TUKANO Loretta Emiri
Localizzata a nordovest dello stato brasiliano dell’Amazonas, la regione dell’Alto Rio Negro confina con la Colombia. È abitata da circa quindicimila indios di etnie e gruppi distinti, classificati in due grandi categorie a seconda del controllo che esercitano su fasce del territorio comune; per cui abbiamo gli indios del fiume, di cui i tukano fanno parte, e gli indios della foresta. Nel XVIII secolo spagnoli e portoghesi si contesero la regione e la sua densa popolazione, subito drasticamente ridotta da massacri e schiavitù. Per assicurarsi il controllo delle frontiere, a metà del XIX secolo il governo del nuovo stato avviò una politica di costruzione di fortificazioni, sfruttamento della manodopera, “civilizzazione” dei nativi. Quando gli indios si ribellarono all’arbitrario e oppressivo sistema, il governo disse che erano stati istigati dagli ideatori di una cospirazione internazionale originatasi in Venezuela. Alla fine del XIX secolo, il cosiddetto primo ciclo del caucciù fece sì che la regione venisse inserita nell’economia mondiale, e che gli indios fossero ancor più selvaggiamente sfruttati e schiavizzati.
Prima dell’arrivo dei missionari salesiani, gli indigeni vivevano nelle malocas, grandi case comunitarie che ospitavano ognuna un gruppo di discendenza patrilineare. Non erano mere abitazioni, ma templi, luoghi sacri, perché vi si realizzavano anche quei riti e cerimoniali che consentivano alla cosmologia del gruppo di preservarsi e tramandarsi. I missionari bruciarono le malocas. Gli indios vennero costretti a vivere in case unifamiliari uguali a quelle dei brasiliani poveri della regione, e ad adottare gli schemi culturali di questi ultimi; per cui i gruppi di discendenza patrilineare si ridussero a famiglie nominate secondo i parametri della società occidentale. Minando alla base l’ordinamento sociopolitico, i missionari provocarono drastiche trasformazioni nella vita quotidiana e negli atteggiamenti esteriori; ma, più che altro, produssero fratture e conflitti nelle concezioni che gli indios avevano del mondo e di sé stessi. Ritenendosi educatori, naturalmente i salesiani impostarono la loro azione a partire dall’educazione formale. Edificarono grandi internati; imposero lingua, storia e valori della società nazionale; impressero un carattere religioso a tutto il processo cosiddetto educativo. Il risultato finale fu l’insorgere di una società fortemente impregnata di ideologia e morale cattolica. L’azione dei leader tradizionali era stata legittimata dall’organizzazione politica dei gruppi di appartenenza; con la distruzione delle case comunitarie, i salesiani stravolsero l’ordine sociale; poi si servirono delle nuove categorie sorte, e soprattutto dei catechisti, per strappare di mano ai leader indigeni quel poco potere decisionale loro rimasto. È proprio vero che la storia non insegna. Quanto i salesiani hanno realizzato nel Rio Negro corrisponde a ciò che i primi missionari gesuiti fecero all’epoca in cui il Brasile era una colonia.
A partire dal secondo ciclo del caucciù, negli anni quaranta del XX secolo, nella regione si moltiplicarono le istituzioni economiche, amministrative e militari. Negli anni settanta, la costruzione di un tratto della Perimetrale Nord, strada che avrebbe dovuto collegare il Brasile alla Colombia, attrasse frotte di emigranti. L’obiettivo del governo era quello di colonizzare la frontiera, cioè di salvaguardarla popolandola. In relazione agli indios, la politica era la stessa del XIX secolo: dovevano essere “civilizzati”, a qualsiasi costo dovevano integrarsi alla società nazionale, dovevano trasformarsi in brasiliani e rendere così più sicure le aree di frontiera. Il compito venne lasciato in mano soprattutto alle missioni, visto che tanto diligentemente già stavano operando in questo senso. Bastò solo incoraggiare i salesiani fornendo loro l’appoggio delle forze armate, che più massicciamente si istallarono nella regione.
Quanto stretto fosse il connubio tra militari e salesiani, trapela da un aneddoto citato da Daniel Matenho Cabixi, indio paresi. Durante un viaggio di ispezione a una missione salesiana dell’Alto Rio Negro, il colonnello João Carlos Nobre da Veiga, allora presidente della Fondazione Nazionale dell’Indio, dichiarò che il lavoro lì realizzato era meraviglioso, sia sotto l’aspetto educativo, che civico. Daniel conclude che il militare non poteva far altro che elogiare il sistema impiantato dai salesiani perché, classico e collaudato, era quello che meglio preparava l’indio alla marginalizzazione, visto che non faceva altro che immetterlo nel nutrito mercato della manodopera non qualificata e sfruttata. Divenuta famosa in ambito indigenista, ho sotto gli occhi una fotografia scattata in una missione salesiana dal leader Álvaro Tukano. È più eloquente di tante parole. I bambini vi appaiono separati dalle bambine. La divisa dei maschi consiste in calzoni lunghi e scuri, camicette chiare, scarponcini. Come le reclute, hanno i capelli tagliati ben corti. La divisa delle bambine è costituita da gonne scure con la pettina, magliette chiare, calzettoni che quasi arrivano al ginocchio, scarpe da tennis. La scriminatura nel mezzo separa i capelli in due bande, che mollette imprigionano ai lati del volto. Tutti loro hanno in mano piccole riproduzioni di carta della bandiera brasiliana, il cui motto “Ordine e Progresso” può essere letto nella bandierina in primo piano. È una cerimonia di benvenuto ad autorità civili e militari in visita ai salesiani.
