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Sagarana NUESTRA SEñORA


Brano tratto dal romanzo Al dio sconosciuto


John Steinbeck


NUESTRA  SE&ntildeORA



 

(…) Il cavallo di Joseph procedeva svelto, scivolando con gli zoccoli tra le fruscianti foglie di quercia, i ferri risonavano contro le pietre sporgenti. Il sentiero correva attraverso il bosco che seguiva il fiume. Mentre cavalcava, Joseph era timido e pure impaziente, come un giovane che vada di nascosto a un appuntamento con una donna bella e avveduta. Era un po’ stordito e oppresso dalla foresta di Nuestra Señora. C’era una strana femminilità nelle fronde e nei ramoscelli allacciati, nella lunga grotta verde che il fiume tagliava tra gli alberi e nel lucente sottobosco. Le infinite navate verdi, i recessi e le alcove parevano avere un significato oscuro e promettente come simboli di un’antica religione. Joseph rabbrividì e chiuse gli occhi. “Forse sono ammalato” disse. “Quando aprirò gli occhi vedrò che tutto ciò è delirio e febbre.” Mentre andava avanti lo prese il timore che questa terra fosse solo l’immagine di un sogno che si sarebbe dissolta in un mattino asciutto e polveroso. Un ramo di manzanita gli fece cadere il cappello che andò in terra, e quando scese di cavallo Joseph distese le braccia e si chinò per accarezzare la terra con le mani. Sentiva il bisogno di scuotersi per uscire da quello stato d’animo. Sollevò lo sguardo alle sommità degli alberi dove il sole splendeva sulle foglie frementi o il vento cantava roco. Quando salì di nuovo in sella sentì che non avrebbe mai potuto perdere l’amore della terra. Il cuoio scricchiolante della sella, il tintinnio delle catenelle degli sproni, lo sfregare della lingua del cavallo sul rullo del freno erano accordi in maggiore sul pulsare della terra. Joseph s’accorse ch’era stato ottuso e ora s’era fatto sensibile, s’era svegliato dopo un lungo sonno. Nella profondità della sua mente c’era la sensazione di essere un traditore. Il passato, la sua casa e tutti gli eventi della sua infanzia stavano per smarrirsi, ed egli non si scordava che doveva ad essi un ricordo. Se non stava attento questa terra lo avrebbe posseduto per intero. Per combattere un poco la terra ricordò suo padre, la calma, la serenità, la forza e la perenne giustizia di suo padre; ma poi nel pensiero il contrasto finì ed egli s’accorse che non v’era opposizione, perché suo padre e questa nuova terra erano la stessa cosa. E Joseph allora si spaurì. “È morto” bisbigliò a se stesso. “Mio padre dev’esser morto”.
Il cavallo aveva ora lasciato il bosco del fiume per seguire un sentiero liscio e ondeggiante che avrebbe potuto esser tracciato dal passaggio di un pitone. Era una vecchia pista della selvaggina fatta dagli zoccoli e dalle zampe di paurosi animali solitari che l’avevano seguita come se amassero persino i loro stessi fantasmi. Ed era piena d’innumerevoli significati. Qui faceva una larga curva per evitare una grande quercia con un grosso ramo pendente, dove molto tempo addietro un leone s’era appiattato e aveva compiuto le sue stragi e ne aveva lasciato il sentore nell’aria, per volgere poi altrove il passo; là il sentiero girava accuratamente intorno a una roccia levigata dove un serpente a sonagli abitualmente scaldava al sole il suo sangue freddo. Il cavallo teneva il mezzo del viottolo attento a tutti gli avvertimenti. Ora il sentiero si perdeva in una larga prateria erbosa, al centro della quale una colonia di vigorose querce cresceva come una verde isola in un lago di verde più tenue. Mentre Joseph si avvicinava agli alberi udì un grido di dolore, e girando dietro al boschetto vide un enorme cinghiale che aveva zanne ricurve, occhi gialli, e una criniera di irsuto pelo rosso. L’animale sedeva sulle cosce e divorava le lacere terga di un porcellino ancora urlante. A breve distanza una scrofa e cinque altri porcellini fuggivano a balzelloni e squittivano atterriti. Il cinghiale cessò di mangiare e si scosse quando Joseph fu a portata del suo fiuto. Sbuffò e poi tornò al porcellino agonizzante, che ancora mandava strilli laceranti. Joseph sferzò il cavallo. La sua faccia era contratta dall’ira e i suoi occhi impallidirono fino a diventare quasi bianchi. “Che Dio ti maledica” gridò. “Mangia un altro essere vivente. Non mangiare i tuoi simili.” Estrasse il fucile dalla guaina e prese la mira tra gli occhi gialli del cinghiale. Poi la canna si abbassò e il pollice fermo lasciò il grilletto. Joseph rise brevemente di sé. “Presumo troppo di me” disse. “Forse ha cinquanta figli e può essere l’origine di altrettanti.” Il cinghiale si volse e grugnì mentre Joseph lo oltrepassava.
