LUK Brano tratto dal libro Paloma e l’angelo Fabiana Taddeucci
Il suo nome è Paloma, il suo vestito è rosso e i suoi piedi sono nudi. Paloma. Dal ponte guarda il fiume. Il fiume è luce che scorre. Non lo seguirà fino al mare, come aveva promesso. Un odore forte di Uomini, portato dal vento, le ha fatto risalire l’argine e quando ha visto la Città, laggiù sulla linea dell’orizzonte, ha gridato di meraviglia.
Il fiume è luce che scorre. Paloma non lo seguirà fino al mare. E come rimedio alla promessa non mantenuta, offre la sua collana di gocce d’argento e di corallo.
Prima di precipitare tra le acque del fiume, la collana rimane sospesa nel vuoto, per istanti, poi il fiume la inghiotte, e solo allora Paloma si avvia verso la Città.
Verso la Città, laggiù nella pianura: bellissima.
Il suo nome antico: Luk, palude. Poi chiese emersero con vertiginose facciate e raffinati paramenti monocromi e mensole e architravi arricchiti di intricate ornamenti. Cortili interni furono circondati da eleganti colonne. E le grandi famiglie non vollero più il titolo di cives et mercatores ma si chiusero altezzose nel libro di chi ha origini divine. Alte mura vennero innalzate. Fuori il turbamento delle stagioni, il sole e la luna, lo scompiglio del vento. Ma il Signore della città, che volle chiusa nella fortezza un’altra fortezza, con ventinove torri e quattro porte con parole d’ordine, non poté fare a meno di seguire il suo destino quando la malaria comunque entrò.
Come un veliero sospinto dal vento. Paloma. Verso la Città. Così vuole la Storia. Senza ancora sapere della profonda luminosità silenziosa dei chiostri, adagiati sui fondali del pensiero e della meditazione. Senza ancora sapere il cardo maximus dell’accampamento romano né il bell’architrave del portale maggiore della chiesa di San Giusto né i due bellissimi angeli adoranti nella Cappella del Sacramento oltre i cancelli in ferro nel silenzio del duomo. Ancora non sa tutto questo, Paloma, solo così forte l’odore degli Uomini. Eppure lei li conosce gli uomini, li ha visti: con la bava alla bocca, i canini scoperti, l’indice puntato. E’ chiaro che non è una donna prudente. Le bruciarono la casa una notte, e mai avrebbe immaginato che sarebbero arrivati a tanto. Le bruciarono la casa dopo aver giurato sulla sua capacità di diventare gatto, anche lupo per divorare viandanti, di scivolare sotto le porte per andare a succhiare il sangue dei fanciulli.
La sua casa avvolta dalle fiamme. E come un fiume in piena il dolore l’aveva travolta sprofondandola nel buio. Era ormai mattina quando aveva riaperto gli occhi: tremava. Della sua casa solo muri anneriti, tutto intorno silenzio. Fu allora che pensò al Mare: raggiungerlo, senza più nessuna volontà, sulle acque del fiume.
Ma qualcuno che non conosceva venne a offrirle del tè, tè caldo. E il vuoto del mondo si riempì di quel gesto: zattera che riuscì ad agganciarla impedendole di annegare.
II
L’imponente porta della città è aperta. Siamo in tempo di pace, dicono. Paloma ha un’esitazione: tornare indietro, cancellare le impronte. Ma già la mano lieve di ciò che deve essere la spinge oltre la porta, e le due pantere, che l’avevano racchiusa nel loro sguardo di marmo, tornano a fissare il vuoto.
Occhi da dietro persiane la spiano. Vergogna! Sussurrano al suo passaggio. Vergogna! Guardandole i piedi nudi, i sandali che le ciondolano dallo zaino. Una straniera, certo: barbari i suoi bracciali, da nomade i suoi abiti, per il decoro della città avrebbero dovuto impedirle l’ingresso. Vergogna!
Paloma si gira, si guarda intorno, così forte la sensazione di occhi addosso, la sensazione di essere seguita, ma non c’è nessuno. Strano, pensa. Nella penombra dei vicoli. Paloma. Poi la luce abbagliante di una piazza ovale la risucchia e una vertigine la fa scivolare giù, senza nessuna forza per impedirlo.
Distesa sulle pietre calde della piazza che continua a girarle intorno, il cielo calmo steso sopra di lei. Sono svenuta, pensa.
Come un animale disteso a terra. Vergogna! Una straniera, certo, con quei piedi nudi e quell’abito così spudoratamente rosso. Vergogna! Si bisbiglia da dietro le persiane.