Un documento, firmato dallo scrittore Márcio Souza di Manaus, sottopose l’operato dei salesiani della prelatura del Rio Negro al giudizio del “IV Tribunale Internazionale Bertrand Russel”, realizzato in Olanda nel novembre del 1980. Álvaro Fernandes Sampaio, della nazione tukano, che per le scuole della missione era passato, venne invitato a Rotterdam per deporre come testimone. Il tribunale giudicò il governo brasiliano e l’ordine dei salesiani, specialmente il vescovo Dom Miguel Alagna, colpevoli di genocidio attraverso la distruzione di basi fisiche di sussistenza, e di etnocidio per gli sforzi sistematici fatti per disintegrare la cultura, osteggiare le tradizioni, impedire usi e costumi, proibire l’utilizzo delle lingue indigene. La notizia, con tutto lo scalpore che fece e la riflessione che suscitò, mi raggiunse fin dentro la foresta dove vivevo e operavo con gli yanomami, e contribuì a chiarirmi il significato di due parole: come tuoni e fulmini fanno parte della stessa tempesta, così genocidio ed etnocidio derivano dalla parola morte, e che essa sia fisica o culturale poco importa. Álvaro Tukano dovette sparire dalla circolazione per un bel po’ di tempo, non potendo tornare a Manaus dove studiava, mentre i suoi amici venivano ripetutamente interrogati dalla Polizia Federale che cercava di scoprire dove fosse finito. Invece, il missionario salesiano Eduardo Lagório rilasciava dichiarazioni ai giornalisti. “Non si può caricare in eterno la colpa di un errore e non tentare di redimersi”, sosteneva, e raccontava la sua personale esperienza. Arrivando in una missione del Rio Negro trentotto anni prima, aveva ricevuto l’orientamento di punire gli alunni che parlassero la lingua indigena. A quelli che lo facevano consegnava degli anelli e, all’ora della ricreazione, costringeva i possessori a rimanere in classe per scrivere cento volte “non parlerò più tukano, solo portoghese”. I giornali riportarono che, con voce triste, aveva confessato di aver applicato molte punizioni.
Fra le denunce contenute nel documento inviato al Tribunale Russel, la più drammatica riguardava le ragazze indigene. Per sdebitarsi dei favori loro concessi, le suore salesiane incoraggiavano le giovani a trasferirsi a Manaus per lavorare come servette nelle case di militari e autorità. In cambio di una disponibilità che doveva essere totale, nella maggior parte dei casi erano ripagate solo con vitto, alloggio e abiti smessi. Nella maggior parte dei casi, le prestazioni includevano anche i rapporti sessuali a cui le costringevano i padroni di casa e loro figli e parenti. A causa del regime di semischiavitù cui erano sottoposte, della precaria situazione economica, dell’impreparazione ad affrontare la vita in città, nella maggior parte dei casi le ragazze finivano per rimanere incinte o si prostituivano. Ovviamente le suore erano al corrente della situazione ma, convinte come erano di fare promozione umana, fingevano di non sapere.
Nel libro Yuruparí. I flauti dell’anaconda celeste, si legge: “Non c’è davvero bisogno di essere femministi sfegatati per rilevare l’indole androcentrica e fallocratica dell’orizzonte ideologico tucano, con la sua violenza ritualizzata contro le donne e il rimando a un ordine sociale perfetto e immutabile legittimato dal mito. Naturalmente non posso che augurare a Nyoko e alle alunne che ridevano per i nostri burattini di emanciparsi dal destino loro riservato, anche se come domestiche o segretarie. Soltanto, se fosse possibile, sarebbe bello che l’emancipazione venisse dall’interno della loro cultura e non le cancellasse come tucane”.¹ Alle ragazze tukano io personalmente auguro di non accontentarsi di incorporare al loro universo tematico la parola “emancipazione” così come viene propinata dall’uomo occidentale, che l’ha pensata e forgiata, ma che la sviscerino fino ad elaborare conclusioni proprie, in modo da non incorrere nel rischio di sostituire l’orizzonte “fallocratico” della loro cultura con il fallo dell’uomo bianco.
¹Yuruparí. I flauti dell’anaconda celeste, Danilo Manera, Feltrinelli, 1999. Il brano “Tukano” č uno dei capitoli del libro inedito Amazzone in tempo reale. Loretta Emiri č nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si č stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yănomamč-Portuguęs e il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. In italiano ha scritto Amazzonia portatile, Quando le amazzoni diventano nonne, e l’inedito Amazzone in tempo reale. Dell’inedito Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore piů č la curatrice. Č membro del CISAI – Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena dell’Universitŕ di Siena.
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