TABUCCHI ALLA SAGARANA Un intervento inedito dell'autore di "Sostiene Pereira" Antonio Tabucchi
Qualche settimana fa abbiamo perso un grande scrittore europeo, mio amico da tanti anni Antonio Tabucchi. Lui è stato per me e per tanti altri scrittori italiani, portoghesi e brasiliani un esempio di creatore di alta narrativa ma soprattutto di spirito civile. Antonio era un intellettuale sempre impegnato nelle cause migliori, un uomo libero e senza paura, un imprescindibile, una coscienza critica che ci mancherà tantissimo, un’assenza che ci rende più fragili e più distanti dalla verità.
Nel 2003 Tabucchi era venuto a Lucca per incontrare gli allievi del Laboratorio di Narrativa della scuola Sagarana. Con loro ha avuto un intenso e brillante colloquio, aperto, franco, pieno di preziosi ragionamenti sulla scrittura oggi, sulla società, sullo spazio onirico e sullo spazio politico, farcito da citazioni preziose e da questo suo sguardo che attraversa tutti i veli delle convenzioni per rivelare il centro nevralgico di ogni cosa. L’ho registrato, e ora lo offro ai lettori della nostra rivista, quasi un decennio dopo che queste conversazioni lucchesi hanno avuto luogo, ed è la prima volta che questo testo è reso pubblico.
Questa edizione di Sagarana è un omaggio allo straordinario autore di Notturno indiano, di Sostiene Pereira e di La testa perduta di Damasceno Monteiro.
Con grande saudade,
Julio Monteiro Martins
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L’intervento di Antonio Tabucchi alla Scuola Sagarana, a Lucca, il 18 Ottobre 2003:
Julio Monteiro Martins – Innanzitutto vorrei ringraziare lo scrittore Antonio Tabucchi per questa sua visita al Master della scuola Sagarana. E vorrei ringraziare anche a voi per esser venuti qua numerosi in un pomeriggio di forte pioggia. Da molto volevo avere Antonio Tabucchi tra di noi, perché si tratta di uno scrittore che secondo me rappresenta il meglio della letteratura italiana oggi, da tutti i punti di vista. Gli raccontavo poco fa in macchina che la Sagarana è diversa da gran parte delle altre scuole di scrittura, nel senso che oggigiorno c’è questa attenzione eccessiva sul “come scrivere” – alla forma, alla tecnica –, mentre noi qua ci occupiamo anche, e forse soprattutto, del “cosa” scrivere, del contenuto, della visione-di-mondo. E, appunto, Antonio Tabucchi in Italia oggi riesce a trovare questa sintesi tra la forma più adeguata e più giusta e la visione-di-mondo più ampia e più opportuna nel momento storico in cui stiamo vivendo. Inoltre, l’ultimo libro di Antonio Tabucchi, “Autobiografie altrui”, è un libro sul processo dello scrivere, sul rapporto dello scrittore con l’inconscio e col linguaggio, insomma, sugli eventi soggettivi, psicologici, che lo hanno portato alla scrittura dei suoi libri più importanti, “Sostiene Pereira”, “Il gioco del rovescio”, e altri. Questo concetto di “autobiografie altrui” è molto interessante perché fa riferimento al fatto che alcuni lettori, leggendo i suoi libri, si sentono così identificati con il personaggio al punto di chiedergli come mai ha scritto nel suo libro la loro propria storia. E così Tabucchi dice di esser arrivato alla conclusione che la sua scrittura è anche un insieme di “autobiografie altrui”, e siccome noi siamo un gruppo di professori e studenti di narratologia, questo argomento, il processo della creazione, ci tocca direttamente. Ora lascio la parola allo scrittore Antonio Tabucchi.
