IMPROVVISI PER MACCHINA DA SCRIVERE Giorgio Manganelli
Naturalmente, doveva succedere; è secondo le sacre e misteriose leggi della natura, e sarebbe vano, forse empio, far contrasto. Un uomo pensoso di sé e della galassia, uno studioso delle comete dell’anima, lettore di classici, amante della sintassi, cultore di aggettivi; tradotto, anche, in lingue bizzarramente locali, sussurrate da pochi e nevrotici indigeni; un uomo così fatto sa che la sperduta umanità si rivolgerà a lui come a un saggio, diciamo una roba zen, un po’ sul guru.
Mi si consenta di uscire dal generico, e di inalberare i vessilli del narcisismo. Mi hanno chiesto, a bruciapelo, come usava nell’Iowa, cosa pensavo della morte, che idea avevo dell’aldilà, che cosa pensavo di una certa nave fenicia, e naturalmente della droga, del Foscolo, dell’amore, dell’eros, dell’erotismo, della pornografia, del sesso, dell’eterosessualità, della fotografia, del cinema muto, degli handicappati, degli omosessuali, dell’inferno, della scuola, dei flipper, di Dio, del romanzo; ma un oracolo non ha raggiunto il suo culmine, non è se stesso, se non gli fanno la domanda estrema: “Che cosa ne pensa lei del culo?”.
Di questa domanda debbo osservare in primo luogo che è formulata con il “lei”, e dunque deferente, lievemente angosciata, e che include la parola “culo”. A domande così rispondeva in altri tempi il decaduto oracolo di Delfi, o la quercia di Dodona. E appunto così avrebbero parlato gli antichi: non avrebbero detto “parti deretane”, o “natiche”, o “sedere”, o “servizi”, o “didietro”, tutte parole svergognatamente senza vergogna, oneste, semplici, leali. No: è quella parola breve e sonora, quel “culo”, che vuole una risposta. Mi dicono che il culo oggi sia in crescita, che la sua dignità venga riconosciuta, che sia di moda. Quando diventerà di moda l’orecchio sinistro? O il mastoide? Le lacrime romantiche erano solo un caso – antico – di moda fisiologica?
Questo senso della indegnità del deretano, per cui lo si chiama culo, ha in sé qualcosa di razzista, giacché anche il nostro corpo ha in sé pezzi di varia estrazione; e qui siamo ebrei, lì negri, lì “gialli”, meridionali, zulù. Il culo è vergognoso e ridicolo. Il deretano è un signore serio, di modeste vocazioni, che non fa nulla per farsi notare; fa il suo lavoro, mantiene una onesta famigliola. Il sedere è di vocazione politica, un po’ supponente, chiesastico. Il didietro fa il maggiordomo in una casa patrizia, ma non gli dispiace, ed ha acquisito un certo stile. Ma il culo porta il cappello floscio dei gangster, parla con la sigaretta tra le labbra, pendula, si dice che abbia ucciso, certamente è uomo sordido, traffica in droga, fa la spia; è lo scemo del paese, ma finge.
Si dirà: c’è anche la cula. C’è veramente? Non credo. Venere aveva solo un corpo, era totalmente corpo, e di quella misteriosa forma senza carne Venere gioiva. Il culo riguarda il malparlare e il malvivere maschile dei goffi guerrieri e impiegati che vorrebbero fare i delinquenti. Come oracolo dico: la parola culo si usi solo in versi, meglio se sonetto o sestina, o prosa ciceroniana. È parola infima e sublime.
Per me, parlare degli uomini grassi significa giocare in casa. Io sono grasso. Non pretendo, con ciò, di qualificarmi come tecnico della pinguedine, ma semplicemente come un tale che parla di cose che conosce non per sentito dire, ma per propria esperienza. Vi è di più: prima di essere grasso – condizione che ammorbidisce e ravvolge gran parte della mia esistenza – io sono stato magro, anzi macro. Ho fotografie di trent’anni fa, nelle quali appaio come una decorosa imitazione di un verme con abbozzo di scheletro. Ora io sono un cuscino, un sofà, un piumino. Sono morbido e spazioso. Infatti, il grasso occupa più spazio del magro; ma non lo fa per arroganza, ma per una naturale tendenza ad espandersi, una intrinseca gommosità corporea.
