Torna alla homepage

Sagarana LA GRANDE FOTO


Brano tratto dal romanzo Problemski Hotel


Dimitri Verhulst


LA GRANDE FOTO



 

Hargeisa, 1984
 
«Fai finta che io non ci sia!», dissi al bambino che stava morendo di fame e che cercavo di fotografare.
 
Ero nervoso, peccato che non avessi dietro una pasticca per fermare il tremito alle mani. In un certo senso me lo sentivo che questa sarebbe stata la mia foto. La foto. Quella che mi avrebbe aperto la strada del successo, che avreb­be fatto lievitare il mio valore di mercato, che mi avrebbe permesso di dire al gran capo della Reuters di richiamare in un altro momento. Un fotografo certe cose se le sente. Il ce­leberrimo Henri Cartier-Bresson se l'era sentito mentre im­mortalava un ragazzino con due bottiglie di vino nella me Mouffetard a Parigi; Elliot Erwitt se l'era sentito quando quel negro aveva tirato fuori la lingua davanti all'obiettivo; Alfred Stieglitz se l'era sentito quando quella bella ragazza con le dita ancora più belle si era abbottonata la giacca al momento giusto; e Edward Steichen aveva fatto cento scat­ti di Greta Garbo, ma durante la messa a fuoco se l'era sen­tito: sarà questo l'unico, vero, perfetto, insuperabile ritrat­to della dea. La stessa cosa che avevo provato io con quel bambino affamato nel mirino. Una sensazione bellissima.
 
In quelle serate inutili, passate solo a dire boiate, a vol­te c'è chi sostiene che la fotografia è in gran parte, se non del tutto, una questione di fortuna. E poi fa l'esempio dell'autore di una foto che tutti conoscono: la ragazzina nuda, ustionata, che corre con le braccia aperte. Gesù Cristo con la figa. Se il fotografo non si fosse trovato per caso nel luo­go del bombardamento al napalm, questa è la tesi, non sa­rebbe mai stato in grado di scattare quella foto: per cui è una questione di fortuna. Mah. Non vorrete mica obiettare che ho avuto la fortuna di trovarmi davanti agli occhi un bambino che stava per crepare? Non è stata fortuna. È sta­to talento! Così come Robert Capa ha avuto il talento, il fiuto, di trovarsi con la macchina fotografica nel luogo in cui un colpo di pistola aveva fatto saltare le cervella di un soldato. La fortuna, dicono gli alpinisti che si sono visti precipitare una frana assassina a tre centimetri dal naso, la fortuna a lungo andare è una questione di abilità. E io so che hanno ragione.
 
Quel bambino moribondo che volevo fotografare, se devo essere sincero, ha rappresentato una svolta dramma­tica e artistica nella mia vita. Mi ha convertito alla fotogra­fia a colori.
Da studente sono cresciuto nella tradizione del bianco e nero. Un rullino a colori si comprava quasi esclusivamente per le foto delle vacanze e i servizi ai matrimoni. Per quanto, a volte, a una cerimonia nuziale si osava anche date un tocco artistico, ricorrendo qua e là all'effetto seppia – perlopiù con risultati comici. In vita mia non mi è mai ca­pitato di vedere una foto di matrimonio che meriti di restare incorniciata anche dopo un divorzio. Chiusa paren­tesi. Il fatto è che a me i colori sono sempre sembrati ba­nali. Ero un fautore della composizione, uno capace di individuarla nelle cose che ci circondano, più che un colorista. La luce, per me era questo l'importante. La Bibbia non dice: «e il colore fu», dice: «e la luce fu». Il colore esiste grazie alla luce, quindi è inferiore. Per il resto, devo am­metterlo, la Bibbia non l'ho letta, ma credo di averne estratto la cosa più interessante. Comunque sia, della mia generazione non ricordo nessuno che abbia fatto una tesi con le foto a colori. Ma li, in quel posto orrendo, ho volu­to per forza mettere nella mia Canon un rullino a colori.
Nella borsa non ne avevo quasi mai uno, e invece quel giorno sì. Un rullino solo. Ventiquattro scatti. Ventiquattro possibilità di rendere famoso in tutto il mondo quel bam­bino scheletrico. Ventiquattro vie per arrivare alla prima pagina di tutti (o quasi) i giornali distribuiti sugli aerei. Già mi vedevo lo striscione sulle facciate dei più grandi musei della fotografia di questo mondo fotogenico: «Retrospetti­va di Bipul Masli».
 
