MASTICANDO E BEVENDO UMANI Una raffinata libagione in cineteca con Nelson Pereira dos Santos Reginaldo Cerolini
1.
Immaginate, nella storica Bologna La Grassa, una piccola sala (sala Cervi della Cineteca) scura ed allungata, con una quarantina di spettatori affamati tra studenti di cinema, lingua straniera, antropologi e qualche curioso incursionista. Mettete sulla prima fila la stampa, i rappresentanti degli enti che hanno favorito e patrocinato l’evento, (Università, Cineteca, Ambasciata brasiliana di Roma etc.), schierate sul tavolo di fronte al pubblico un professore di letteratura brasiliana (R. Vecchi) e posizionatelo sulla sinistra. Aggiungete a destra un noto regista, cultore di vino ed organizzatore del potente evento che onora la città “Cinevino” (Jonathan Nossiter ), e poi fate entrare il piatto forte: l’ottuagenario maestro del cinema brasiliano, ma di fama internazionale, Nelson Pereira dos Santos. Posizionatelo al centro ed avrete servito un piatto culturale insolito e speziato.
Nel tardo pomeriggio del 29 gennaio 2012 Nelson Pereira dos Santos partecipa al seminario intitolato “Cinema, cultura brasiliana e studi post-coloniali” introdotto dal Prorettore universitario Carla Salvaterra e dal Direttore della Cineteca (divenuta Fondazione dal primo gennaio) Gianluca Farinelli. Quello che ha tutti i crismi per essere un retorico appuntamento culturale diventa, complice i tre elementi sulla tavola, un dialogo aperto e pepato. Nelson Pereira dos Santosos , caloroso, ricorda quando già nel 1996 era stato proprio alla Cineteca in occasione di un piccolo festival. Si apre così, fra chiacchiere articolate, la discussione che vede da una parte la vis passionale e provocatrice di Jonathan Nossiter invitare il pubblico ‘ancora in democrazia, …” ad interagire. Nossiter infatti sposta subito l’accento sul periodo di dittatura e censura brasiliano in cui fu realizzata la ‘coraggiosa’ pellicola, tentando così di creare punti di connessione con la difficoltà odierna di esprimere liberamente la propria voce o dissenso. Dall’altra parte l’agile Professor Roberto Vecchi ricostruisce un ampio tessuto sociale, attorno al film, a partire dal 1971-72 che investe letteratura (in particolar modo Oswaldo de Andrade), antropofagismo (letterario ed indigeno) e tropicalismo con la sua visione allegorica del Paese, alla luce di una vivissima rinascita culturale brasiliana . Però il regista Nelson Pereira dos Santos sfugge, o meglio risponde, alle precisazioni e provocazioni con una visione ironica e sottile sul periodo dittatoriale ricordando un’intervista italiana in cui disse “Ma anche noi in Brasile abbiamo conosciuto, all’epoca della dittatura, alcuni momenti di democrazia, … è sta come lo spazio di un intervallo pubblicitario davanti alla televisione”, e sminuendo il ruolo del regista come smascheratore dei costumi sostiene “non so se i mie film possano servire a cambiare qualcuno, a meno che non sia per una strana sinergia che non dipende da me”. Si assiste allora in sala ad un dialogo articolato dove le comparazioni tra Italia neorealista e Brasile del “Cinema Novo” , le questioni sociali di allora e di oggi, la dinamica della costruzione di un film, i suoi costi, e lo spazio di libertà espressive si mischiano nei toni e nei colori degli interlocutori come accesi affreschi. Il pubblico assiste silenzioso, forse ammirato, a questa insolita lezione-seminario dove, lontano dalle preoccupazioni accademiche, può letteralmente sfamarsi col corpo vivo di un maestro del cinema.
2.