A fatica si alza, la testa le ronza, si scuote la polvere dal vestito, raccoglie lo zaino, a fatica. Sfuggire a quella morsa di luce, pensa, trovare un cono d’ombra, un muro a cui appoggiarsi, qualcosa di freddo con cui bagnarsi le labbra. E si allontana dalla piazza assolata, un passo dopo l’altro come sul filo, sotto nessuna rete di protezione.
Il bar dove Paloma entra ha un solo tavolo. “Una granita alla menta, por favor” chiede al barista che incantato rimane a fissarla. Con lo stesso vestito rosso e gli stessi piedi nudi a chiedergli la stessa granita alla menta, por favor, come nel sogno che, negli ultimi giorni, ogni notte lo abita.
“Por favor, una granita alla menta” ripete Paloma. E come nel sogno, dopo il primo istante di meraviglia lui le risponde: “Subito”.
E davvero subito, o quasi, un gelido bicchiere di granita, come se fosse una rosa, viene lasciato sul tavolo vicino a Paloma.
Come se fosse una rosa il giovane barista glielo ha posato sul tavolo, quel gelido bicchiere di granita, poi è andato a nascondersi dietro la macchina del caffè per continuare a guardarla non visto. Rosso il suo vestito come un frutto maturo, belli i suoi piedi abbronzati e le sue mani che ora tengono una preziosa tabacchiera. Proprio come nel sogno. Incredibile.
Che lei resti lì per tutto il tempo che rimane, per tutto il tempo che rimane, che lei resti lì. E se solo sapesse chi supplicare certo lo supplicherebbe, a mani giunte, il giovane barista, perché questo possa accadere. Intanto tra le dita di quella donna una sigaretta prende forma. Una sigaretta a dire la misura del tempo concesso, pensa il barista da dietro la macchina del caffè, guardandola. E allora dovrebbe fare qualcosa, una qualsiasi cosa: prenderle la mano, non so, sorriderle, offrirsi come servitore per portarle lo zaino e che importa se lei, certo, lo guarderebbe con stupore e certo scuoterebbe il capo pensandolo un po’ pazzo, che importa, piuttosto che restare lì in silenzio a guardarla fumare una sigaretta che lentamente si consuma. E quando quella sigaretta si sarà consumata se ne andrà, è chiaro. Come nel sogno.
Le spalle appoggiate al muro. Fuma Paloma, a occhi chiusi.
Dentro il Tempo e lo Spazio. Chiusa nel Mondo. E se almeno avesse imparato la tecnica per convincere Dio e gli angeli a rivelarsi nei sogni e a darle risposte. Se avesse almeno imparato le giuste proporzioni della terra e dell’acqua e dell’aria e del fuoco per costituire l’oro. E invece niente, niente di tutto questo. Nemmeno un indirizzo a cui spedire il suo bisogno di azzurro. A questo pensa Paloma mentre il ritmo indolente delle pale del ventilatore la sfiora. Il fiume lasciato alle spalle. Così vuole la storia. Ignara del barista che continua a guardarla, da dietro la macchina del caffè, ipnotizzato da quella sigaretta, tra le dita di lei, che inesorabilmente si sta consumando, invece di trovare parole: parole come una rete.
Paloma se ne è andata ma sull'orlo del bicchiere, lasciato sul tavolo, l'impercettibile impronta delle sue labbra, nel portacenere il mozzicone della sigaretta che lei ha fumato, sulla sedia vuota la sua assenza. Lei davvero è stata lì.
“Mai sentito un caffè così cattivo, Giò, ma stai bene?”
“Mi dispiace avvocato, mi dispiace davvero, gliene faccio subito un altro, va tutto bene, gliene faccio subito un altro” mentre il suo cuore ripete come un mantra “torna indietro, ti prego, torna indietro” sapendo che mai più le cose potranno essere come prima.
E’ come se qualcuno la chiamasse, non sa dire con precisione Paloma, come il percepire l’eco di una voce che la sta cercando, ma nessuno sa di lei e lei non ha più nessuno, non può essere che una nostalgia, pensa sdraiata sul bordo delle grande vasca, splendida fontana neoclassica che ha trovato nel suo vagabondare senza direzione, con gli occhi affondati nel cielo, in attesa della sera.
(Brano tratto dal libro Paloma e l’angelo, LibertàEdizioni, Lucca, 2011.) Fabiana Taddeucci vive e lavora a Lucca. "Paloma e l'angelo" è il suo secondo "racconto lungo" edito con LibertàEdizioni.
|