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Sagarana IL GHIBLI


Brano tratto dal romanzo L’Oasi


Leda Rafanelli


IL <em>GHIBLI</em>



 

La leggenda orientale racconta che Israfil, l’Angelo ribelle che Allah fu costretto a cacciare dal Paradiso, obbligato a non lasciare la Terra, la percorra col suo seguito di Angeli ribelli, stanco del suo continuo errare – e che sollevi la sabbia con la sua collera impotente. Un’altra leggenda dice che l’angelo Israfil, al quale Dio ha affidato la Tromba pel giorno del Giudizio, vi soffia dentro per ammonire i peccatori e ricordar loro la immancabile fine, poiché quel soffio solleva la sabbia e costringe alla lotta per la vita le carovane in cammino. E così il terribile vento (che si chiama ghibli, simun, kamsin, a seconda delle regioni, ma che è lo stesso vento di desolazione) divien poetica leggenda invece di cattiva realtà.
 
***
La notte sembrò lunga a Henry che la passò insonne, mentre Gamra si era poi placidamente addormentata. Nelle tenebre della tenda egli si sentiva soffocare. Avvertiva una insolita agitazione tra le bestie, sentiva troppo distinto e vicino il gorgogliare e il ruminare del cammello di Gamra, lo scalpitare lontano dei cavalli che riempiva l’accampamento di un fastidioso senso di inquietudine. Solo verso la fine della notte si addormentò, ma dopo un brevissimo sonno fu ridestato ad un tratto da una ventata calda che sollevò un lembo della tenda come un importuno visitatore – mentre un frusciare sinistro invadeva e scacciava la quiete dell’Oasi: era il cadere violento della sabbia sopra le foglie aride delle alte palme, che ricadeva poi in pioggia sulle tende e le bestie che subito furono prese da una pericolosa agitazione, specialmente i cavalli, legati ai tronchi degli alberi.
Le voci dei cammellieri, istintivamente, gridarono tutte insieme, per quanto tutti sapessero che meglio è tacere e tenere le labbra serrate. Uno dopo l’altro colpi di vento carichi di sabbia si rovesciarono sull’accampamento: Henry balzò dal letto, mentre Gamra, che si destava allora, gridava sgomenta:
- Sidi, Sidi, Israfil passa!
Il ghibli, il terribile nemico delle carovane, il vento flagellatore, circondava ormai l’Oasi con la sua collera. Veniva da ben lontano, carico di forza per la velocità della sua corsa attraverso le dune, dove non aveva incontrato ostacoli. Incontrando l’Oasi e l’accampamento pareva volercisi divertire, gettandovisi contro, come un gigante che gettasse palate di sabbia fine e calda su degli insetti agglomerati.
Le alte palme agitavano le chiome dorate dal primo chiarore del giorno, e quelle cariche di datteri pareva se ne volessero liberare come di gioielli troppo pesanti, scuotendosi tutte. Il cielo era di un colore fosco, e solo a Levante la luce era più viva per il Sole nascente, se pure la nuvola di sabbia, sempre più alta e densa, gli si avventava contro, come se tentasse di assalirlo e oscurarlo.
- Il ghibli, il ghibli!
Il primo movimento fu di terrore, ma subito dopo ognuno cercò il miglior mezzo di ripararsi. Il vento rendeva inutili le tende che furono avvoltolate alla rinfusa e legate a fatica, subito dopo le prime raffiche. I cammelli dettero l’esempio, distendendosi a terra, posando la testa più vicina che potevano a qualche riparo. Il vecchio cammelliere Faragallah si sedette presso un cumulo di pietre disposte a muro da qualche carovana di passaggio, e piegò la testa sulle ginocchia, pronto a restar lì fermo, senza parlare, senza mangiare, tenendosi vicino un otre d’acqua che coprì con un lembo del suo mantello per la notte.
Henry, invece, – che aveva voluto maledire il ghibli, - aveva già la bocca piena di sabbia. Bevve un po’ di caffè freddo, si sciacquò la bocca, ma bisognava pur respirare e fu lui a soffrire il primo accesso di tosse. Gli occhi di tutti erano già arrossati, ma con una rassegnazione tutta mussulmana anche le due donne con i loro abiti raccolti intorno ai piedi, le fute avvolte intorno al capo, un velo sulla faccia sconvolta, se ne stavano ferme, in silenzio, cercando di respirare attraverso la stoffa delle fute, dalla quale la sabbia non penetrava che in minima parte. Faragallah, che aveva chiuso gli occhi al primo soffio di vento, soffriva meno degli altri, e pareva addormentato, là, tra il suo cavallo e due cammelli.
Henry era pieno di collera impotente contro quel disagio al quale non aveva pensato e che poteva durare dei giorni col pericolo di ammalare se non addirittura di soffocare i componenti la carovana. Sentiva ora molta pietà per Gamra, la sua piccola amante, che si era rallegrata di fare con lui un viaggio felice, mentre invece, fin dal principio, si trovava tanto duramente provata. Avrebbe voluto leggere i suoi pensieri, sentirla parlare, - anche sentirla cantare la sua interminabile nenia degli amanti sepolti all’ombra del Minareto… Ma certo ella era serena, come lo erano tutti gli Arabi. Poi che tutto è scritto, poi che solo Dio sa quello che deve essere, essi sopporterebbero con rassegnazione anche il flagello del ghibli. “Allah è grande! Gli uomini piccoli sono travolti dalle cose grandi!”. Così, certo, pensava anche Gamra.
Ma intanto la vedeva lì, tutta raggomitolata e avvolta nei suoi abiti, come se fosse preda del terrore, non osando di dire una parola né di aprire gli occhi sotto la raffica calda, e Henry ne soffriva, insofferente come i cavalli che scalpitavano e tentavano di rompere le briglie.
Verso sera la violenza del vento decrebbe e subito alcuni Arabi riempirono gli otri; ma l’acqua era torbida di sabbia, che a poco a poco, però, si posava nel fondo dei recipienti. Henry era così sofferente che non mangiò, e del resto tutti erano tormentati dall’arsura per la sabbia che erano stati costretti a respirare. Filla, vicino a Gamra, si lamentava debolmente, a labbra chiuse, con un mugolio lungo, insistente, che accresceva l’inquietudine di quella notte torbida. Pure la notte portò un po’ di refrigerio. Gamra costrinse dolcemente Henry a bere del the molto dolce, poi si distese ricoprendosi bene, e invitandolo ad andarle vicino. La sua voce, di sotto il bernùs dell’amante, aveva la dolcezza di un canto d’amore, e il cuore dell’europeo se ne sentì consolato.