Al banchetto questa volta, come nelle pre-napoleoniche sagre di Piazza Maggiore, sembra invitata l’intera popolazione amante e curiosa del cinema ma ci troviamo nella hall del Lumiere, e c’è vino in abbondanza. Decine e decine di persone infatti, di tutte le età, banchettano in piedi allegramente parlando in italiano, in portoghese, in francese. Fra loro Nelson Pereira dos Santos in uno dei circoli che si forma, fra gli avventori del Moscato Passito e dei dolci …, parla con morbidezza e luce negli occhi. Nella sala Scorsese sta per essere servito il film “Come era saporito il mio francese”, l’atmosfera è di festa, il pubblico non si siede subito ma si dilunga nella degustazione ripetuta del vino, nelle chiacchiere e nell’emozione allegra che si solleva sino al soffitto.
Nel secondo appuntamento della giornata, mentre scorrono gli applausi e con il passito alla mano, Nelson Pereira dos Santos sale sulla tavola dove ad aspettarlo ci sono l’interprete Paula Queiroz, il Direttore della fondazione Lumiere Gianluca Farinelli, l’organizzatore Jonathan Nossiter, e il produttore di vini Ezio Cerruti.
La serata si svolge in tre tempi. Nel primo tempo viene introdotto il maestro e il produttore Cerruti.
“Spero che lei gradisca il mio film come io sto apprezzando il suo vino” esordisce il maestro rivolto a Cerruti, Nossiter alza il bicchiere in aria per brindare, fanno lo stesso alcune persone fra il pubblico con il vino ed incomincia così una breve introduzione sul rapporto tra produzione naturale di vino e l’artigianato con cui si fanno film.
Il secondo tempo della serata inizia, quando incomincia la vera e propria proiezione del film. Il regista si siede fra il pubblico. La pellicola con colori vivi e sfibrati mostra, senza preamboli, l’inizio della scena del XVI sec. , sono immagini corpose, allegre, poetiche.
Il film intreccia la storia d’intimità e reciprocità, tra una indios Tupi ed un giovane conquistatore Francese, più improbabile, azzardata e realista del suo tempo. Sembra infatti di vedere in essa l’origine di una serie di film che abbiamo visto nella nostra vita senza che sapessimo da dove, probabilmente, si sono ispirati. Nella pellicola si intreccia la voce dissacrante del narratore con le numerose citazioni dei padri della chiesa, dei conquistatori ed avventurieri, insieme alle immagini piuttosto misurate nel rapporto con la presenza delle voci. E’ curioso come la narrazione pur non essendo esteticamente silenziosa, lega il silenzio ad ogni gesto, ad ogni sviluppo della narrazione. Ogni psicologismo è ridotto ad espressioni e gesti dotati di funzionalità. Quasi alla fine si ha nel film il momento lirico più inquietante, divertente e sospeso di tutta la narrazione quando la protagonista-compagna del francese spiega a lui come debba morire, destinato ad essere mangiato dalla tribù di lei, con onore e dignità. Ogni possibile tensione storica, ideologica, identitaria dello spettatore viene spazzata via dalla poetica di questa scena.
Il terzo tempo della serata, in fine, vede nuovamente sul palco Nelson Pereira dos Santo rispondere alle suggestioni del pubblico e degli interlocutori. Capace, ancora una volta, di ironizzare asserendo “Mentre guardavo il film pensavo, ma chi l’ha fatto questo film? … perché davvero me lo sono goduto, è passato tanto tempo”, infiammare Jonathan Nossiter e i tecnici del cinema con l’espressione, riferita ad un suo cameraman, “ Riusciva a fare un traveling umano” ed in fine citare Glauber Rocha “… per fare cinema è sufficiente un’ idea nella testa ed una camera alla mano, o l’inverso …”.
Atto cannibalico è prima, dunque, questo evento ed in fine retrogusto dolce (e mai dolciastro) quando, Nelson Pereira dos Santos rende ebbro, di sé, il pubblico, facendolo rispondere con uno scrosciante e lungo applauso.
3. INTERVISTA
Quando parlo con Nelson Pereira dos Santos, si è appena concluso il seminario. Gentilmente mi concede un’intervista sedendosi al mio fianco nella prima fila della platea. Occhi scuri, viso giovanile nonostante l’età. Ha una gestualità composta ed una voce sottile, che a tratti si alza cristallina ogni volta che accenna il riso. Sorride spesso. Ogni domanda sembra immergerlo in un mondo di immagini e pensieri remoti che riporta con parole ora lente ed ora rapide con un guizzo d’ironia serena che sembra caratterizzare tutta la sua persona.
