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Sagarana FORBICI PER UNGHIE


Herta Müller


 

Ognuno aveva un amico in ogni pezzetto di nuvola
così è infatti con gli amici dove il mondo è pieno di terrore
anche mia madre diceva che è del tutto normale
non mettere in discussione gli amici
pensa a cose più serie.
 
Gellu Naum
 
“Scrivendo, non dimenticare la data
e metti sempre un capello nella lettera, disse Edgar.
Se dentro non c’è, vuol dire che la lettera è stata aperta.
Singoli capelli, pensai tra me, sui treni, attraverso il paese.
Un capello scuro di Edgar, uno chiaro, mio. Uno rosso di Kurt e Georg.
Entrambi venivano soprannominati dagli studenti ragazzi d’oro. Per l’interrogatorio
Una frase con forbici per unghie, disse Kurt, per la perquisizione una frase con scarpe,
per il pedinamento una frase con raffreddato.
Dopo il titolo sempre un punto esclamativo,
per una minaccia di morte solo una virgola”.
 
 
(…) AVEVO scritto ad Edgar: Sono raffreddata da una settimana e non trovo le mie forbici per unghie.
A Georg avevo scritto: Sono raffreddata da una settimana e le mie forbici per unghie non tagliano.
Forse non avrei dovuto scrivere raffreddata e forbici per unghie in un’unica frase, forse nella lettera avrei dovuto scrivere raffreddata e forbici per unghie separatamente. Forse avrei dovuto scrivere prima forbici per unghie e poi raffreddata. Ma raffreddata e forbici per unghie erano state un’unica battitura, più grande della mia testa, dopo che per un pomeriggio intero avevo formulato, soprappensiero, delle frasi con raffreddata e forbici per unghie, per trovare quella giusta. Raffreddata e forbici per unghie, mi avevano estromesso dal loro senso proprio e dal nostro senso comune. Non vi trovai nient’altro e le lasciai ferme in una frase che forse andava bene e sicuramente male. Cancellare in quest’unica frase raffreddata e forbici per unghie e inserire poi un altro paio di frasi sarebbe stato ancora peggio. Cancellare solo raffreddata e forbici per unghie sarebbe stato indice, ancor più stupido di una brutta frase.
Dovetti infilare due capelli nelle lettere. Davanti allo specchio i miei capelli erano lontani da me e vicini da afferrare, come il pelo di un animale che il cacciatore vede attraverso il cannocchiale.
Dovetti strappare due capelli, che non andassero persi, due capelli da lettera. Nel punto in cui crescevano, sopra la fronte, sulla tempia sinistra o sulla destra, o in mezzo alla testa.
Mi pettinai, rimasero capelli sul pettine. Ne misi uno nella lettera di Edgar e uno in quella di Georg. Qualora il pettine si fosse sbagliato, non ci sarebbero stati più capelli da lettera.
Alla posta leccai i francobolli. Accanto all’ingresso telefonava un uomo che mi pedinava ogni giorno. Portava una borsa di lino bianca e teneva un cane al guinzaglio. La borsa era leggera, benché fosse piena per metà. La portava, giacché non sapeva dove conducesse la mia strada.
Entrai nel negozio. Poco dopo s’infilò nella coda, dovette legare il cane. Tra me e lui c’erano quattro donne. Quando uscii dal negozio, riprese a pedinarmi col cane. La borsa di lino nella sua mano non era più piena di prima.
Telefonando, aveva tenuto in una mano il guinzaglio e il ricevitore. Nell’altra la borsa di lino. Parlò e guardò come la mia lingua leccasse i francobolli. Incollai i francobolli, benché gli angoli non fossero ancora umidi. Imbucai le lettere nella cassetta postale sotto i suoi occhi, come se là fossero protette dalle sue mani.
 
QUELL’UOMO non era il capitano Pjele. Il cane era forse Pjele. Ma il capitano Pjele non era l’unico ad avere un cane lupo.
Ero stata interrogata dal capitano Pjele senza il cane Pjele. Forse il cane Pjele aveva avuto una pausa per mangiare o dormire. Forse il cane Pjele veniva ammaestrato in una stanza di questo intricato edificio e imparava qualcosa di nuovo, o si allenava sul vecchio, mentre il capitano Pjele mi interrogava. Forse il cane Pjele era per strada con l’uomo e la borsa di lino, a pedinare qualcun altro. Magari con un altro uomo senza una borsa di lino. Forse il cane Pjele seguiva Kurt, mentre il capitano mi interrogava. Gli uomini erano tanti quanti i cani.
Tanti, quanti i peli su un cane.
 
SUL tavolo c’era un foglio. Il capitano Pjele disse: Leggi. Sul foglio c’era la poesia. Leggi ad alta voce, così ci divertiamo entrambi, disse il capitano Pjele. Io lessi ad alta voce:
 
Ognuno aveva un amico in ogni pezzetto di nuvola
così è infatti con gli amici dove il mondo è pieno di terrore
anche mia madre diceva è del tutto normale
non mettere in discussione gli amici
pensa a cose più serie
 
Il capitano Pjele chiese: Chi ha scritto questo. Dissi: Nessuno, è un canto popolare. Allora è patrimonio del popolo, disse il capitano Pjele, allora il popolo può continuare a comporre poesie. Sì, dissi. Allora componi, disse il capitano Pjele. Non so comporre, dissi. Ma io, disse il capitano Pjele. Io compongo e tu scrivi ciò che compongo, così ci divertiamo entrambi:
 
Avevo tre amici in ogni pezzetto di nuvola
così è infatti con le puttane dove il mondo è pieno di nuvole
anche mia madre diceva è del tutto normale
non mettere in discussione tre amici
pensa a cose più serie.
 
