
Che lo sguardo estraneo sia corresponsabile dell’effetto che fa sulle persone integre è soltanto un aspetto della questione. Anche la gente integra assume un atteggiamento difensivo senza che ce ne sia alcuna necessità. Anche loro proiettano sullo sguardo estraneo quelle motivazioni di cui hanno bisogno per sfuggire il soffio della vita danneggiata.
Nello scricchiolìo fra la gente di qui e gli estranei sono due i partiti in gioco. A proposito di ciò che bisogna intendere per sguardo estraneo, però, il contenuto del concetto è stato coniato da quelli di qui, dagli integri. È il loro paese, la loro lingua. Hanno fatto della loro opinione una definizione condivisa in cui non si può più cambiar nulla: un occhio estraneo reagisce allo stimolo di un paese estraneo. Alla gente integra questo convincimento torna utile, distanziarsi dagli estranei è umanitariamente lecito. Se il danneggiato dà una diversa spiegazione del proprio sguardo estraneo, la si rifiuta a piè pari. Fa paura rendersi conto di quante macerie uno come lui porti con sé in un mondo che funziona in bell’ordine. La definizione condivisa: “Un occhio estraneo reagisce allo stimolo di un paese estraneo” implica la speranza che questo sguardo cessi di esistere, una volta abituatosi alla novità del paese.
Dal momento che sono anche una scrittrice, il mio sguardo estraneo viene doppiamente frainteso. Al fraintendimento per cui avrei lo sguardo estraneo da quando mi trovo in Germania si aggiunge il fraintendimento dei professionisti della letteratura. Secondo loro lo sguardo estraneo è una peculiarità dell’arte, una sorta di tecnica che distingue chi scrive da chi non scrive. Solo col tempo mi sono accorta di come gli scrittori rivendichino con orgoglio quest’equivoco e contribuiscano ad accrescerlo. Si intestano a credere e abbastanza spesso a far credere agli altri che scrivere sia un’attività diversa da qualsiasi altro lavoro. Essa assegnerebbe all’artista oneri che vengono risparmiati a chi non scrive. Gli autori elevano il loro lavoro ad una condizione eccezionale dell’esistenza. Si compiacciono di far ammirare con stupore la loro pretesa singolarità come fosse una lamella d’oro. Lo sguardo estraneo lo mettono in vendita come una dote.
Col fatto di scrivere lo sguardo estraneo non c’entra niente, c’entra con la storia personale. Conosco una madre che è sopravvissuta alla deportazione a Buchenwald e non ha mai voluto che la figlia portasse scarpe con la suola di legno e non ha mai permesso che si arrostisse carne in sua presenza. All’improvviso, durante un picnic sul prato, leva gli occhi al cielo sorridendo e, quasi rapita a se stessa, dice:”Qui è bello come sullo Ettersberg”[1]  e continua a mangiare, come se non avesse fatto che una descrizione della giornata estiva. L’associazione delle sue immagini è identica a quella di un Jorge Semprun: di notte, in un bar di Parigi, delle belle donne immaginano la morte. E la nevicata sotto le luci dei lampioni del boulevard si riflette sul campo di morte di Buchenwald. Lui scrive, lei non scrive, è qui la differenza. Lo sguardo estraneo ce l’hanno in comune (…).


[1] Collina nei pressi di Weimar su cui si trova il campo di concentramento di Buchenwald (N.d.T).






Brano tratto da Lo sguardo estraneo ovvero La vita è una scorreggia in un lampione. Titolo originale Der Fremde Blick oder Das Leben ist ein Furz in der Laterne. Traduzione Mario Rubino Sellerio editore, Palermo, 2009.




Herta Müller
Herta Müller, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2009, è nata nel 1953 in un villaggio di lingua tedesca nel Banato rumeno. Dopo aver rifiutato di cooperare con la Securitate, la polizia segreta del regime di Ceausescu, perse il lavoro e le fu impedito di pubblicare. Nel 1987 riuscì ad emigrare in Germania. Con Il paese delle prugne verdi, il suo romanzo più importante, si è aggiudicata l’Impac Dublin Literary Award al quale si sono aggiunti, successivamente, numerosi altri riconoscimenti tra cui il Premio Kleist, il più prestigioso premio letterario tedesco, il Premio Joseph Breitach, il Premio Franz Kafka, il Premio Konrad Adenauer, il Premio letterario europeo “Aristeion”.




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo