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Sagarana UN INCONTRO CASUALE


Marie-Hélène Laforest


UN INCONTRO CASUALE



 

Dunque, ragazzo mio, iniziò tutto molto tempo fa… prima che sulla metropolitana mettessero i cartelli “Vietato ascoltare la radio” e prima che le ragazze di Chinatown si tingessero i capelli di rosso. I primi arrivarono, siamo cittadini delle Indie occidentali, pensavano, non semplicemente dei neri. Invece i documenti ti chiedevano: caucasico o nero e tu dovevi fare una croce nel quadratino. Non c’erano vie di mezzo. A volte dicevano di venire dal Brasile, altre dalla Giamaica, mai dal paese più povero delle Americhe.
Quando chiedevi come si chiamavano, rispondevano Ted, Mike, Tony. Tu hai mai sentito questi nomi dalle nostre parti? Dicevano di lavorare in banca anche se nessun nero lavorava in banca. Quando faceva freddo si infilavano i giornali sotto la camicia e continuavano a scrivere ai parenti che andava tutto bene. Quelli furono i primi ad arrivare qui. E nessuno di loro era sposato. Dicevano “Cheri, cheri” alle donne americane, ma le parole dolci dell’amore se le tenevano dentro. Vedi, quella gente aveva vissuto l’occupazione americana. Sapevano cosa avevano fatto i marines in un paese che non era neanche il loro: sapevano di duemila persone mandate ai lavori forzati. Alcuni sapevano che gli americani avevano anche imbastito i loro soliti intrighi politici, come fanno sempre. C’è un gruppo al potere, loro lo rimpiazzano con un altro, così quando se ne vanno scoppia la guerra civile e la gente dice, «Andava meglio quando c’erano gli americani.»
Quando quei primi emigrati arrivarono a New York, si fecero piccoli piccoli, avevano paura. Sapevano di trovarsi nella patria dei marines. A quell’epoca non si parlava tanto del fatto che la terra prima era degli indiani e poi di tutti gli altri, mi segui, vero? Proprio così, quegli uomini avevano paura, così restarono a Harlem. Portavano i cappelli come i neri americani, ma non erano come loro, a parte il colore della pelle; andarono a vivere dove stavano i portoricani, per lo meno la musica era bella, e a volte mangiavano banane e avocadi. Il rum non si trovava facilmente, non ti credere, non c’erano soldi per un sacco di cose. Crediche allora si poteva fare il tassista come oggi? Nossignore. Potevi solo fare l’usciere, il guardiano notturno se eri fortunato. Potevi fare unfischio a un taxi e aprire la portiera al cliente di un albergo. Pareva che l’unica cosa che sapevamo fare noi era aprire le porte degli alberghi, delle automobili, dei palazzi di Riverside Drive.
Quei primi emigrati si conoscevano tutti perché erano pochi, e cercavano di sopravvivere tra Broadway e Amsterdam, senza un soldo in tasca. A quell’epoca gli uomini stavano seduti a chiacchierare di cucina come le donne, parlavano di granchi cotti con le melanzane. Mi segui, vero? Seduti, facevano la lista delle canzoni che ancora ricordavano, Pendou, la Siren, Mikael. A New York la vita era dura e ad Haiti non c’era lavoro. Quelli non facevano le cose che vedi fare oggi, spedire fiori ai parenti che muoiono di fame. «Dillo con un fiore», questo è l’American style. Loro si ricordavano come si viveva laggiù. Sapevano che le donne sarebbero andate dal fiorista o avrebbero implorato i passanti per avere qualche spicciolo in cambio dei fiori.
Quando sono arrivato io, il presidente stava spendendo tutto il denaro pubblico per celebrare i 150 anni dell’indipendenza. Due anni più tardi, nel 1956, lo mandarono in esilio e, naturalmente, anche lui venne qui. Andammo a vedere dove abitava, Jamaica, Queens. Fu allora che capimmo che anche i neri potevano avere belle case e Cadillac. Ma i soldi non bastavano per scegliere dove abitare. Le loro case erano grandi grandi, ma vivevano in un ghetto come noi.