Dovetti cantare ciò che il capitano Pjele aveva composto.
Cantai, senza udire la mia voce. Dalla paura caddi nella paura più certa. Quella sapeva cantare, come l’acqua. Forse la melodia derivava dalla pazzia della mia nonna che canta. Forse conoscevo canzoni che la sua mente aveva dimenticato. Forse doveva scorrere sulle mie labbra quello che esisteva nella sua testa rotta.
 
IL BARBIERE del nonno è vecchio come il nonno. E’ vedovo già da tanti anni, benché la sua Anna fosse giovane quanto mia madre. A lungo non è riuscito a rassegnarsi alla morte della sua Anna.
Quando Anna era ancora in vita, mia madre diceva: Ha una bella parlantina. Quando il campo del nonno fu espropriato, Anna aveva detto alla nonna che canta: Ora possiedi ciò che guadagni.
Quando sul campo sportivo del paese sventolava la bandiera con la croce uncinata, la nonna che canta aveva denunciato il fidanzato di Anna al capogruppo del posto. Aveva detto: Il fidanzato di Anna non viene all’alzabandiera, perché è contro il Fuhrer.
Due giorni dopo venne un’auto dalla città, che portò via il fidanzato di Anna. Era sparito da allora.
Quando la guerra era passata da molto tempo, disse mia madre, il barbiere sposò questa giovane Anna. Il barbiere ringrazia ancora oggi la nonna, per aver ricevuto questa bellissima donna. Quando taglia i capelli al nonno, quando gioca a scacchi, dice: Le donne bellissime non invecchiano, muoiono prima di diventare brutte.
Ma non c’è alcun motivo per essere grati, disse la madre. La nonna non voleva fare nulla contro Anna e nulla per il barbiere. Aveva dichiarato questo, perché suo figlio era ancora in guerra e il fidanzato di Anna non veniva chiamato alle armi.
 
IL CAPITANO Pjele prese il foglio e disse: Hai composto bene, i tuoi amici si rallegreranno. Dissi: Questo l’hanno composto loro. No, no, disse il capitano Pjele, questa è proprio la tua scrittura.
Quando ebbi il permesso di andarmene, il capitano Pjele si lamentò dei suoi dolori ai reni e disse: Sei fortunata con me.
 
ALL’INTERROGATORIO successivo il capitano Pjele disse: Oggi cantiamo senza partitura. Cantai, nella paura assoluta irruppe di nuovo la melodia. Non la dimenticai mai più.
Il capitano Pjele chiese: Cosa fa una donna a letto con tre uomini. Tacqui. Deve trattarsi senz’altro di un’ammucchiata, come un matrimonio di cani, disse il capitano Pjele. Però non vi volete sposare, una cosa simile la possono fare solo le coppie, non i gruppi. Che padre ti prendi per tuo figlio.
Dissi: A parole non si rimane incinta. No, no, disse il capitano Pjele, un bambino d’oro lo si mette al mondo in fretta.
Prima che me ne potessi andare, il capitano Pjele disse: Voi siete una semente cattiva. Quanto a te, ti faremo affogare.
Una semente cattiva sembrava papà, pensai tra me, quando prendeva cardi da latte da sotto il tallone. Scrissi due lettere con una virgola dopo l’intestazione:
Caro Edgar,
Caro Georg,
Quando il capitano Pjele leggeva le lettere, la virgola doveva tacere, in modo che lui le chiudesse con la colla e le inviasse oltre. Ma quando Edgar e Georg aprivano le lettere, la virgola doveva urlare.
Una virgola, che tacesse e urlasse, non esisteva. La virgola dopo l’intestazione era diventata fin troppo grossa.




(Brano tratto dal libro Il paese delle prugne verdi, titolo originale Herztier – Traduzione dal tedesco Alessandra Henke – Keller editore, Trento, 2008 – Seconda edizione Keller Ottobre 2009.)




Herta Müller
Herta Muller, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2009, è nata nel 1953 in un villaggio di lingua tedesca nel Banato rumeno. Dopo aver rifiutato di cooperare con la Securitate, la polizia segreta del regime di Ceausescu, perse il lavoro e le fu impedito di pubblicare. Nel 1987 riuscì ad emigrare in Germania. Con Il paese delle prugne verdi, il suo romanzo più importante, si è aggiudicata l’Impac Dublin Literary Award al quale si sono aggiunti, successivamente, numerosi altri riconoscimenti tra cui il Premio Kleist, il più prestigioso premio letterario tedesco, il Premio Joseph Breitach, il Premio Franz Kafka, il Premio Konrad Adenauer, il Premio letterario europeo “Aristeion”.




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