Il bambino era inserito in una scenografia splendida: una discarica di rifiuti che aveva raggiunto a stento, con le sue ultime forze, ma dove non c'era più niente di comme­stibile da raccogliere. E adesso era lì che si succhiava il di­to, inerme, con lo sguardo perso nel vuoto. Se in quel mo­mento gli avessi eliminato il riflesso dagli occhi con un fil­tro di polarizzazione, in fondo si sarebbe già intravista la morte. Sulla pancia (era un maschietto) aveva un grumo rappreso di vomito, che con il caldo puzzava terribilmen­te. Non gli avrei dato più di tre, quattro ore al massimo. Da un punto di vista fotografico, la luce e la posizione del sole sarebbero state più interessanti se fosse rimasto in vi­ta per altre cinque ore, ma non potevo correre un rischio del genere. Volevo ritrarlo mentre moriva. Non da morto, che sono capaci tutti.
 
Lavorare con gli animali e i bambini è la cosa più diffi­cile, basta chiederlo a tutti i grandi registi di Hollywood. Per cui gli dissi: «Fai finta che io non ci sia!», «Cerca so­prattutto di essere spontaneo!», che a mio parere erano frasi inequivocabili. Questo bambino era già stato preso
d'assalto da una marea di fotografi; negli ultimi tempi ave-va visto più lenti frontali che ciotole di riso e gli avevano fatto guardare l'uccellino così spesso che Marilyn Monroe avrebbe preso volentieri il suo posto. Era già subentrata una certa assuefazione all'obiettivo, se non stavi attento cominciava a mettersi in posa, o a sorridere, chissà, l'uomo è imprevedibile. Si nota pure in quelle cretinette tutte truc­cate che hanno fatto due o tre apparizioni in tivù: gli rimane un riflesso condizionato e sorridono pure alle telecame­re a circuito chiuso del supermercato. Ma credetemi, non esagero se dico che questo bambino era già stato fotogra­fato almeno cento volte, specie da freelance che appena fi­nito saltavano sul primo aereo per riprendere la solita rou­tine: servizi per matrimoni, celebrazioni di centennali, in­cidenti stradali... Ovviamente pure loro hanno le rate del mutuo da pagare e i figli da sfamare, è più che comprensi­bile. Per altro ci si potrebbe lastricare l'equatore con tutti i fotografi che esistono, la concorrenza è enorme. Ma il mio modo di lavorare era esattamente l'opposto: per quel ritratto volevo prendermi tutto il tempo necessario.
Sarà stato un sollievo, per quel bambino, rendersi conto che questa sarebbe stata la sua ultima seduta fotografica.
 
