LA BALLATA DEL RE DI DENARI Yuri Herrera
Non volevano le sue canzoni. I conduttori radiofonici dicevano di no, che i suoi testi erano indecenti, che i suoi eroi erano i cattivi. Oppure dicevano sì, ma poi no: i versi gli piacevano, però avevano ricevuto l’ordine di evitare certi temi. Non era per la voce ruvida dell’Artista, in fin dei conti lui aveva registrato soltanto un piccolo brano; altri cantanti, più intonati, avrebbero fatto risuonare le sue parole. Uno dei conduttori aveva detto al Giornalista, in tutta confidenza, che in quei giorni il caporione, il Supremo Gé, aveva dato un giro di vite: questione di facciata per i gringos, e silenziamento temporaneo mentre gli inserzionisti venivano acquietati. Ma non poteva, mandavano a dire all’Artista, scrivere canzoni meno rudi, più carine?
«Non guardi male me» disse il Giornalista, «io le sto solo raccontando i fatti, e ora la porto dal Signore per vedere come la risolviamo … Tra poco si libera da un impegno.»
E così non mi vogliono, pensò l’Artista, dunque è poca cosa per quelli con i soldi, hanno le orecchie troppo delicate. Sarà stata la centesima volta che lo offendevano, ma in questo caso non si sentiva umiliato, si sentiva provocato, punto nell’orgoglio. Strinse i denti e si rese improvvisamente conto che riusciva a pensare con inusuale chiarezza. Il rifiuto degli altri lo rafforzava. Che andassero affanculo, se avesse cantato per loro allora sì che ne avrebbe sofferto, ma all’Artista, in fin dei conti, ciò che voleva era guardare negli occhi chi lo ascoltava, scatenare scheletri in pista, cantare per la gente vera.
I suoi passi e quelli del Giornalista risuonavano sul marmo con un’eco energica. L’Artista brontolava mezza bocca, tra sé, e mano a mano che il marmo scorreva sotto i suoi piedi, lui si incazzava sempre di più, e si sentiva più sicuro, come se alla fine del corridoio ci fosse ad aspettarlo la soluzione di tutto. Nella Galleria.
«Siamo arrivati» disse il Giornalista.
Il popolo faceva la coda per entrare dal portone, scialli e pantaloni di tela, i bambini in braccio, facce assenti ma lievemente pervase di fede. La Galleria era invasa da un fermento docile, un misto di aspettativa e devozione, e c’era odore di terra e sale, e una sorta di calore rappreso.
«Dov’era finito?» chiese il Gioielliere, non appena lo vide entrare, «non lo sa che giorno è oggi?»
L’Artista non lo sapeva, e se ne vergognò, perché in qualche modo intuì che fosse suo dovere saperlo, e perché appena entrato avvertì la tensione nell’aria e gli venne la pelle d’oca sentendo che non era da solo con la sua rabbia, che la sua rabbia aveva preso corpo.
«L’udienza si tiene una volta al mese» proseguì il Gioielliere, «e qui bisogna prendere quel che capita. Alcuni vogliono soltanto un aiuto, o una spintarella, o che si ripari a un torto, ma ad altri gli cambia la vita grazie a certe piccole cose: che il Signore faccia da padrino a un neonato, che dia una mano per la figlia che festeggia i quindici anni. A tutti concede qualcosa. Che avrebbe fatto se qualcuno avesse chiesto una canzone?»
L’Artista annuì, sentendosi in colpa e anche emozionato per quella scena. La gente più lontana si confondeva in una macchia grigia, ma distingueva chiaramente quelli che stavano per arrivare alla fine della fila, che si davano una sistemata, tiravano indietro i capelli, tacevano, si allacciavano un bottone. Sul fondo, attorniato dalla Corte, il Re guardava ciascuno di loro negli occhi, ascoltava la supplica, faceva un cenno al Gerente e il Gerente prendeva nota. Ad alcuni il Re accarezzava la testa o dava consigli in tono grave. Poi quelli volevano baciargli la mano o abbracciavano le sue ginocchia, e il Re lasciava che lo adorassero per un istante e poi li scostava con paterna severità.
Anche il Gioielliere mostrava un profondo trasporto; lui, così sofisticato, sembrava contagiato dal fervore degli umili; magari fuori di lì non li avrebbe neanche degnati di uno sguardo, mentre ora non si perdeva un dettaglio su come restassero trasfigurati dall’operato del Signore.
«Noi serviamo a questo» disse il Gioielliere, «a dargli potere. Presi da soli, cosa varrebbe mai ciascuno di noi? Niente. Ma qui siamo forti, con lui, con il suo sangue … E che nessuno si illuda di poter togliere nulla al Signore!»
Il Gioielliere pronunciò l’ultima frase quasi urlando, la gente intorno si bloccò per qualche secondo, finché il Giornalista gli batté la mano sulla spalla:
«Piano, Maestro, andiamoci piano.»
L’Artista provò a distrarre il Gioielliere e gli chiese:
«E a volte fa qualcosa di speciale per la gente?»