Antonio Tabucchi – Buona serata a tutti e molte grazie a Julio Monteiro Martins per le sue parole, per quello che ha detto, presentandomi. Io dirò inizialmente alcune cose e semmai potrò continuare a dirle. Sostanzialmente credo che sarebbe più interessante se voi mi stimolate, se mi chiedete quello che volete, sono venuto per uno scambio di posizioni, non sono tanto venuto per fare una lezione ex catedra, anche perché non si fa letteratura a scapito della letteratura, si insegna la storia della letteratura. La insegno anch’io all’università. Ma non si insegna poi il “mistero”, se posso così dire, di quella che è l’origine della scrittura letteraria. Anche perché probabilmente è molteplice, credo. Forse si scrive per tutta una serie di ragioni, e premesse. In questo libro ho cercato di fare alcune piccole riflessioni che riguardavano, appunto, sostanzialmente ed essenzialmente la mia scrittura, i libri che ho scritto. Però in realtà è anche un pretesto per parlare dei libri altrui. È evidente che se parlo di una specie di “romanzo epistolare”, come “Si sta facendo sempre più tardi” inevitabilmente il mio pensiero ha comunque altri esempi di “epistolarità”, se così posso dire, della storia letteraria, quindi ci sono considerazioni in questo ambito, in questo senso. È ovvio che uno pensa poi a... che ne so... il mio non vorrebbe essere un paragone di qualità o di merito, ma dico semplicemente di modello. Penso allo Jacopo Ortis piuttosto che al Werther piuttosto che a Eloisa e Abelardo, piuttosto che a “Les liasons dangereuses”, quindi, uno può riflettere su cosa significa fare lettere in letteratura, scrivere lettere che non siano una missiva, e quindi una comunicazione personale, ma che abbiano una dimensione letteraria, cioè una dimensione creativa, cioè una dimensione d’invenzione, cioè una dimensione di finzione, ecco. E allora a questo punto la finzione entra nella lettera che invece di solito è un mezzo che noi reputiamo essere il più sincero possibile, perché se io scrivo una lettera a qualcuno è per dirgli una verità che deve essere detta soltanto fra di noi, non deve essere pubblica. Questo mezzo che gli uomini hanno inventato per comunicare, che consiste in un foglio di carta che si mette in una busta che si invia è, diciamo così, il più privato che possiamo avere, messaggio, appunto, che uno presuppone di essere il più sincero possibile. Però, a quel punto lì, è ovvio che a uno scrittore viene in mente: mah, sarà poi proprio vero che quando scrivo una lettera a qualcuno io dico tutta la verità o soltanto la verità che voglio dire io – e allora naturalmente il discorso diventa infinito. Ecco che poi ci si accorge che parlare di letteratura significa parlare della vita, sostanzialmente, perché la letteratura è una forma di conoscenza, è una forma di confronto, con tutto ciò che ci circonda, è un nostro giudizio, è uno specchio, insomma, è una stratificazione di cose che non può essere messa in una cornice molto determinata, deve essere molto allargata, ecco, quando si parla di letteratura. In questo senso vi dicevo che proprio per questo potete farmi le domande che desiderate. In realtà io credo che la letteratura, o meglio, la scrittura, mantiene un suo “perché” al fondo del quale non riusciamo mai ad arrivare. Appunto perché, come dicevo nel mio discorso, probabilmente questo “perché” è molteplice, di una molteplicità quasi infinita. Allorché i mezzi di comunicazione moderna, con una certa superficialità forse, e molte volte anche banalità, hanno tentato di fare delle “inchieste”, come si dice oggi, ed esse sono risultati quasi divertenti, o comicamente inutili, se si vuole. Mi ricordo di un’inchiesta che fece un giornale francese, “Libération”, una decina di anni fa, forse un po’ di più, ponendo a molti scrittori di tutto il mondo, quelli più noti, la domanda “perché lei scrive?”. Le risposte erano delle più incredibili, insolite, e certamente non coinvolgenti. Un grande scrittore come Beckett rispose “perché non so fare altro”, un altro rispose “perché mi annoio”, un altro rispose “perché mi manca l’infanzia”, e nessuno rispose una risposta che molti scrittori potrebbero dare ma che non darebbero mai, “per far soldi”, ma non c’erano, fra l’altro, scrittori di best-seller tra quelli intervistati. Ecco, questo è per dire che in realtà è una domanda così semplice, ma nello stesso tempo così sorprendente, che sorprende anche lo scrittore. Perché uno scrive? Effettivamente... Io personalmente non lo saprei proprio dire da cosa viene questa “necessità”, chiamiamola così, o voglia, o desiderio, ma certo probabilmente appartiene a una sfera di quelle molto profonde, sarebbe a dire, perché appartiene alla sfera erotica, alla sfera del desiderio, e il desiderio appartiene alla sfera dell’eros, se si vuole, in senso molto lato naturalmente. Ma certo, perché no, insomma. Oppure come rispose Fernando Pessoa: “la letteratura è una dimostrazione che la vita non basta”, anche questa è una bella risposta, “la vita non basta”, anche perché la nostra mano arriva fino a qui, più in là non va. Invece la letteratura va più in là della nostra mano. Cioè, qualcosa che va oltre un nostro fisiologico limite, e poi anche nel desiderio, nella voglia di arrivare più in là della mano, c’è anche un desiderio di evasione. Evasione da cosa poi, sostanzialmente? Ecco che qui mi riattacco brevemente al discorso di “Autobiografie altrui”, anche evasione forse da quello che noi siamo, voglio dire, noi trasportiamo noi stessi dentro una valigia che è il nostro corpo, e siamo quello, ecco. Creare un personaggio significa anche darci l’arbitrio e avere l’illusione di essere un’altra persona. C’è anche una voglia di molteplicità, dentro noi tutti. La limitazione di essere quello che siamo, una persona, è una limitazione molto forte, però gli dei ci hanno dotato fortunatamente dell’illusione, di una capacità che si chiama “immaginazione”, che ci lascia immaginare, in un piccolo miracolo, che noi siamo un’altra persona. Inventiamo un personaggio. Dietro questo personaggio ci siamo noi, però è un “noi” che è noi. Però noi lo viviamo con molta forza, e con molta convinzione, con molta verità. Noi lo viviamo con la stessa verità con cui Shakespeare vive Amleto, e poi Shakespeare non è Amleto, non si sa neanche chi era. Però, certo, in quel momento lì lui è Amleto, è un giovane principe tormentato e pieno di dubbi, e che non sa come risolvere una situazione familiare, come esercitare la sua vendetta, e come far funzionare una sua metodica follia, che mette, appunto, a lavorare per difendersi. Così come noi viviamo con la stessa convinzione quando poi abbiamo Amleto sul palco, e lì c’è la grande forza della finzione: ci porta fuori da noi stessi e ci va vivere un’alterità. Noi sappiamo benissimo che quando l’attore muore sul palco lui non muore, però noi piangiamo. Lui fa una cosa finta e le nostre lacrime sono vere. Come diceva Puškin “ho pianto tante lacrime sulla finzione”. Ma perché piangiamo tante lacrime sulla finzione, che sono vere, sapendo che noi stiamo assistendo alla finzione? Perché questa finzione è talmente caricata di un fatto simbolico, che non è l’attore che sta morendo, siamo noi, è l’uomo, siamo noi tutti, e lui in quel momento è il simbolo della morte, la sta impersonando. Quindi noi capiamo che c’è qualcosa che va al di là di una semplice finzione. Quindi io ritiro la parola che ho detto all’inizio: non è una finzione, è qualcosa di più.
Bene, tutto questo è letteratura, ma è anche molte altre cose. Secondo me è anche un fare la storia anche degli uomini. Se non ci fosse la letteratura, che storia avrebbero gli uomini, cosa sapremmo noi di noi stessi, eh? Sapremmo ben poco. Se gli storici hanno ricostruito attraverso i documenti certi avvenimenti, gli avvenimenti non bastano per sapere cosa li ha scatenati. Non basta contare i morti dell’Iliade o virtuali documenti per capire la guerra di Troia. Per capire la guerra di Troia in Omero noi dobbiamo capire che c’è stato Paride, Elena e un fatto di gelosia. Se sappiamo quello, capiamo perché si è scatenata la guerra, altrimenti il resto è un documento sordo, che non dice niente, fa della contabilità di quelli che sono gli avvenimenti storici. Ha un senso sapere quante sono state le vittime dei campi di Auschwitz o dei campi nazisti solo se noi sappiamo qual’è l’ideologia che li ha sterminati. Allora sì, capiamo, con raccapriccio, ma con grande chiarezza, che cosa è successo, altrimenti tutto il resto sarebbe sordo, noi avremmo un’enorme contabilità di fatti che sono successi nella storia di cui noi non capiremmo niente, chi ce li racconta è la letteratura. Questo ci racconta la letteratura, che ospita tutto tra l’altro, è un ventre enorme di memorie, della memoria umana. La letteratura non ha mai guardato carte di credito, ha ospitato tutti, da Carlo Magno alla piccola Cosette dei Miserabili, tutti dentro, senza gerarchie. Quindi è proprio un grande ventre dove stiamo tutti; e poi anche per quanto riguarda le conoscenze di noi stessi, io credo che la letteratura sia una profonda conoscenza di noi stessi. Prendiamo uno dei sentimenti che ho messo a funzionare, che ho cercato di osservare in un libro come “Si sta facendo sempre più tardi”: l’amore, che poi ha un perimetro piuttosto vasto, perché nell’amore ci sono le passioni, c’è la gelosia, c’è il rancore... ma dico, noi cosa sapremmo dell’amore, effettivamente, di questo complessissimo e svariatissimo sentimento, se esso dovesse essere limitato alla nostra personale esperienza? beh, saremmo molto più poveri di quello che invece non siamo, grazie al fatto che conosciamo l’amore attraverso la letteratura. Se fosse limitato alla nostra personale esperienza, beh, un grande amore nella vita è già un dono degli dèi, due grandi amori mi sembra proprio una fortuna eccezionale! Ecco, due grandi amori nella vita, e poi? ma se invece noi abbiamo tutta una serie di informazioni sull’amore perché abbiamo letto Madame Bovary, Anna Karenina, Eloisa e Abelardo… l’amore lo conosciamo attraverso queste informazioni a cui affianchiamo certamente la nostra esperienza personale, che resterebbe limitata se noi non avessimo a disposizione la letteratura.