Di ritratti ne avevo già fatti una caterva, in genere me li chiedevano le riviste, e all'inizio della carriera mi erano ser­viti a pagare l'affitto. Un lavoro del cazzo, ve l'assicuro. Se dovevi fotografare uno stilista di moda, quello pretendeva di sapere meglio di te quale posa adottare (lo sguardo severo, la bocca imbronciata con una barba da profeta bibli­co, la testa calva poggiata sulle mani, così da mostrare i vi­stosi anelli su tutte e dieci le dita); le stelline del pop biso­gnava implorarle ogni volta di non spogliarsi, e poi c'erano gli scrittori. Gli scrittori per me erano i peggiori di tutti. Vanno ad abitare in case così buie, che per riuscire ad avere un filo di luce al posto giusto bisogna prima sgomberare i mobili; e comunque non ce la fai senza usare il flash. Si mettono controvoglia sotto le lampade e poi se ne stanno lì, rigidi e con l'aria da intellettuali come fossero la perso­nificazione di un emisfero cerebrale. L'autoscatto l'hanno inventato appositamente per gli scrittori.
Con i ritratti avevo un sacco di esperienza, non c'era dubbio, non è per questo che mi sentivo nervoso. A preoc­cuparmi era la consapevolezza di avere solo ventiquattro possibilità per scattare quell'unica foto, mentre di solito riempivo quindici rullini per il profilo di un muso idiota. Oggi con la fotografia digitale sarebbe diverso, ma a quei tempi, nel 1984 (l'epoca che a volte si rimpiange nelle odierne camere oscure), eravamo molto più stressati.
Fumai una sigaretta, ma non mi servì a ritrovare la calma. Continuavo a tremare.
L'unica soluzione era il treppiedi.
Scongiurai il bambino di sopravvivere un'altra mezz'o­ra. Please. Sarebbe stato difficile farglielo capire, ma gli conveniva collaborare. Insomma: salvarlo mi era impossi­bile, sarebbe ingenuo pensare una cosa del genere. Ma for­se in Occidente questa foto l'avrebbero messa sul calenda­rio di una qualche organizzazione non governativa per la pace. E così sarebbero entrati un po' di soldi, con cui for­se si potevano salvare altri bambini. II suo ritratto avrebbe contribuito a sensibilizzare la coscienza mondiale rispetto all'intera problematica ecc. ecc. E poi, ammettiamolo, tut­ti dobbiamo morire. Se non di fame, che so, di salmonella per aver mangiato un pollo arrosto. Il suo viso sarebbe po­tuto diventare un'icona, e io, Bipul Masli, sarei stato il fab­bricante della memoria collettiva. Forse gli avrebbero an­che dedicato un francobollo.
Mica penserà che quando muoio ci mettano me su un calendario?
 
Nel mio obiettivo era tutto perfetto. Orizzonte sfumato,
luce frontale indiretta, la sabbia giallastra che addolciva le ombre... Very, very nice. Il bambino aveva assunto una sensuale forma a s, si vedevano bene le due gambe secche come stuzzicadenti, la testa gigantesca, l'ombelico all'in­fuori... L'indice scalpitava, pronto a scattare, eppure mancava qualcosa.
 
Le mosche!
 
Nel mondo ci sono circa 12.000 specie di mosche (Muscidae), che non sto qui a elencare, e di cui almeno la metà si garantisce la sopravvivenza piluccando cacca di cam­mello e bambini africani affamati. Ma nemmeno una spe­cie era rappresentata sulla faccia di questo bambino disi­dratato. Strano, da queste parti erano sempre tutti coperti di mosche, e anch'io le avevo stramaledette nella mia stan­za d'albergo. Quelle si mettono tutte insieme a bere da un occhio come zebre da un ruscello. Ma su questo bambino non c'era una sola mosca e a me sembrava di fare torto alla realtà non inserendone nemmeno una. D'altro canto, è assolutamente contrario ai miei principi manipolare le fo­tografie. E se ne manipolano di foto. Conosco gente che con le sue scenette preconfezionate ha avuto un posto nella famosa galleria del World Press e ci guadagna una barca di soldi. Che dovevo fare? Potevo chiamare l'albergo e chiedere se volevano essere così gentili da catturarmi di corsa una mosca in modo che potessi piazzarla sulla faccia del bambino, tanto per dare un'immagine più rappresen­tativa?
Ci ho pensato, è vero. Per un attimo ci ho pensato. Ma prima che la mosca finisse in un barattolo di marmellata e arrivasse qui, il mio modello poteva già essere morto.
 
Clic. (x 24).
Quella stessa sera, nella camera oscura improvvisata di Addis Abeba, tirai fuori la foto dal bagno di sviluppo e lo capii subito: era quasi perfetta. Quasi, perché la perfezio­ne sarebbe stata quella mosca.
 






Brano tratto dal romanzo Problemski Hotel, Fazi editore, Roma, 2006.




Dimitri Verhulst
Dimitri Verhulst (Aalst, 2 ottobre 1972): Giornalista, poeta e autore di racconti, tra i pił apprezzati giovani autori belgi.




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri