IL VILLAGGIO GALLEGGIANTE Brano tratto dal romanzo La guerra di Boubacar Francesca Caminoli
Le voci su quel che sarebbe successo il giorno dopo giravano di branda in branda, di baracca in baracca.
“Dovremo marciare fino in Algeria”, disse uno di Bamako.
“Madre mia”, pianse il ragazzo di Konakry,” moriremo di sete nel deserto e ci divoreranno le iene”.
“No, no, ci portano con la nave in Francia”, disse uno di Ouagadougou.
“Allora moriremo tutti annegati”, pianse ancora il ragazzo di Konakry.
“Non morirà nessuno”, disse sicuro Samba il gigante. “Allah, i gris-gris e gli antenati ci proteggeranno”.
Quella notte quasi nessuno riuscì a dormire. Nelle baracche, tutti pregavano. Anche quelli che di solito non lo facevano molto.
Boubacar non sapeva se fosse meglio il deserto o il mare. Tutti e due gli facevano paura. Aveva il suo gris-gris e la benedizione del padre, ma sarebbero stati sufficienti per proteggerlo contro l’ignoto?
“Glorifico il nome del mio Signore l’Altissimo…”, recitò.
La mattina dopo li caricarono sui camion e li portarono al porto di Dakar. C’era tantissima gente al porto, sembrava che stesse aspettando proprio loro. C’erano uomini, donne, bambini, africani, francesi. C’era anche una nave grande. Sembrava che anch’essa stesse aspettando proprio loro.
I soldati furono fatti scendere dai camion. Il sergente ordinò di dirigersi verso la nave. Alcune madri camminavano a fianco dei soldati, cercavano con gli occhi i propri figli. Altre urlavano i loro nomi. Quando li vedevano, correvano ad abbracciarli. Gli ufficiali chiudevano un occhio, un ultimo saluto avrebbe fatto bene al morale delle truppe.
Boubacar e tutti i ragazzi che venivano da lontano sapevano che non ci sarebbe stato nessuno della loro famiglia a salutarli. Guardavano gli amici che si stringevano alle madri, alle sorelle, alle mogli e poi allontanavano lo sguardo, perché la tristezza non entrasse troppo dentro i loro cuori. Boubacar pensò che forse era meglio che non ci fosse nessuno lì per lui, vedere sua madre piangere lo avrebbe reso ancora più triste.
A un certo punto una donna, una donna anziana, si avvicinò al gruppo di Boubacar e, uno alla volta, abbracciò tutti.
“Che Dio ti benedica, figlio”, disse a ognuno di loro, stringendolo al suo grande seno e dandogli alcune noci di cola.
Gli addii non durarono a lungo. Il sergente ordinò l’adunata, i gruppi si ricomposero e i soldati, un po’ alla volta, salirono su per la scaletta che portava alla tolda della nave. La nave si chiamava Pasteur.
I francesi cominciarono a sventolare bandierine con il tricolore e a gridare “Vive la France”.
“Vive la France”, urlò anche qualche africano. “Viva i tirailleurs senegalesi”, urlò qualcuno. “Viva i tirailleurs senegalesi”, gridava un secondo dopo tutto il porto.
Boubacar e i suoi compagni salirono sulla Pasteur. La nave salpò. Videro la loro terra allontanarsi.
Quando erano già al largo, così al largo che la terra non si vedeva più, sotto un cielo pieno di stelle, in un silenzio rotto solo dallo sciabordio della nave nell’acqua, Boubacar e i suoi compagni ebbero la sensazione di sentire un tam tam che arrivava da lontano. La terra madre, la madre terra, non li abbandonava. Presero i tamburi e gli altri strumenti musicali che avevano portato con sé e cominciarono a suonare. Si alzò la luna. Quando la luna si alza, tutta l’Africa balla. Iniziarono le danze.
La Pasteur non sembrava più una nave francese che portava soldati alla guerra, era un villaggio africano galleggiante. Suonavano e ballavano i senegalesi e i maliani, quelli della Guinea e quelli della Costa d’Avorio. Suonavano e ballavano e invocavano Coumba Lamba, Coumba Castel, Lueg Dor, le dee del mare, le pregavano affinché il mare non li inghiottisse. Suonavano e ballavano e invocavano Gilax, il grande pesce nero che salva i naufraghi e li porta fino a riva sulla sua schiena.
Il mare non li inghiottì e Gilax non ebbe da lavorare. Quel mare sconosciuto e nero, che all’inizio aveva fatto loro tanta paura, fu il testimone silenzioso della nascita di una nuova identità: erano tutti africani, tutti avevano dèi, riti, musiche, danze.
Mentre il suono delle kore e dei balafon, dei djembé, dei djabara e dei kirin si alzava dalla tolda della nave verso un cielo nero, dove le stelle formavano geometrie perfette, Boubacar e i suoi compagni non erano più soldati coloniali francesi, erano diambar che nulla e nessuno poteva spaventare, erano guerrieri africani che stavano abbandonando nella scia della nave le loro differenze e diffidenze etniche. Stavano diventando fratelli.
Era l’ottobre del 1943. (Brano tratto dal romanzo La guerra di Boubacar, Circolo Il Grandevetro/ Jaca Book, Milano, ottobre 2011. Francesca Caminoli (1948) è giornalista professionista, ha lavorato a Milano in quotidiani e periodici fino al 1982, vive a Lucca. Ha pubblicato con Il Grandevetro/Jaca Book nel 1999 Il giorno di Bajram, nel 2003 La neve di Ahmed, ripubblicato nel 2006 in edizione scolastica da Paravia Bruno Mondadori e da cui sono stati tratti diversi spettacoli teatrali, scolastici e non, e nel 2010 Viaggio in requiem.
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