Il resto della carovana non dimenticò peraltro le cinque preghiere rituali, facendo le abluzioni con la sabbia – davvero molto più abbondante dell’acqua!
Soltanto per la preghiera il vecchio Faragallah lasciò il suo posto al riparo delle pietre, si sciacquò la bocca, bevve poi un sorso d’acqua e tornò lentamente al suo posto. Il suo corpo, abituato ai lunghi disagi, ubbidiva docilmente alla sua volontà – che in quel momento non era che rassegnazione – e sopportava la fame e la sete, il sonno e la fatica con una tenacia meravigliosa, da fachiro. E sembrava che quel suo sonnecchiare, respirando attraverso la stoffa ruvida del suo kaftan non gli fosse penoso, ma quasi riposante, poi che in tre giorni non emise un solo lamento.
Anche il secondo giorno la bufera di vento fu terribile, ma la sera portò la solita tregua e la notte trascorse calma. Ma non poteva finire così la sofferenza degli uomini e delle bestie. I cavalli, legati da molte ore, stanchi delle loro inutili ribellioni, soffrivano da fare pietà a gli uomini. Soltanto i cammelli – filosofi come i loro padroni, se ne stavano quasi tranquilli, sotto le stuoie e le coperte che nelle ore della furia del vento venivano gettate sulle loro teste ansimanti in cima ai lunghi colli distesi sulla sabbia calda.
Al terzo giorno i cavalli erano mezzi malati, uno morente per essersi ferito gettandosi pazzamente contro gli alberi. Fu con immenso senso di sollievo che videro il tramonto del terzo giorno. Come erano sembrati lunghi, quei giorni, specialmente a Henry! Egli aveva la febbre, la gola dolente ed arsa, gli occhi gonfi e rossi non potevano più aprirsi senza dolore. Un cerchio di fuoco intorno alla fronte lo rendeva quasi incosciente di ciò che avveniva intorno a lui. Udì come un sogno la voce di Gamra che gli diceva: - Sidi, il vento va calmandosi… Domani, insciallah, rivedremo il Sole senza veli, e io tornerò a cantare. I tuoi occhi torneranno a dare la loro luce al mio cuore assetato. Appoggiati su di me, ora che soffri! Io sono per te la piccola lampada della capanna, il fiore che spunta sul cammino del nomade… Allah è grande, Sidi!
Egli udì queste parole come in sogno, forse ci si addormentò con la speranza del domani diverso dal triste giorno ormai passato. Per tutta la notte Gamra, inginocchiata vicino a lui, gli offrì invano the e caffè freddo, cucchiai di miele perché si sostentasse. Ma Henry non poteva inghiottire. La gola gli doleva fortemente, così che era chiusa come era chiuso il suo cuore. Nella sua sofferenza era raccolto il tumulto dell’anima, ribelle e inquieta – mentre nella immobilità degli Arabi era racchiusa una calma solenne. Mai come in quel viaggio aveva sentito di essere di un’altra razza.
Mentre gli porgeva un po’ d’acqua Gamra gli mormorò: - Tu sei come i cavalli, Sidi. Non sai avere pazienza.
Egli non rispose ma sentì che quel paragone era giusto. Gli Arabi erano come i cammelli – forti, tenaci, fatalisti, pazienti e solenni, - mentre gli Occidentali erano come i cavalli, - forti ma ombrosi, intelligenti ma irrequieti. Non tolleravano ostacoli, e si abbattevano contro le barriere spezzandovisi il petto, - mentre i cammelli vi si sdraiavano vicino per ruminare in pace, in attesa di una soluzione che non stava ad essi di cercare: il Destino è già segnato. Perché affannarsi a fuggire o a sviarlo? E’ inutile.
Finalmente, con la nuova alba il fresco soffio dell’Est annunziò la fine del flagello. Quel vento liberatore respingeva il respiro ardente del deserto. Era tempo. Da tre giorni non avevano potuto nemmeno scaldare un po’ di caffè, poi che nessuno avrebbe osato accendere il fuoco: le erbe disseccate dal calore e dal vento erano così arse che sarebbe bastato volasse una sola scintilla ad incendiare l’Oasi. Soltanto Gamra, per obbedire ad Henry, accese la sua macchinetta per fare il the, ben riparata dietro il muretto di pietre che Faragallah aveva alfine lasciato.
Dopo la notte di perfetta calma il Sole tornò a splendere libero da ogni nube. La carovana però non riprese il viaggio che il giorno di poi, per poter riacquistare le forze, cibarsi, raccogliere acqua e curare le bestie. Il cavallo morto era già coperto dalla sabbia che, dopo la sua morte, nessuno si era curato di togliere di sul suo corpo disteso. Festino degli sciacalli, nelle notti successive, mentre l’Osi, abbandonata dalla carovana, sarebbe stata tutta ripulita dai provvidenziali divoratori di cadaveri. Ormai il male era passato ed era da tutti dimenticato. Henry solo imprecava ancora contro quel vento maledetto, mentre Faragallah, ridivenuto loquace, raccontava che in Egitto, il vento del Deserto, dura più o meno violento per ben cinquanta giorni, tanto che gli Egiziani lo chiamano kamsin, che vuol dire “cinquanta”.
- Non cinquanta giorni, - rettificò Henry, forte dei racconti a lui fatti da Jeanne, - ma cinquanta ore. Se questa tortura durasse un tempo così lungo tutta la popolazione resterebbe soffocata! Un giorno di più e facevo la fine del cavallo di Jussuf.
Ma il vecchio restava del suo parere:
- Ti sbagli, Sidi. Il kamsin dura cinquanta giorni esatti, lasciando però il refrigerio della notte calma. La prova è che i datteri dell’Egitto sono i migliori di tutto l’Oriente, è la bontà dei datteri è un dono del ghibli.
- Vorrei non assaggiare più un dattero pur di non soffrire più quello che ho sofferto questa volta. I vostri Angeli non sono simpatici, veramente! – continuò Henry inghiottendo a fatica un sorso di the caldo. – Maledirò Israfil finché avrò vita!
- Faragallah fece un gesto di protesta:
- Non dire queste cattive parole, Sidi! Il ghibli è necessario, non solo perché fa maturare bene i datteri, ricchezza delle Oasi, dono del Generoso ai nomadi quali noi siamo; ma il ghibli purifica l’aria, spazza via le malattie che insidiano il viandante, ci costringe a pensare che Allah è il più Sapiente e che niente fa senza ragione.
Henry tacque, ché sapeva essere ben difficile sradicare una convinzione da un cervello di Mussulmano. […] Ma fu con un vero sollievo che si rimisero in viaggio dopo quattro giorni di sosta.