Julio Monteiro Martins - In “Autobiografie altrui” c’è sempre la presenza dell’inconscio, dei sogni, come una forza potente legata alla creatività. Nel tuo processo creativo personale, com’è questa tua forza dell’inconscio e com’è quest’altro io che ci abita?
Antonio Tabucchi – È un universo in sospensione, naturalmente, in cui non si è più tanto con i piedi per terra ma non si è ancora passati al mondo propriamente dei sogni, quello che viene definito lo spazio onirico e che poi eventualmente uno poi racconta la mattina alla propria moglie o allo psicanalista se ci crede. È quella cosa che Eugenio Gozzi chiamava “insognar”, che è proprio un “intersogno”, un trasognare, diremmo in italiano. Si tratta cioè di stare in quello spazio a mezz’aria in cui si sta formando qualcosa che viene dal reale, inteso come realtà fattuale ma anche come qualcosa che è dentro di noi che è ugualmente reale, che è come se si cristallizzasse, se si coagulasse in qualcosa che magari a volte assume anche una forma narrativa – non è detto che in me o in chi esprime questo stato in una formulazione che poi si racconta, diventi poi narrazione – ma può assumere anche altre forme espressive, com’è noto. In questo caso, la trasposizione in parole, può ordinare logicamente, secondo una formulazione narrativa o diegetica, un qualcosa che di per sé sarebbe come una gelatina… anche perché il fatto di raccontare a noi stessi noi stessi, ci fa capire quello che è il caos, perché, a ben vedere, la vita non è formulata in termini narrativi, perché noi la vita la viviamo, e la vita è qualcosa che succede, accade. La vita diventa comprensibile quando noi ce la raccontiamo, altrimenti non la capiamo: per capire noi dobbiamo formulare in termini narrativi, altrimenti non capiamo. Dobbiamo ordinare il caos, e lo ordiniamo raccontando.
Spettatrice 1: Credo che conosciamo tutti il suo impegno politico nell’Italia e nell’Europa di oggi, e vorrei chiederle quanto di questo suo ethos è presente nella sua opera e se sente che influenzi o vada influenzando la sua opera.
Antonio Tabucchi – Credo di avere, nella mia scrittura, soprattutto un libro che ha questo tipo di impegno, e si tratta di “Sostiene Pereira”. Per quanto riguarda il resto della mia produzione narrativa, il quoziente di impegno politico è assai minore. Per la verità credo che lo spazio di quest’espressione, per uno scrittore come me, si eserciti meglio in una funzione intellettuale piuttosto che di scrittore: piuttosto che fare narrativa, preferisco usare la scrittura, certo, ma con interventi saggistici, giornalistici, in quanto spazio che io ritengo più efficace, anche perché credo che la letteratura in sé abbia bisogno di una certa distanza dall’avvenimento, altrimenti rischia di diventare cronaca. Per quanto riguarda questo romanzo che effettivamente riconosco politico, qual è appunto “Sostiene Pereira”, cercherò di fare una riflessione di carattere pratico: l’ho scritto nel 1993, e per la precisione la data che compare in fondo, il 25 agosto, coincide con la fine del romanzo ma anche con il compleanno di mia figlia, ed io ho voluto sottolineare questa cosa. L’ho scritto per necessità, perché credo che la letteratura sia lo spazio della libertà assoluta e uno dunque deve scrivere ciò che vuole. Con tutto ciò, io non mi sognerei mai di dare una grammatica deontologica a qualsiasi scrittore, perché se io domani ho voglia di scrivere sui cavoli dell’orto, è giusto che lo scriva, perché i cavoli esistono, sono creature del mondo, ed è giusto che qualcuno scriva dei cavoli, se ne ha voglia. Se uno si innamora dei cavoli, cavoli suoi! Io avevo voglia di scrivere su quel rovo che stavo cogliendo, su qualcosa che stavo cogliendo e che mi sembrava di avvertire, e che forse la letteratura avverte meglio, o intuisce meglio dell’osservatore politico del giornale o della televisione inviata sul posto. Avevo colto dei venti, diciamo così che stavano di nuovo soffiando sull’Europa – ora mi pare che questi venti siano turbinosi: c’erano dei nazionalismi che stavano tornando in maniera feroce. Non sono d’accordo con quella frase di Marx secondo cui la storia prima si manifesta come tragedia e poi come farsa. Secondo me se la storia si manifesta dapprima come tragedia, poi si manifesta di nuovo come un’altra tragedia, nient’affatto come farsa. Ad ogni modo, io sentivo che era una cosa che assomigliava al vecchio ma che aveva un volto nuovo: era una vecchia novità. Tuttavia, io non avevo modelli in quel momento – il 1993 – su cui modellare schiacciato, diciamo così, il mio romanzo. E allora, siccome avevo in mente un personaggio, cercai di collocare le mie sensazioni in un determinato momento storico – il Portogallo del ’36, della guerra civile spagnola e del salazarismo portoghese – e di affidarlo a questo personaggio, un vecchio giornalista, Pereira, vedovo, cardiopatico, infelice e cattolico, probabilmente quanto più ci può essere di diverso da me. Affidai a lui il compito di raccontare questa storia. Questo avvenne nel ’93. Poi, naturalmente, il libro rimase fermo, e uscì nel ’94. Nel ’94 appena il libro uscì, si era insediato il governo Berlusconi. Io aprii uno dei giornali di Berlusconi, appunto Il Giornale, e c’era scritto a caratteri cubitali che il mio romanzo era un romanzo brezhneviano. Io pensai che se il vecchio povero grasso, timido, impacciato, cattolico Pereira era brezhneviano, beh, io non li avevo riconosciuti loro, ma loro non avevano neppure riconosciuto me! Da quel momento capii chi era il volto nuovo che mi mancava, e da quel momento mi sono messo ad osservare questo nuovo che è arrivato, questa vecchia novità, ma soltanto in interventi saggistici e non letterari.
Julio Monteiro Martins – Prima parlavamo sulla parola “egemonia” insieme all’altra che ora è un po’ in disuso ma che era di moda nella mia adolescenza e che è “alienazione”, che magari dovrebbe essere risuscitata nei nostri tempi. Si dice che l’Italia oggi vive una situazione di regime, anche se i segni esterni sono segni di una democrazia in funzionamento. Fino a che punto queste egemonie possono caratterizzare una forma magari nuova di regime nel ventunesimo secolo?
Antonio Tabucchi – Vorrei mettere la questione in questi termini: ciò che è formale e ciò che è sostanziale. Credo sia importante parlare a questo punto di democrazia formale e democrazia sostanziale, perché è ovvio che in Italia possiamo dire ciò che si vuole. Il problema è dove! Dunque il problema non è il fatto di poter dire qualcosa, bensì di dove poterlo dire. Questa è una forma di egemonia, che comincia a essere preoccupante: è come se qualcuno vi dicesse, “guardi, lei davanti a sé ha tutta una catena di prodotti da scegliere, solo che sono tutti miei”. Questo limita molto la scelta, in fondo, ma limita assai, invece, sostanzialmente. La libertà è un’altra cosa, e si capisce come l’egemonia divenga un fattore di condizionamento molto forte. Noi dobbiamo abituarci ad affrontare delle novità formali che sono poi dei vecchiumi sostanziali.
Julio Monteiro Martins – Vorrei parlare del ruolo dello scrittore. Nel mio Continente d’origine, l’America Latina, negli ultimi venti, trent’anni, gli scrittori hanno avuto addirittura un ruolo importante di riserva etica. Ricordo come è finita la guerra delle Falkland, delle Malvinas, in cui l’unico personaggio considerato all’altezza di presiedere quel tribunale dei crimini contro l’umanità, è stato un vecchio romanziere, Ernesto Sabato, che è stato cercato a casa, in pantofole, per presiedere in tribunale. Gli scrittori dell’Europa di oggi, in particolare in Italia, a me personalmente, che guardo con occhi dall’esterno, mi sembra che facciano troppe chiacchiere su argomenti di importanza minore. Molte cose legate alle politiche editoriali, alla visibilità mediatica, alla moda… cioè, non sarà che nell’Italia di oggi gli scrittori hanno perso quella dimensione di coscienza sociale che avevano invece negli anni Quaranta e Cinquanta, come nei casi di Pavese e Vittorini, ad esempio?