«Tutti i miei pezzi sono speciali» rispose il Gioielliere, «e tutti i pezzi speciali che ci sono qui li ho realizzati io.»
Per un istante, all’Artista parve che il Giornalista e il Gioielliere si scambiassero un’occhiata sorpresa, o che il Giornalista fosse contrariato per qualche motivo, ma fu un attimo, perché l’udienza finì in quel momento.
Il Re si alzò e camminò verso il corridoio con gli sguardi supplicanti che scorrevano ai suoi piedi; dietro di lui, il Gerente ripeteva a quanti erano rimasti in coda: Il mese prossimo, il mese prossimo.
«Venga» disse il Giornalista.
Si affrettarono a seguirlo e il Giornalista raggiunse il Re.
«Signore, a quanto pare abbiamo un problema con l’Artista …»
Il Re si fermò e alzò un sopracciglio.
«Ecco, non con l’Artista, lui di problemi non ce ne dà» sorrise il Giornalista, «sono piuttosto quelli delle radio che hanno un problema con lui. Non vogliono trasmettere le sue canzoni.»
«E con ciò?» ribatté il Re, come se dicesse Sai che novità.
«La solita storia: dicono che non si può parlare bene di lei alla gente.»
Il Re guardò verso la Galleria, dove il popolo si apprestava a tornare a casa dopo aver ottenuto qualche favore.
«Come se avessimo bisogno di quei coglioni perché la gente parli di me» disse. «Non preoccupatevi, il Gerente sistemerà la faccenda con certi amici per fare in modo che promuovano la sua musica nelle strade … In fin dei conti è così che facciamo i nostri affari, no?»
Il Re appariva affaticato, ma anche pieno di un’energia contagiosa. Sorrise e il suo sorriso era come un abbraccio protettivo che all’Artista diceva: Perché mai dovresti allietare le orecchie di quei cabrones? A noi basta e avanza sapere chi siamo. Che abbassino la cresta, e stupiscili, quei sepolcri imbiancati, prenditi la soddisfazione di umiliarli. Altrimenti, che artista saresti?
Sono morti. Sono tutti morti. Gli altri. Tossiscono e sputano e sudano la propria morte putrida soddisfatti per l’inganno, come se cagassero diamanti. Sorridono i denti scarnificati da cadaveri; e come cadaveri, ritengono che niente di male potrà succedergli.
Sì, come no.
Hanno un incubo, gli altri: quelli di qui, i buoni, sono l’incubo; la peste che c’è qui, il rumore che proviene da qui, la figura che si vede qui. Ma qui è tutto più vero, qui c’è la carne viva, l’urlo stentoreo, e quelli sono a malapena una misera pellaccia piagnucolosa che ha perso il colore. Un rimasuglio di materia inerte e appesa con gli spilli.
Ai morti non si chiede permesso. O almeno, non ai morti fottuti. Si fa quel che va fatto. Si trova la maniera giusta e si procede senza indugi, fregandosene di tutto il resto. O magari sì: per sentire la loro paura, perché il timore degli altri ci nutre e bene, ribadisce che la carne dei buoni è ardita e necessaria, ha consistenza e scuote le cose intorno.
Bisognerebbe afferrarli per la collottola e sfregargli il grugno contro questa porca e dura verità puzzolente e vera, per fargli venire la tentazione. Bisognerebbe metterli a sedere sugli aculei di questo sole spietato, soffocarli nel clamore di queste nottate, infilargli il nostro fastidioso canto sotto le unghie, strappargli la pelle di dosso. Bisognerebbe conciarli come il cuoio, a bastonate.
Che soddisfazione, che li disturbi sentir menzionare questo brutto sogno che prende vita nelle parole. Li disturba che Uno si assuma la carne di tutti, che Quello conservi la forza di tutti. Li disturba chi è e come è e come lo dice. Si azzardano a capirlo soltanto quando si lasciano andare e affrontano la realtà di ciò che veramente sono, facendo baldoria, ballando, persi e stonati, che sono buoni solo a far questo. Vorrebbero sentirsi cantare solo le cose carine, come no, ma quelle di qui non sono canzoncine della buonanotte, il corrido non è un quadretto da appendere alla parete. È una verità ed è un’arma.
Mi fa piacere che tutto questo li disturbi.
Forse, in fin dei conti, sanno già di essere carne per i vermi. (Brano tratto dal libro La ballata del re di denari.Traduzione dallo spagnolo di Pino Cacucci - Editrice La Nuova Frontiera, Roma, 2011.) Yuri Herrera č nato ad Actopan, in Messico, nel 1970. Ha studiato Scienze Politiche in Messico e Letteratura negli Stati Uniti. Con il suo primo romanzo La ballata del re di denari ha vinto, nel 2003, il Premio Binacional de Novela "Border of words", e nel 2009 in Spagna il premio "Otras voces, otros ambitos", confermandosi come uno degli scrittori messicani pių promettenti. Di prossima pubblicazione in Italia il suo secondo romanzo Segnali che precederanno la fine del mondo.
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