L'oasi

Negli anni Venti, la Casa Editrice Monanni, animata da Leda Rafanelli, pubblica tra gli altri, nella “Nuovissima Collezione Letteraria”, Maksim Gorki, Jack London, Upton Sinclair, Jerome K. Jerome, Octave Mirbeau, Aldous Huxley. In catalogo compare anche, nel 1929, attribuito a un Étienne Gamalier, L'Oasi. Romanzo arabo, di cui Leda figura traduttrice: ne è invece l'autrice. Si legge nella nota di apertura, a lei attribuibile: Il linguaggio di Leda Rafanelli è, nell'Oasi, evocativo ma mai retorico, capace di esprimere senza alcuna astrattezza, attraverso le azioni e le conversazioni dei personaggi, posizioni ideologiche nette e coraggiose: si rammenti che il romanzo esce mentre in Libia infuria la repressione fascista della confraternita dei Senussi. Di questo straordinario romanzo, anticolonialista e antimilitarista, in cui si immaginano rapporti tra gli uomini ispirati a valori nuovissimi, Leda scriverà quasi quarant'anni dopo la pubblicazione, in una lettera, di considerarlo tra tutti i propri libri «il migliore».
(Nota critica di Milva Cappellini)

Le carte edite e inedite di Leda Rafanelli sono affidate alla cura di Fiamma Chessa nell'Archivio "Famiglia Berneri-Aurelio Chessa" di Reggio Emilia.