Antonio Tabucchi – Lo scrittore ha certo anche un ruolo di testimonianza, perché possiede un occhio e osserva. Questo è uno dei suoi doveri: che osservi dentro o osservi fuori non ha importanza. Nessuno può togliergli questo diritto/dovere. Ripeto, nell’Italia di oggi si può osservare, poi trovare dove dire quello che si è osservato è più difficile. Per quanto mi concerne, trovo che gli spazi siano molto limitati e hanno una diffusione molto limitata, rispetto soprattutto alla televisione che oggi detta legge. Perciò, per quanto posso, lo dico all’estero, su giornali esteri, perché far sapere alcune cose sull’Italia sui giornali esteri, dà molto fastidio a certi che non vorrebbero che andassero al di là dei confini. Tra l’altro, ha dato molto fastidio il fatto che io scriva sui giornali esteri – mi hanno anche accusato di essere provinciale per questo motivo! Quindi, poter far conoscere di fuori probabilmente fa molto bene, perché il fatto che alcuni scrittori latinoamericani siano stati testimoni ma la loro testimonianza non sia rimasta lì dove sarebbe stata macerata, maciullata, occultata, ma abbiano comunicato con il resto del mondo, beh, questa è una funzione importante della letteratura e dello scrittore.
Spettatrice 2 – Quale rapporto ci può essere oggi tra letteratura e filosofia, e ha senso che ci sia?
Antonio Tabucchi – Naturalmente può sembrare un’insolenza, ma credo che sostanzialmente siano la stessa cosa, tutto sommato non sono poi così lontane. Forse lo sono sempre state, anche se la filosofia, quella detta classica, non usava le forme narrative, o la letteratura non usava le forme più rigorose e scientifiche della filosofia, si veda ad esempio Kant o Hobbes. Ma se noi andiamo alle origini della filosofia, beh, Platone era un grande narratore: è lui che ci racconta Socrate, ma ce lo racconta in modo letterario. Per quanto riguarda i tempi più vicini a noi, io noto che una certa filosofia del Novecento ha scelto molto l’espressione narrativa/letteraria per manifestarsi – Nietzsche è un esempio per tutti. Del resto poi, se leggiamo alcune pagine di alcuni grandi narratori del Novecento, è forse difficile capire se non si tratti anche di filosofia – si veda ad esempio Beckett o il nouveau roman. Ne “L’uomo senza qualità” di Musil, rileggetevi il capitolo 16, intitolato “Una strana malattia dei tempi”: è una pagina socio-politica, di filosofia politica straordinaria, una decifrazione di quelli che sono i cambiamenti epocali dovuti poi non si sa a chi, è andata così.
Julio Monteiro Martins - C’è un’espressione che ho sentito anni fa che mi ha impressionato perché secondo me ha un legame con la realtà attuale. L’espressione è “il sequestro della soggettività collettiva”: è un modo di formazione dei cuori e delle menti in una determinata direzione voluta che finisce per imprigionare questa sensibilità collettiva. E fino a che punto magari la letteratura può servire eventualmente, anche nel suo piccolo, in quanto un libro è letto da diecimila, ventimila persone, quale unico eventuale antidoto a questa omologazione, a questo sequestro della soggettività?
Antonio Tabucchi – Io credo che anche questa sia una delle cose vecchie che ritornano, perché se noi percorriamo la storia dei totalitarismi – chiamiamoli così – intesi come sistemi sociali verticistici in cui chi è all’apice pretende che chi è alla base faccia quello che vuole lui, sia esso il faraone egiziano, l’imperatore romano, sia esso Hitler piuttosto che Stalin, tanto per venire ai nostri tempi. La prima cosa di cui costoro si preoccupano è la parola scritta, ovvio: tutti i regimi, storicamente parlando hanno preso di mira per prima cosa la forma di comunicazione che peraltro, come dice Julio, è la meno controllabile. Voi sapete, controllare, come dire, i nuovi mezzi di comunicazione che sono importantissimi, beh, quello è facile, basta nominare il proprio direttore di rete. Nella letteratura purtroppo c’è una rete che ha un sacco di buchi e scappa da tutte le parti: un libro non si sa quale percorso faccia. Quindi si controlla molto peggio. La parola scritta, a mio avviso, seppur meno efficace in termini immediati di quelli che vengono chiamati mass media, è però più resistente, più testarda, e poi scorre sotterranea, dunque è meno controllabile. Voglio dire, su cento metri vince Bruno Vespa, ma sulla maratona vince la letteratura, non ci sono dubbi. E, siccome questi hanno bisogno di un controllo del tempo – perché non possono mica durare due anni, sono troppo pochi, anche tre, quattro, perché questo apparterrebbe al cosiddetto ricambio democratico, mentre questi vogliono restarsene lì a lungo, finché possono, e allora bisogna controllare nel tempo - la parola dà fastidio. Il libro è un pesce di fondale, galleggia meno...
