LA LETTERA DI RONALDINHO Mia Couto
Il problema non è il fatto che si tratti di una bugia,
ma che sì tratti di una bugia squalificata (Proverbio della Munhava1) Alcuni imparano a camminare. Altri imparano a cadere. Il suolo di alcuni è quindi fatto per il futuro e quello di altri è scarabocchiato per sopravvivenza. Filippone Tîmoteo calpestava o era calpestato dal suolo? Il mondo del vecchio signore assomigliava ormai a un campo di calcio: era lì che affrontava la Vita, ingannando il tempo c allungando la partita coi tempi supplementari.
— Mi restano due vie di uscita, — sorrideva — o perdere o essere vinto.
E l'unico dente, da tanto tempo avulso ormai, gli dondolava per il riso. Nel bar della Munhava il vecchio pensionato si prendeva gioco del destino. Nel mezzo del birreto, Filippone si vendicava. Prova ne era il salto fantastico e il grido che, di quando in quando, si sentiva sulla strada:
— Goool!
II salto è lo sgraziato tentativo degli uomini per sperimentare un volo. La felicità di Filippone poteva essere misurata unicamente in ali, dal tanto vento a cui le sue grida eran lanciate. Da solo nel bar, il vecchio celebrava il gol della sua squadra. La gente che passava guardava attraverso il vetro Filippone che festeggiava a salti la vittoria. Come un pesce in un acquario che spera che la lastra di vetro allontani l'arrivo della fine.
Ogni volta che saltava, gli cadeva l'apparecchio acustico e lui passava il resto del tempo gattoni, alla ricerca dello strumento salvatore tra le immondizie del pavimento. Per un volo così minimo, si quadrupedava a quel modo per terra!
La gente lo sapeva: non vi era alcun televisore. II bar era povero e, oltre al bancone, non vi era altro ornamento. L'unica cosa che c'era alla parete era il disegno dì uno schermo tracciato a carboncino. Filippone aveva disegnato il televisore con dettaglio di ingegnere. Ecco quindi riportati a perfezione i pulsanti, l'antenna, i cavi. Chi è povero non festeggia a causa dell'allegria. E l'allegria a insinuarsi in lui e a fare in modo che la festa abbia una casa e una causa.
Filippone arrivava presto la mattina, premeva il falso pulsante dell'inesistente apparecchio e si sedeva al solito tavolo, in fondo alla sala. Ordinava la sacra birra e sorseggiava il liquido come se stesse bevendo attraverso il suo lento sguardo. Era lui tutto che beveva, la sua anima era una bocca. Schioccava la lingua, rumorosamente. Quindi scarabocchiava alcuni disegni su un pezzo di carta vecchio e unto: erano le tattiche della partita. Filippone organizzava gli schemi, e dava forma alla forza degli spiriti. E poiché si era in pieno Mondiale, lo svago preferito era la morte del portiere.
In seguito, date le istruzioni, il vecchio spuntava sulla porta della taverna e gridava verso l'esterno:
– È già cominciata!
Poi tornava dentro per assistere a un'altra di quelle partite di cui solo lui era testimone nella sua testa.
Fino a quando, un giorno, vennero a prenderlo. Erano i figli che vivevano in città. Il più anziano disse:
– Vieni via con noi, papà, non vogliamo che continui a stare da solo qui in paese.
– Non vedi che tutti ti deridono? – confermava il più giovane.
Filippone si sistemò l'apparecchio acustico come se non stesse sentendo bene. Non se ne sarebbe andato neanche se l'avessero trascinato. Perché lì stava seguendo il Mondiale. Più che seguirlo: stava dando istruzioni tecniche. Lui, il "mister", il signore senza anelli.
– Da quando, papà? Da quand'è che si trascina questo Mondiale?
Gli altri gli fecero segno di non usare argomenti della realtà. Sarebbe stato peggio. Che gli lasciassero credere che in quell'immaginario televisore scorrevano le immagini di partite vere, capaci di fabbricare autentiche gioie. La realtà non è forse un sogno fabbricato dai ricchi?
E così fecero. Filippone continuò con il sogno del gioco, gli altri con il gioco del sogno. Un giorno il figlio più giovane gli portò una lettera. Era di carta buona, con tanto di timbro e scritta a macchina.
– E questo cos'è?
– È per te, papà.
– Non sai che le lettere non le so leggere?
Il figlio si aggiustò gli occhiali e lesse ad alta voce. Era una convocazione della Federazione Nazionale di Calcio. Che si congratulava per il suo contributo allo sport e per i riconoscimenti ottenuti dalla squadra. Lo invitavano ad andare nella capitale. Perché si riposasse, vicino ai familiari.
– Questa lettera è falsa!
– Come falsa?! C'è il timbro, c'è la firma, c'è tutto.
– Guarda quest'altra lettera!
L'uomo porse una busta al figlio. Aveva un francobollo brasiliano e l'indirizzo recitava così: Signor Filippone Timoteo, Bar della Munhava. Così, senza correzioni o scarabocchi. In basso, la Firma ben tracciata: Ronaldinho Gaúcho. II ragazzo uscì, senza fiato per proferir parola. La voce di suo padre fece sì che si fermasse.
– E adesso, figlio mio...
– Si? – chiese il figlio, senza voltarsi.
– Puoi portarmi dalla città un gessetto, così almeno mi disegno un televisore nuovo?
NOTA:
1 – Quartiere di periferia della città Mozambicana di Beira. (N. d. T.)
Racconto tratto dalla raccolta Perle, Quarup editori, Pescara, 2011. Traduzione dal Portoghese di Bruno Persico. Mia Couto (Beira, 1955), č uno scrittore mozambicano, uno degli autori pių noti dell'Africa lusofona.
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