Ora il sentiero costeggiava una lunga collina protetta da fitti arbusti, rovi, manzanita e quercia nana così densamente arruffati che persino i conigli dovevano farsi delle piccole gallerie per attraversarli. Il sentiero varcava a fatica la lunga e stretta sommità e giungeva a una cintura di alberi, querce rosse e verdi e querce bianche. Tra i rami degli alberi un minuscolo fiocco bianco di nebbia apparve e navigò delicatamente proprio sulla vetta degli alberi. Un momento dopo, un altro lembo traslucente lo raggiunse, poi un altro e un altro ancora. Veleggiarono un poco come fantasmi semimaterializzati, diventando sempre più grandi finché improvvisamente raggiunsero una colonna d’aria calda e salirono in cielo per mutarsi in piccole nubi. Su tutta la valle le molli nuvolette bianche salivano e si formavano, come spiriti di morti che sorgessero da una città dormiente. Sembravano dissolversi contro il cielo, ma per esse il sole perdette il suo calore. Il cavallo di Joseph sollevò la testa e annusò l’aria. In cima alla sommità c’era un ammasso di alberi giganti di madrone, e Joseph vide con stupore che essi parevano fatti di carne e di muscoli. Levavano in alto membra rosse come carne scorticata, e contorte come corpi messi alla tortura. Joseph seguitando a cavalcare, posò la mano sul ramo e lo sentì freddo, liscio e duro. Ma le foglie all’estremità delle orribili membra erano verdissime e lucenti. Spietati e terribili, gli alberi di madrone. Gridano di dolore quando bruciano.
Joseph raggiunse la sommità e guardò in basso le praterie della sua nuova proprietà dove le avene selvagge si muovevano in onde argentee sotto un venticello, e dove le chiazze azzurre dei lupini si stendevano come ombre in una chiara notte lucente, e i papaveri sulle colline laterali erano larghi raggi di sole. Si alzò per vedere le lunghe praterie in cui gruppi di querce stavano come perpetue assemblee che governassero il paese.
Il fiume con la sua maschera di alberi si tagliava un cammino contorto scendendo la valle. Poteva scorgere a due miglia di distanza, di fianco a una solitaria quercia gigante, la macchia bianca della sua tenda piantata là e poi lasciata da quando era andato a dichiarare il suo podere. Stette a lungo lassù. Mentre guardava la valle, Joseph sentì invadersi le vene da un caldo fluido d’amore. “E’ terra mia” disse semplicemente, e i suoi occhi brillarono di lacrime e il cervello gli si empì di meraviglia all’idea che gli appartenesse. C’era in lui pietà per l’erba e per i fiori; sentiva che gli alberi erano creature sue e sua creatura la terra. Per un istante, gli parve di esser sospeso alto nell’aria e di guardare in basso. “È mia” disse ancora. “E devo averne cura.”
Le nuvolette si ammassavano in cielo, una legione si affrettava a levante per raggiungervi l’esercito che già si formava sulla linea delle colline. Dalle montagne occidentali le magre nuvole grigie dell’oceano si precipitavano in corsa. Il vento si svegliò con un ansito e sospirò attraverso i rami degli alberi. Il cavallo s’inoltrò leggermente giù per il sentiero che scendeva di nuovo al fiume, e alzava spesso la testa annusando il fresco e soave odore della pioggia che si avvicinava. La cavalleria delle nubi era passata e un’immensa falange nera marciava lentamente su dal mare con uno scalpiccio di tuono. Joseph tremò di delizia alla violenza promessa. Sembrava che il fiume si affrettasse nel suo corso, e parlottasse febbrilmente con i ciottoli, cammin facendo. E la pioggia cominciò, grosse pigre gocce che schioccavano sulle foglie. Il tuono rotolava in cielo i suoi cassoni d’artiglieria. I vestiti di Joseph furono inzuppati in un attimo e il suo cavallo era lucido d’acqua. Le gocce divennero più piccole e fitte, frugavano l’aria e fischiavano negli alberi. Nel fiume le trote saltavano sugli insetti caduti e i tronchi degli alberi lucevano oscuri. Il viottolo lasciò di nuovo il fiume, e mentre Joseph si avvicinava alla sua tenda le nuvole si mossero di nuovo all’indietro da ovest a est come una cortina di lana grigia, il sole al tramonto scintillò sulla campagna lavata, splendette sui fili d’erba e lasciò faville sulle gocce nascoste nel cuore di fiori di campo. Dinanzi alla sua tenda Joseph saltò a terra, tolse la sella dal cavallo strofinandogli la groppa e le spalle bagnate con un panno prima di lasciare che l’animale stanco cominciasse a brucare. E restò sull’erba umida, di fronte alla sua tenda. Il sole al tramonto scherzava sulle sue tempie abbronzate e il vento della sera gli scompigliava la barba. Il desiderio del suo sguardo divenne rapacità mentre guardava in basso la lunga valle verde. La sua fame di possesso si fece passione. “È mia” cantava. “Fino giù in fondo è mia, fino al centro della Terra.” Pestò col piede la terra soffice. Poi la sua esultanza divenne un acuto spasimo che gli passò attraverso il corpo come un fiume ardente. Si gettò col volto sull’erba e accostò la guancia agli steli bagnati. Le sue dita afferrarono l’erba bagnata, la strapparono e la strinsero ancora. I suoi fianchi batterono pesantemente la terra.
La furia lo abbandonò, e rimase freddo, stupito e spaventato di se stesso. Si levò a sedere e si asciugò il fango dalle labbra e dalla barba. “Che è stato?” si chiese. “Che cosa mi ha preso? Posso avere un bisogno così grande?” Cercò di ricordare con precisione quello che era avvenuto. Per un attimo la terra era stata la sua donna (…)






Brano tratto dal romanzo Al dio sconosciuto. Titolo originale To a God Unknow. Traduzione di Eugenio Montale. Bompiani editrice, Milano. 2011.




John Steinbeck
John Steinbeck (Salinas, 27 febbraio 1902 – New York, 20 dicembre 1968) è stato uno scrittore statunitense tra i più noti del XX secolo, autore di numerosi romanzi, racconti brevi e novelle. Fu per un breve periodo giornalista e cronista di guerra nella seconda guerra mondiale. Nel 1962 gli fu conferito il Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: "Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l'umore sensibile e la percezione sociale acuta".




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