Spettatrice 3 – (Registrazione dall’audio disturbato)
Antonio Tabucchi – A questo proposito, vorrei aprire una parentesi su un mio libro, perché io posso parlare solo della mia esperienza personale di scrittore. Ho fatto questa riflessione quando mi fecero un questionario a proposito di “Si sta facendo sempre più tardi”, che raccoglie – per chi non l’avesse letto – una serie di lettere, tutte maschili, che degli uomini hanno scritto a delle donne con cui hanno avuto un rapporto amoroso che non è finito molto bene, e serbano molti rancori perché possono anche aver lasciato tracce molto forti nella loro vita. Poiché io non volevo scrivere un libro tradizionale, nel senso che non volevo scrivere un romanzo epistolare, le risposte delle destinatarie non ci sono in questo libro. Questo fa pensare che gli uomini che scrivono e che raccontano la storia, in fondo la raccontano dal loro punto di vista, non è mica detto che sia andata proprio così, anzi, io ne dubiterei fortemente... Non ho scritto le lettere di risposta per due sostanziali motivi che riassumo: il primo è perché, francamente, per uno scrittore uomo è molto difficile, e forse anche un po’ arrogante, mettersi nell’universo femminile e assumerne il punto di vista, anche se io ho tentato perché ho scritto in quanto bambina, ho scritto come una madre a cui viene ucciso un figlio. Ho tentato di assumere un corpo femminile; è raro però che uno scrittore maschile riesca a scrivere da donna, forse i due grandi che ci sono riusciti e per i quali ho una grande stima, sono Flaubert con “Madame Bovary” e Tolstoj con “Anna Karenina”. Prendiamo ad esempio una conversazione in cucina, per dire una piccolezza, tra una vecchia cuoca, un’altra che parla, una ha una nipote che deve sposarsi, l’altra ha appena avuto una bambina e una dice “Ah, poverina, pensa te”...Beh, Scusate il riassunto frettoloso, ma vedete, se uno scrittore riesce a parlare così, da donna, quello è un grande scrittore. Prima difficoltà: mettermi in vesti femminili. Seconda difficoltà: volevo che il mio libro fosse semplicemente una mancanza di comunicazione, un insieme di disincontri, di gente che non si è trovata, perché la vita molto spesso è fatta così. Se invece li mettevo a dialogare, riempivo i vuoti, mentre volevo fare un libro di assenze, perciò le lettere di risposta non le ho scritte. Ma le ho pensate. Posso confessare che a volte, dopo aver scritto una lettera dell’uomo, la sera andavo a letto e inevitabilmente rispondevo. Poi non ho avuto il coraggio di scriverle e non l’ho fatto. Ma il fatto di aver scritto la lettera prima, mi obbligava ad andare a prendere anche l’altro ruolo, e per lo meno mentalmente, tra me e me l’ho fatto, perché dicevo “beh, a questo mascalzone bisognerebbe dargli una risposta” e lo facevo, insomma. Ad alcuni, non tutti sono mascalzoni, altri magari hanno pure ragione, ma ce ne sono due o tre che sono veramente.. a quelli ho risposto, mentalmente. Allora, rispondendo al questionario che poi mi fecero su questo libro, avevo fatto questa riflessione – e premetto che quando uno scrive è un po’ tutti i suoi personaggi, non si può negare. Cervantes ad esempio, nello scrivere il Don Chisciotte, non è solo Don Chisciotte e Sancio Panza, è anche il barbiere, la sua nipote. Uno, quando scrive un romanzo, deve essere tutto, non è solo il capocomico, è tutta la compagnia. Ed io, quando ho scritto Pereira, non ero solo Pereira, ma dovevo anche essere il direttore del suo giornale, ho dovuto pensare come pensava il direttore. Però per quanto riguarda il libro in questione, io ho risposto così: “Per le destinatarie è la stessa cosa. Per quanto possa sembrare paradossale, in un certo modo sono stato anche quelle, perché le lettere che scrivevo mi ferivano come se le ricevessi io”. Scrivendo questo libro ho creduto di capire un verso di Baudelaire che mi era sempre rimasto oscuro: “Sono stato lo schiaffo e la guancia”.
Spettatore 4 – Che cosa ne pensa delle trasposizioni cinematografiche della sua opera?