R. C. : Lei ritiene che dopo il Cinema Novo fare documentari sia quello di cui l’attualità ha bisogno?
N. S. : Penso che realizzare documentari sia un’attività molto importante, specialmente all’inizio di una carriera. Ci sono poi alcuni che si specializzano nei documentari e continuano a farli e a produrli. Oggi in Brasile c’è molta produzione di documentari, so che ce ne sono abbastanza. Buoni autori, documentaristi, riconosciuti internazionalmente. Quindi penso che sia il migliore aspetto del cinema brasiliano.
R.C. : Al di là degli aspetti tecnici, lei pensa che ci siano differenze tra film e documentari?
N.S. : Io penso che la differenza basilare sia la proposta di realizzazione, documentare quello che sta succedendo, testimoniando con la ripresa quello che succede mentre si sta svolgendo. Dunque si tratta di dire queste persone che stano parlando esistono, questa è un’autorità di … oppure questa è una tale vittima. Mentre con la narrazione, il film narrativo, si ha qualcuno fingendo che esiste sia esistito un personaggio che ha fatto questo o quella cosa. Lo scenario creato attorno sarebbe allora la costruzione di qualcosa che dovrebbe essere esistita in quella forma, la differenza è questa. Ma ci sono a volte dei film narrativi che hanno lo stesso senso di verità di un documentario.
R.C. : Che cosa pensa del fatto di essere il rappresentante culturale del Brasile? Ha senso nell’epoca moderna questa identificazione nazionale?
N. S. : Io penso che sia appena una cosa onorifica che non ha molto senso.
R. C. : Quello che sta succedendo al Brasile è il contrario di quello che sta succedendo nel mondo, attraversato da una profonda crisi. Secondo la sua prospettiva, nella vita quotidiana brasiliana è proprio così?
N. S. : Guarda, ripeto quello che sta per essere pubblicato ma allo stesso modo si può percepire questo da dove vengo io. Realmente c’è stato un grande progresso in Brasile, in maniera più uniforme. Alcuni lo attribuiscono a Lula per gli incentivi economici alle famiglie, che ha favorito l’aiuto a persone con condizioni precarie, facendole dunque migliorare. Molti economisti sono d’accordo con questa posizione che sembra una grande verità. Ma c’è anche l’ottimismo riguardo alle possibilità del petrolio, che dovrebbe movimentare l’economia, fare pulsare l’economia del Brasile. Ora, c’è fondamentalmente, nel mio modo di intendere, il fatto che il capitalismo in tutto il mondo è strangolato… e il Brasile che è pre-capitalista riesce a respirare un po’ di più ed ha potenti risorse. Molto spazio, se non fa sciocchezze noi dovremmo effettivamente migliorare. Dal mio punto di vista, e penso dal punto di vista di una grande parte di persone, si spera che questo miglioramento venga anche per il popolo, offrendo migliori condizioni di vita, di studio, di educazione, salute diamine!… perché queste problematiche non sono più sopportabili. La vita nelle favelas, nelle piccole città, la situazione di penuria in cui si trovano alcuni non ha più senso, non scherziamo, nessuno faccia la parte del Leone. La cosa più importante è mantenere la democrazia viva. Senza inventare trovate come fare un colpo di stato trovare dei ministri da collocare, per fare dittatura ed impedire questa possibilità di uguaglianza (sociale), di dare una distribuzione … .
C. R. : Omogenea …!
N. S. : Omogenea, perfetto.
C. R. : Guardando ai suoi film si ha in generale l’impressione di una sorta di brasilianità, dura ma alla fine dei conti poetica. Facendo i sui film pensava già a questo risultato?