A quell’epoca, Lou St. Juste, che la sua anima riposi in pace, aveva appena aperto il suosalone di bellezza, con in vetrina grandi barattoli di vetro pieni di crema per stirare i capelli, stile Nat King Cole, hai presente, proprio all’angolo tra Amsterdam e 100th Street. Nessuno di noi voleva fare la prova, ma alla fine convinse Paul Cinéas. Ed è proprio come dicono, quando è uscito dal salone, gli abbiamo detto tutti, «Ora sembri più nero».
Ma ogni sera andavamo al locale di Lou St Juste per avere notizie di chi stava a New York e dichi era rimasto a Port-au-Prince. Ci venivano anche le donne. In genere le donne di mattina e noi di sera. Era l’unico posto dove la gente ti dava retta, dove sapevano chi eri.
Non voglio mica spacciarmi per un laureato, ma ho studiato, sissignore. L’istruzione che ho ricevuto è come tutte le loro università messe insieme: Saint-Louis de Gonzague, la scuola dei Frati. A quell’epoca si facevano molti sacrifici. A casa eravamo in tre, tre adulti che andavano a scuola, mangiavano pesce salato e polenta. Arrivavi a scuola e i Frati ti dicevano che non avevi ancora pagato la retta, quindi non potevi seguire le lezioni. Qualche parente che quel mese aveva dei soldi in più te li dava e quando tornavi a scuola tutti sapevano perché eri stato assente per una settimana. Allora ti guardavi intorno con aria strafottente come certi ragazzi di buona famiglia, e invece ti si chiudeva lo stomaco e sapevi che, di lì a poco, avresti pianto di vergogna. Pensi che avrei potuto lavorare in un ufficio, occuparmi della contabilità o roba del genere? Al massimo la stanza della posta, quella sì che ti era consentita. Ti mettevi un grembiule, ti sedevi a un tavolo lungo e stretto per dividere la posta, poi ti infilavi un cestino sotto il braccio sinistro e partivi spalancando le porte a vento. Gli uomini in abito grigio seduti alle scrivanie ti ringraziavano, scambiavano qualche battuta, ma di neri neanche l’ombra.
Sai cosa penso? Penso che ci vogliono far restare in basso. Hai visto tutte quelle agenzie che hanno aperto a Port-au-Prince, per l’assistenza sociale, i sussidi, i generi alimentari e i farmaci. Ma lo sai cosa dicono alle persone che mandano a lavorare lì? Che questo è un paese di neri, di neri scansafatiche, neri selvaggi e primitivi, ecco cosa gli dicono, sul serio. Così gli americani che arrivano lì, sistemano un po’ di scartoffie, scuotono la testa e se ne vanno a fare spese a Guantanamo. Capisci? Se sai già che il tuo lavoro è inutile, non stai a perdere tempo. È questo che gli dicono. Sono pagati per sistemare scartoffie, nient’altro che cartaccia.  Stanno lì a sprecare i soldi di chi paga le tasse.
Ci sono tante di quelle cose che non sapete voi giovani. Siete convinti che se fai i soldi puoi andare dove ti pare. Non è così. Guarda me. Quanti anni mi dai? Cinquanta, sessanta? Be’, ho sessantanove anni. Tra due mesi, il 17 ottobre, l’anniversario della morte di Dessalines, ne avrò settanta. Se avessi dato retta a quelli li e lavorato, lavorato, lavorato e basta come loro, sarei già morto. Ho seppellito tre dei miei migliori amici. Io non sono mai tornato. Che cosa avevo da mostrare dopo tutti quegli anni passati lontano da casa? Niente. Non posso tornare laggiù e comprarmi una casa, capisci? Sono qui da troppo tempo. «Povero per povero, Raymond Charles poteva benissimo restarsene qui.» Ecco cosa direbbero se tornassi a casa.
