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Sagarana VENGONO IN DUE O TRE


Tullio Bugari


VENGONO IN DUE O TRE



 

Vengono in due o tre, mai da soli. Bussano alla porta ma non si limitano a bussare. Fanno rumore. Disturbano. Chiamano a voce alta. “Chissà se è in casa?” dicono. Io li caccerei via volentieri ma non posso, devo farli entrare. Loro entrano. Si siedono. Come se nulla fosse. Io vado a preparare il caffè, assente, come se non ci fossi. Loro, di là, parlano, parlano del più e del meno, del tempo, di sciocchezze che io neanche ascolto. “Ci dispiace che sia andata così” dicono, mentre sorseggiano il caffè, “ma era la guerra, ci dispiace”. Come se fosse dipeso da altri. Mio marito è morto a causa loro. Mi chiedono come sto, se ho bisogno di qualcosa, ma io non voglio niente da loro non vedo l’ora che se ne vadano. Si dice che bisogna perdonare ma come si fa a perdonare così, come se nulla fosse? Forse col tempo, chissà? Io non lo so. Certe volte li incontro alla fontana, quando vado con la brocca a prendere l’acqua. Qualcuno mi ferma e m’insulta, ancora oggi, quasi fosse una loro abitudine. Che almeno mi odiassero davvero. Io non rispondo. Fingo di non capire, dico “grazie, sto bene, è una bella giornata”. Per me non esistono, non so se ancora li odio. Forse sì, un po’ di odio ce l’ho, perché il dolore è grande, ma questo è il mio paese ed è qui che voglio restare.
Andiamo a casa sua ma in due o tre, insieme è meglio. Bussiamo e la chiamiamo a voce alta. Lei apre e noi entriamo, ci accomodiamo da soli mentre ci prepara il caffè, nell’altra stanza. Noi parliamo tra di noi ma a voce alta, vogliamo che ci ascolti, nulla d’importante, del più e del meno, del tempo. Non vogliamo provocarla. “Ci dispiace che sia andata così” cerchiamo di dirle, ripetendolo a voce alta come per convincerci, “ma era la guerra”. Le chiediamo come sta, se ha bisogno di qualcosa, ma non ci risponde nemmeno. Non possiamo invitarla a uscire, non è il caso, alcuni in paese vorrebbero cacciarla di nuovo, ma non possono, ci sono gli accordi di pace a obbligarli. Si divertono a insultarla. Alcuni, che nemmeno c’erano quel giorno, godono nel vederla rodersi. Io c’ero, c’ero quel giorno e lo so, lo so che non furono le percosse a ucciderlo, fu quel qualcosa che riuscimmo a mettere tra noi e lui. La sento ancora quella fredda emozione che mi prese nel corpo, quando a turno lo lanciammo contro il muro, dopo averlo denudato, ridotto a niente. A volte dubito che la memoria m’inganni, che non fossi io parte o artefice di quella folla imperdonabile, ma anche da gregario che cambia? Anzi, ignaro dei miei gesti sarebbe ancora peggio. Molti dei nostri ci osservarono in disparte, ma noi ci eccitammo ancora di più sotto la spinta dei loro sguardi nascosti. La sento ancora, annidata in me, quell’emozione che vorrei non aver provato, la sento, mentre sorseggio il caffè sotto il suo sguardo. Quando i miei amici si alzano, per andare, io dovrei dire “voglio restare”, ma da solo non ce la faccio.




Tullio Bugari nel 1999 ha curato, insieme a G. Scattolini, il libro "Izbjeglice/Rifugiati, storie di gente della ex-Jugoslavia" (Pequod edizioni), con un racconto di Predrag Matvejevic; da una di quelle storie raccolte allora e da alcune conversazioni legate a temi analoghi, ha tratto liberamente il racconto qui proposto; di recente ha curato, di nuovo insieme all’amico G. Scattolini, il libro “Jugoschegge, storie e scatti di guerra e di pace” (Infinito edizioni), con foto di ieri e di oggi a confronto e conversazioni su guerra e dopoguerra con Mario Boccia, Ennio Remondino, Alessandro Gori, Luca Rastello, Silvia Maraone, Roberta Biagiarelli e Paolo Rumiz, e interventi di Massimo Cirri e Agostino Zanotti.




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