Antonio Tabucchi – Il cinema ha un altro linguaggio, è un’altra cosa. Io credo che se uno va al cinema pensando di vedere l’illustrazione del suo libro, beh, intanto uno si annoia a sangue perché il libro l’ha già scritto e vede una cosa identica, e inoltre perché c’è veramente una transitività nei linguaggi artistici: se una cosa passa ad un altro linguaggio deve essere un’altra cosa. Quindi io sono sempre andato al cinema, per quanto riguarda i film tratti o ispirati dai miei libri, per vedere un’altra cosa. Poi, mi possono essere piaciuti o meno, ma in relazione a loro stessi, ecco, non in relazione a me stesso.
Spettatore 5 – Nel suo libro “Autobiografie altrui”, lei fa una serie di riflessioni sui personaggi e fa parlare anche persone che hanno avuto dei rapporti con lei. C’è soltanto una parte del libro chiamata “Autopsia” in cui lei lascia questa lettera al lettore ma è l’unica volta in cui lei non fa alcun commento. Tra l’altro questa lettera è molto forte, la persona che scrive fa delle dichiarazioni importanti su di lei. Qual’è la sua opinione al riguardo?
Antonio Tabucchi – Intanto è ovvio che letteratura è anche lo spazio dell’ambiguità. Io non dico se questa lettera sia vera o falsa, ed io non ve lo rivelerò, però in qualche modo è un testo letterario. È un “autocommento” , perché io lo metto qui: anche se è un altro che, come dire, mi ha visto e commentato, il fatto che io me ne appropri e lo metta qui dentro, diventa un autocommento. Il fatto inoltre che io lo metta qui dentro come un’autobiografia altrui, diventa una doppia autobiografia altrui, perché costui, facendo un commento a me, rivela anche se stesso e diventa un personaggio lui stesso. Però siccome lo metto in un mio libro, diventa un mio personaggio. Cioè, diciamo che al di là del fatto che sia più o meno vera, che sia più o meno tradotta esattamente – perché è tradotta dall’inglese – il fatto però che io la utilizzi come materiale e me ne impossessi, significa che colui che mi osserva diventa da me osservato, e ribalto i termini della questione.
Supponiamo che lei nella vita ha qualcuno che si è dato il compito di dare un giudizio su di lei. Lei entra in possesso di questo documento, e lo pubblica: beh, lei dà un giudizio su quella persona. Maria Zambrano, l’allieva di Ortega y Gasset, un giorno ebbe una disputa, ma non si tratta di una disputa, è un riappropriarsi di chi ti guarda, quasi a voler dire “Ah sì, mi guardi? Allora ti guardo anch’io. Ma non ti guardo col mio sguardo, uso il tuo e lo metto lì”. E Maria Zambrano chiese a Ortega come poteva replicare a un filosofo che in qualche modo era entrato in polemica con lei, e Ortega disse: ”È molto semplice, lo citi, si limiti a citarlo”. Praticamente questa è una citazione di cui mi sono appropriato, e quando uno si appropria di una citazione, la trasforma. Naturalmente poi, lo ammetto, nella traduzione della lettera ci ho messo un po’ del mio. Forse l’ha anche un po’ migliorata, non so!! Ma questo è consentito dalla letteratura, è proprio lo spazio apposta per farlo. Ecco, la storia non dovrebbe far questo, se la storia utilizza un documento in maniera impropria, uno modifica e commette una falsificazione: io in questo caso lo faccio diventare semplicemente un testo letterario.
Julio Monteiro Martins – Sembra che lei ci abbia portato anche una sorpresa...
Antonio Tabucchi – Io vorrei chiudere la nostra conversazione con un regalino. Si tratta dell’ultimo libro che sarà pubblicato all’inizio del nuovo anno e vi volevo leggere un paio di pagine.
Chi parla è un uomo molto vecchio, che avrebbe l’età del secolo praticamente che ha vissuto, cioè quello trascorso, e racconta la sua vita come può perché è molto malato, è sul letto di morte, in una lenta agonia. Lui prende morfina e molte volte racconta la sua vita spesso anche sotto forma di delirio, a uno scrittore che ha chiamato al suo capezzale, e che ha la sola funzione di orecchio che ascolta e basta, senza dire una parola. Tutto questo libro è dunque un monologo.
Eccovi due pagine, una per mostrarvi come questo vecchio signore morente si rivolge allo scrittore che ha chiamato – che potrei anche essere io, in fondo sono io che l’ho scritto... – , e una che racchiude un suo ricordo che però è probabilmente modificato dalla condizione di febbre e di sostanze che deve prendere. Il personaggio, la voce, si chiama Tristano.
(Lettura del brano di Tristano muore.)
Julio Monteiro Martins – Grazie infinite.
Antonio Tabucchi – Grazie a te. Fotografie di Enzo Cei alla Scuola Sagarana, nel 2003.
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