N. S. : Io penso che noi facciamo i film in tre momenti. Il primo è quello in cui si scrive la storia, li è il momento più letterario, ma con una visione, chiaro, di avere uno sguardo cinematografico e dunque fotografia, attori, tutto questo. Il momento della sceneggiatura è il momento importante della concezione del film, che storia si vuole raccontare, come la storia si avvia … e quindi li si rivelano tutti i sentimenti umani, politici, sociali, filosofici, amorosi etc. L’altro momento è quello duro del fare, della pratica, lavorare con l’équipe, gli attori, pensare ai soldi. Bisogna risparmiare … insomma una battaglia per tentare di mantenere quel progetto iniziale, ed esso può anche essere modificato, perfezionato, etc. . Il terzo momento è la chiusura, quando pubblichi il film e lavori al finale, il suono, la buona musica, tutto questo. Dunque è così.
R. C. : Sembra oggi, nell’ambito culturale, che il ruolo del regista abbia guadagnato lustro ma questo lascia in secondo piano le difficoltà di fare e produrre film. Che cose pensa di questo cambiamento?
N. S. : Bene, per dire la verità le difficoltà non sono finite ancora … noi siamo più riconosciuti, abbiamo di più … ma allo stesso tempo c’è la competizione e devi bussare alle stesse porte per avere fondi, gli incentivi, le leggi, tutto questo. Non è cambiato molto (ride).
R. C. : Ci sono le stesse difficoltà.
N. S. : Le stesse difficoltà.
R. C. : Se non sbaglio lei è sempre stato lo sceneggiatore dei suoi film, ma in “Estradas da vida” è stato Francesco d’Assis, come mai?
N. S. : Non è stato in “Estradas da vida” ma in “La moglie di Ogun”, dove Francesco Santos è stato …
R. C. : No Francesco De Assis.
N. S. : Ah, allora questo è un altro, è “Stradas da vida” anche. Perché lui veniva da quell’area, proprio Chico de Assis, che si intende dell’area e della musica sertaneja, per questo abbiamo lavorato insieme nella sceneggiatura.
R. C. : Lei ha sempre avuto una forte relazione con la letteratura, ma come sceglie quando qualcosa che ha letto vale la pena di essere raccontato?
N. S. : Il mio primo vero adattamento fu “Vite secche”, io scoprì il testo che già conoscevo, ma che non consideravo come il soggetto di un buon film. A partire da li sono stato molto sollecitato a fare film, e adattamenti di libri. La mia preoccupazione facendo film dai libri è sempre stata quella di ritrovare testi in cui si potessero incontrare pensieri genuini, originali, capaci di rivelare la nostra realtà, e che avessero qualità umanista e bellezza formale.
R. C. : Si parla sempre di cultura e valori. Lei ritiene che sia necessario tutto questo per raccontare la vita?
N. S. : Guarda, noi non ne abbiamo bisogno (ride), li abbiamo direttamente. Senza questo, studi, cultura, valori è difficile realizzare qualche lavoro. Non si può prenderlo in prestito da qualcuno, tu devi possedere questi valori ed attraverso loro discernere il tuo campo di lavoro, la tua realizzazione e la tua opera, io penso.
R. C. : C’è nella sua vita un senso particolare che l’ha mossa e che si può rintracciare nei suoi film?
N. S. : Io ho sempre pensato al piacere di fare le cose, alla relazione del cinema con la vita sociale. La mia prima idea che avevo, perché io facevo diritto ma avevo idea di essere qualcosa, era di diventare come giovane o scrittore o pittore, ma poi è comparso il cinema ed allora, ho detto “allora faccio cinema”. Questo piacere di creare un’opera espressione di un pensiero, di un’idea un ‘osservazione della vita con sentimento. Questo è stato il mio moto principale.
R. C. : Non ha mai pensato che non fosse la sua via?
N. S. : Si, chiaro, in relazione alla pittura. Ho tentato di dipingere, disegnare ma i miei amici dicevano: “Nelson, dimentica e vai a fare cinema”, e scrivere, essere scrittore è un cammino arduo. Ci vuole dedizione, un altro spazio.
R. C. : Come pensa che sarà ricordato, o come le piacerebbe?
N. S. : Bah, che ricordassero i miei film. Questo è buono, penso di aver realizzato qualcosa che andava fatto. Fotografie di: E. Passatore
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