La saggezza viene con l’età. Quando sei giovane pensi: se faccio questo, se faccio quello, come quel bianco che ha cominciato con te nella stanza della posta… eh… adesso so che è solo una presa in giro. Se non sai che ti prendono in giro, finisci male. Tu pensi che qui puoi diventare ricco? Per fare soldi qui devi entrare in una banda. Se non hai un tuo giro, cosa puoi fare? Lavorare nei cantieri? Non fa per te, amico. Lavorare nell’abbigliamento? Neanche questo fa per te. Guarda, un tempo per le botteghe di frutta e verdura a New York non funzionava così… e vedi oggi... Sissignore. E’ tutto una mafia.
Ehi, te ne vai già? Dai, aspetta, non andartene. Dammi ancora un minuto. Hai tutta la vita davanti, non c’è fretta. Devi sapere, la gente deve sapere queste cose, voi giovani dovete sapere. Se oggi tanti vivono a New York è perché quei primi emigrati sono rimasti qui. Hanno stretto i denti e sono rimasti.
Avanti, ascolta ancora questa storiella.
C’era una volta un re. Aveva una figlia bellissima. Un giorno chiamò tutti i sudditi e disse, «Darò mia figlia, la principessa, in sposa a chi cattura il ladro che mi ruba le noci di cocco». Tutti gli uomini si misero a sorvegliare giorno e notte il giardino del re, ma a un certo punto si addormentarono. Compé Jean, che voleva davvero sposare la figlia del re e diventare come il re, vendette il cavallo per comprare tutta la paglia che gli serviva per tappare i buchi di casa sua, così la luce del sole non l’avrebbe svegliato. Compé Jean dormì per due giorni e due notti. Al risveglio, disse, «Sono pronto a prendere il ladro». Comprò del sego, lo spalmò sui tronchi di tutte le palme da cocco, eccetto quelle che aveva sott’occhio. Si mise seduto e attese il ladro. Quando portò il ladro al re, il re disse, «Hai catturato il ladro che mi rubava le noci di cocco, ma se vuoi davvero sposare mia figlia e diventare membro della mia famiglia devi portarmi un cesto con tutta la frutta che cresce nel mio regno».
Compé Jean partì con il cesto. Ma quando le carambole erano mature, le ciliegie erano ancora verdi. Allora Compé andò da un oungan per fare ammalare tutti gli alberi che non facevano frutti nei mesi caldi. Quando, alla fine, portò il cesto al re, il re disse, «Se vuoi davvero sposare mia figlia e far parte della mia famiglia devi portarmi l’uccello più bello del regno».
A quel punto Compé Jean aveva venduto la casa per pagare lo oungan, non gli restava più nulla a parte gli stracci che aveva addosso, allora protestò. Il re disse, «Adesso sei troppo povero per sposare mia figlia. Dunque, vieni a lavorare nelle mie terre, quando sarai abbastanza ricco per comprare a mia figlia abiti e gioielli, potrai sposarla».
Questa è l’unica favola che mi ricordo. Tutte le altre le ho dimenticate. Raccontala ai tuoi amici. Digli che ti sei seduto su una panchina nel parco e un tipo ti ha parlato della sua vita e poi ti ha raccontato la favola di un re e di Compé Jean. Chiediglielo, chiedi a tutti quelli che incontri come pensano che va a finire.






Traduzione di Marta Matteini.




Marie-Hélène Laforest
Marie-Hélène Laforest è scrittrice e professore di letteratura postcoloniale anglofona presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nata a Haiti, ha studiato e vissuto negli Stati Uniti prima di trasferirsi in Italia. Ha vinto una James Michener Fellowship ed è stata semi-finalista della John Simmons Short Fiction Award. I suoi racconti sono apparsi su numerose riviste statunitensi fra le quali Gulf Coast, Maryland Review e Paris Transcontinental. Una raccolta dei suoi racconti, Foreign Shores, è uscita presso la CIDIHCA (Montreal, Canada) nel 2002. E’ stata invitata a leggere i suoi racconti in università e istituzioni europee e americane fra le quali la Haus der Kulturen der Welt di Berlino, l’università del Maryland, l’Università del Massachussetts e l’Università di Erfurt nel 2009




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