Ho l’impressione che la mia pinguedine mi conferisca un qualche decoro, forse l’unico decoro cui mi sia lecito tendere. Quando manifesto l’intenzione di dimagrire – cosa che tutti i grassi fanno, e in genere disattendono – non di rado i miei selezionati amici manifestano una tal quale apprensione, come se dessi segno di patente disordine mentale. Nel paesaggio italiano, io mi adergo come un dignitoso monumento adiposo, che Italia Nostra non consente venga modificato. Il Colosseo non può, non deve essere quadrato, né il Duomo di Milano può emettere cupole da moschea. Ciò significa che in realtà per le persone grasse non si ha diffidenza, né ostilità preconcetta; non è ancora nato un razzismo contro i grassi, e speriamo che la crisi non faccia della magrezza un segno di onestà civile, e della pinguedine un sintomo di tristizia moral-politica.
Chi è grasso prova verso se stesso sentimenti mutevoli: talora se ne cruccia, e interpreta, non sempre a torto, quel deposito non adoperato di energia, come l’indizio di una vita non indulgente, avara, che lo ha costretto a ricorrere a generi di conforto. Talora si compiace di essere, come dicevo, spazioso, di non avere angoli retti e puntuti, di essere soffice come un uomo di muschio, una concresciuta statua di lana. Se dà nel megalomane, come spesso accade, si riconosce come monumento, e un presentimento di inaugurazione, di discorsi di sindaci e uomini di cultura lo consola di molti affanni. Il pingue cammina adagio, come se dovesse essere riconosciuto e salutato da molti notabili, ma d’assai meno notabili di lui. In realtà, non lo conosce nessuno, e tuttavia resta un notabile: lo dicono la camminata di gran misura, il volto pensoso senza cruccio, la distaccata benevolenza.
Si scrive, si afferma che anni di angoscia occorrono a fare un uomo grasso; che il pingue è afflitto, rancoroso, affannato; che, in realtà, in quella sua fittizia grascia egli voglia affondare, perdersi, sciogliersi. Può essere: forse il grasso vuole vestire se stesso di un cappotto di soffice amore, un perenne ammanto di benevola carne. Si chiude in una tana, una reggia, un mantello di marmo che imita il corpo. Profondamente corpo, forse il grasso è ignaro di voli, di abbandoni, di corse pubblicitarie per i prati. Insieme soave e inquieto, è della razza dei khan che Marco Polo incontrò in Mongolia, dei saggi taoisti che percorrono il mondo racchiusi in una stanza, dei pensosi monaci buddisti che si fanno morbidi per uscire dalla catena dei desideri e dei dolori, infine dei grandi ecclesiastici che, nei loro sogni solitari, parlano latino. Brani tratti da Improvvisi per macchina da scrivere, Adelphi Edizioni, Milano, 2003. Nato a Milano nel 1922, quello di Giorgio Manganelli, scomparso a Roma nel 1990, fu come un «ricatto delle parole», come egli stesso lo definì in Laboriose inezie (1986), un’immersione completa nella letteratura, un mondo di segni costruito come un gioco geometrico di ripetizioni. Un entretien erudito, un io autobiografico mentre si costruisce e distrugge nelle combinazioni. Quasi a scrivere sempre lo stesso libro, fin dal 1964, anno in cui uscì nella collana I narratori di Feltrinelli la sua prima opera, Hilarotragedia. Dalla gestazione complessa, come la storia delle sue numerose edizioni: in origine un piccolo quaderno di appunti su volere dello psicoanalista Ernst Bernhard, poi due edizioni per Feltrinelli e in ultimo la ristampa per Adelphi nel 1987. Libro e non romanzo, “trattatello” e non storia, come era nello spirito delle tesi del Gruppo 63 a cui Manganelli partecipò, dove il romanzo provocava “ripugnanza” e “fastidio”. Cos'è dunque questa prima opera che segnò l’esordio letterario di un uomo di 40 anni? In qualche modo un’autobiografia, un viaggio negli inferi per la «natura discenditiva» dell’uomo, per l’eredità «sciamanica» della letteratura che ha a che fare con gli spiriti, con l’Ade — «Dall’infima cima sporgiti, abbandónati al tuo precipizio. Sii fedele alla tua discesa, homo. Amico». Da un’origine sicuramente psicologica, il materiale di quest’opera risale agli anni milanesi dal 1947 al 1949, anni in cui Manganelli, come Alda Merini, conobbe la “tragedia” della malattia mentale e della follia. Romano di adozione fin dal 1953, Manganelli divenne recensore e critico collaborando per questo con numerose riviste di quegli anni: oltre a «Il Giorno», cominciarono ad apparire su «L’Illustrazione italiana» sue importanti recensioni di opere tra cui Salinger, Beckett e Bellow. Sempre degli anni '60 sono le riviste «Grammatica» pubblicata con Giuliani, Novelli e Perini, nonché la rivista «Quindici», entrambe appartenenti al gruppo della Neoavanguardia. E sarà in questo ambiente di Kulturkritik che si inserirà la partecipazione dei letterati a giornali come «Il Mondo» nella cui rubrica “foglietti di viaggio” si troveranno contributi come le lettere inglesi di Arbasino e le corrispondenze dall’India di Manganelli. Manganelli traduttore. Di Poe in particolare. Su suggerimento e proposta di Calvino . Manganelli viaggiatore. Spirito inquieto che viaggia verso l’India, la Cina e la Malesia, affascinato da questi luoghi del possibile, da queste realtà collettive, mosso dalla propria angoscia esistenziale. Dirà infatti su «Il Mondo» a proposito dell’India che questa esperienza era stata per lui come «una serie di diapositive dell’orrido». Precedentemente a questo viaggio traumatico, che avvenne nel 1975, l’opera di Manganelli proseguiva la sua fase alla ricerca dei segni nel «sole nero di ogni scrittura» con Nuovo commento (1969), opera che portò Calvino a scrivergli una lettera, colpito forse dal fatto che, come lui, questo autore facesse della metafora e del linguaggio la narrazione stessa. Calvino accolse con lo stesso entusiasmo anche l’opera successiva, Agli dei ulteriori (1972), comprendente racconti inediti quali Un re, Simulazioni, Alcune ipotesi sulle mie precedenti reincarnazioni, Dal disonore, Un amore impossibile, oltre al Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti, già pubblicato da «Il Menabò» n° 8 del 1965. Se i morti non parlano, se custodiscono il «Silenzio», la «Distanza», la «Desolazione», come, se non parlando con «le astuzie del niente, oseremo introdurci in quel Tibet del non essere?». Manganelli infatti fu sempre angosciato dal nulla, rendendolo talmente pieno, colto, abitato in maniera ludica, da rendere letteratura il mondo intero, dal calcio alla chiesa, al turismo, al traffico, al divorzio, fino addirittura ai traslochi. Articoli apparsi su «Il Giorno» (1972) e su «L’Espresso» (1972-'73) vennero così raccolti nell’opera Lunario dell’orfano sannita (1973), lo sguardo sulla realtà quotidiana di un essere espulso dalla storia che può osservarla e parlarne in modo sarcastico. Si delinea così quella particolare forma di scrittura che fu di Manganelli da sempre: osservazioni pungenti sulla realtà che divengono linguaggio degno di riflessione e pubblicazione. Operazione che Manganelli completò anche quando anni dopo raccolse gli articoli pubblicati per «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «Epoca», «L’Espresso», «L’Europeo» e «Il Messaggero», nell’opera dal titolo Improvvisi per macchina da scrivere (1989). La quotidianità guardata con interesse metafisico, la polemica e la provocazione originate dalla figura retorica con cui Manganelli guardò sempre alla vita, l’ironia. Uno sguardo dove anche la morte veniva resa ridicola, grottesca, picaresca. Nella nostra letteratura italiana un libro raccontò le avventure picaresche del suo protagonista, un libro che a Manganelli non poteva sfuggire per la grande valenza metaforica e simbolica: Pinocchio di Collodi. Uscito per la prima volta nel 1977, in Pinocchio: un libro parallelo, Manganelli sta al fianco delle parole, parallele appunto, dà loro un’altra luce, fa diventare il testo di Collodi ancora più allegorico e in queste allegorie, che permettono che il testo possa aprirsi, il burattino di legno diventa adulto; al di là dei giochi verbali e degli esercizi linguistici con cui Manganelli rivede questa opera, l’universo di Pinocchio è infatti, nello spirito di angoscia esistenziale dello scrittore, un attraversamento della morte; attraverso riti e liberazioni durante la sua crescita, coperti dalla maschera dell’ironia, una maschera che svela, una lingua di giochi, errori ed equivoci: «C’era una volta… Un re… No…». La ripetizione, l’allontanamento emotivo dal coinvolgimento. La letteratura salvò veramente Manganelli dalla disperazione. Ma la letteratura salva dall’angoscia quando esorcizza e per esorcizzare occorreva allontanare producendo