Leda Rafanelli


Leda Rafanelli nasce a Pistoia il 4 luglio 1880: la relativa modestia delle origini (da una famiglia di piccolissima borghesia, in una città di provincia) verrà da Leda stessa, in anni maturi, riscattata con l'invenzione di una genealogia fantastica – araba e zingara – adatta anche a spiegare la precoce bizzarria nell'abbigliamento e nelle attitudini. Privo di riscontri certi è il viaggio in Egitto, all'età di vent'anni, sulla quale Leda fonda poi il proprio mito personale: musulmana, vegetariana e sensitiva, per tutta la vita Leda si fa chiamare Dhjali (“di se stessa”), veste in eccentriche fogge arabeggianti, vive in case arredate con cuscini e bracieri fumanti di incenso, studia la sapienza orientale, senza tuttavia abbandonare mai la militanza anarchica (sarà amica di Filippo Turati e Pietro Gori, tra gli altri.) che aveva intrapreso giovanissima. La contraddizione tra religione e ideologia, rilevata dagli stessi compagni libertari, non spaventa affatto Leda: per l'intera sua esistenza – che costruisce e racconta, anche nei suoi aspetti più dolorosi, con costante e convinta autodeterminazione – lei è davvero “di se stessa”, compie scelte coraggiose e libere e, soprattutto, usa i segni appartenenti a codici connotati come maschili (l'Islam, la politica, la cultura, il lavoro) in un senso del tutto specifico, originale, inequivocabilmente e profondamente femminile.
Di fatto, la vita di Leda – da lei narrata in chiave apertamente automitografica – appare movimentata e avventurosa già nella realtà documentabile: autodidatta, operaia di tipografia, attivista anarchica fin da adolescente, trasferitasi a Firenze e poi a Milano, Leda fonda riviste, pubblica un gran numero di opuscoli politici ma anche poesie, racconti e romanzi di impianto sociale e sentimentale. A Milano, Leda intreccia una relazione con Benito Mussolini (all'epoca direttore dell'”Avanti”) ma lo lascia all'indomani della svolta interventista (l'epistolario tra i due, fortunosamente sopravvissuto, sarà pubblicato nel dopoguerra da Rizzoli); anche il legame con il giovane Carlo Carrà sarà movimentato e alla fine interrotto da Leda, che scrive sulla vicenda un romanzo rimasto inedito fino al 2005. Nel frattempo, Leda avvia imprese editoriali di grande respiro: la Società Editrice fondata con Carlo Monanni (compagno di fede politica e di vita, futuro direttore editoriale della Rizzoli) pubblica nel primo dopoguerra l'opera omnia in 11 volumi di Nietzsche, e poi Kropotkin, Morris, Malatesta, Darwin, Stirner, e ancora Miguel de Unamuno, Bernard Shaw e molti altri. Negli anni del fascismo, Leda – attentamente sorvegliata dal regime – vive appartata ma continua a scrivere, anche con pseudonimi, soprattutto testi autobiografici e racconti destinati ai ragazzi. Vive intanto altri amori, anche con uomini provenienti da culture lontane (li definirà i suoi “uomini d'Oriente”). Alla metà degli anni Quaranta, dopo la morte dell'unico figlio, si trasferisce a Genova, dove esercita la chiromanzia: i ricordi della sua attività di chiromante/confidente sono raccolti nel romanzo Memorie di una chiromante, pubblicato solo nel 2010. Muore nel 1971, dimenticata.
Il suo amore per la cultura araba (perfino al di là della realtà effettiva del suo viaggio egiziano) rammenta – come anche l'indipendenza “scandalosa” delle sue scelte esistenziali e intellettuali – le esperienze di vita e di scrittura di donne a lei contemporanee, sebbene tanto distanti per provenienza e formazione, quali Karen Blixe, Annemarie Schwarzenbach, Isabelle Eberhardt. Una raccolta di novelle anticoloniali, pubblicate negli anni su vari periodici tra i quali “Il Corrierino dei Piccoli” e mai finora apparse in volume, è in pubblicazione per la casa editrice Nerosubianco di Cuneo.





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