un effetto di straniamento emozionale. È il caso di Centuria, cento romanzi fiume, apparso per la prima volta nel 1979 e arricchito nelle edizioni successive fino all’ultima di Adelphi, di altre 31 centurie, di cui 20 apparse sul «Caffè» nel 1980, e di 7 racconti inizialmente scartati dallo scrittore. Piccoli romanzi, microstorie, come fossero ancora una volta i corsivi di un giornale. Centuria fu per Manganelli l’occasione per essere conosciuto dal grande pubblico, tanto da valergli il Premio Viareggio. Pubblico non solo italiano. Centuria fu infatti il primo dei libri di Manganelli a essere tradotto all’estero e fu Calvino a presentarne con un intervento la versione francese. Calvino che in Se una notte di inverno un viaggiatore, per l’idea della molteplicità che stava dietro, si sentiva così vicino a Manganelli da sottolinearne la «scrittura concisa ed essenziale», le «invenzioni narrative sintetiche e concentrate». Ecco le istruzioni di lettura dello stesso Manganelli a quest’opera: «Se mi si consente un suggerimento, il modo ottimo per leggere questo libercolo, ma costoso, sarebbe: acquistare diritto d’uso d’un grattacielo che abbia il medesimo numero di piani delle righe del testo da leggere; a ciascun piano collocare un lettore con il libro in mano; a ciascun lettore si dia una riga; ad un segnale, il Lettore Supremo comincerà a precipitare dal sommo dell’edificio, e man mano che transiterà di fronte alle finestre, il lettore di ciascun piano leggerà la riga destinatagli, a voce forte e chiara. È necessario che il numero dei piani corrisponda a quello delle righe, e non vi siano equivoci tra ammezzato e primo piano, che potrebbero causare un imbarazzante silenzio prima dello schianto. Bene anche leggerlo nelle tenebre esteriori, meglio se allo zero assoluto, in smarrito abitacolo spaziale» . Tesi questa che troviamo anche nei suoi saggi La letteratura come menzogna (1967) Angosce di stile ( 1981) e Laboriose inezie (1986), ma è in particolare La letteratura come menzogna una testimonianza importante nel dibattito di quegli anni tra letteratura realistica e letteratura fantastica; il fantastico «la letteratura della mano sinistra, dell’apostasia, dell’eresia». La nuova idea della letteratura per Manganelli, ma anche per Celati, fu espressa in un contributo che lo stesso Manganelli fornì al volume collettivo del Gruppo 63 dal titolo Il romanzo: «corrotto dalla serietà propria e dei critici, ha perso la limpida gioia della menzogna, l’ilare arroganza che sono, a mio avviso, le virtù fondamentali di coloro che attendono a quel perpetuo scandalo che è il lavoro letterario». Tesi portata avanti anche ne La palude definitiva, l’ultimo romanzo dello scrittore scritto nell’anno della sua morte e pubblicato postumo. Una tesi per tutte di questa opera: l’idea che la conclusione del romanzo è l’impossibilità e il rifiuto a concludere. Come i due punti a fine poesia di Sanguineti. La palus putredinis di uno e la palude definitiva dell’altro. Nella palude definitiva il narratore ci accompagna con il suo cavallo in un luogo «in cui è difficile entrare e impossibile uscire». Quel luogo taciturno in cui il 28 Maggio del 1990 Manganelli entrò? «La letteratura di Manganelli – scrive Roberto Saviano in un brano intitolato Le amorose inezie di Manganelli – è una struttura forte nelle fondamenta, elegante, inossidabile che mantiene roccaforti di nebbia, torri di cirri». Un grande visionario. Un caso ancora inesplorato, perché come dice Angelo Guglielmi nel volume Trent’anni di intolleranza (mia) del 1994, Manganelli «non abbiamo finito di leggerlo». Opere principali: · 1964 Hilarotragedia · 1972 Agli dei ulteriori · 1974 Cina e altri orienti · 1977 Pinocchio: un libro parallelo · 1979 Centuria, cento romanzi fiume · 1981 Angosce di stile · 1982 Discorso dell'ombra e dello stemma · 1985 Dall'inferno · 1985 La letteratura come menzogna · 1986 Salons · 1986 Laboriose inezie · 1987 Rumori o voci · 1987 Tutti gli errori · 1989 Antologia privata · 1989 Improvvisi per macchina da scrivere · 1990 Encomio del tiranno · 1992 Esperimento con l'India · 1992 La palude definitiva · 1994 Il rumore sottile della prosa · 1996 La notte · 2001 La penombra mentale. Interviste e conversazioni 1965-1990 · 2002 L' infinita trama di Allah. Viaggi nell' Islam 1973-1987
|