LAJOS Brano tratto dal romanzo L’ereditŕ di Eszter Sándor Márai
(…) Quando Lajos, molti anni addietro, era comparso al nostro orizzonte, il primo ad accoglierlo con la più viva simpatia fu Laci. A quei tempi, in famiglia, erano considerati entrambi delle grandi promesse. Che cosa promettessero esattamente Laci e Lajos nessuno avrebbe saputo dirlo - se si ascoltavano i loro discorsi, d'altra parte, non c'era alcun dubbio che si trattasse di due giovani assai promettenti. Ciò che era comune ai loro caratteri, l'assoluta mancanza di senso della realtà, una spiccata tendenza alle fantasticherie più strampalate, il bisogno inconsapevole e ossessivo di snocciolare una frottola dopo l'altra, li avvicinava con una forza irresistibile, simile a quella che unisce gli innamorati. Laci aveva introdotto Lajos in famiglia con orgoglio. Si rassomigliavano anche fisicamente: sul volto di entrambi aleggiava un non so che di ottocentesco e romantico che avevo sempre amato in mio fratello e che ritrovavo con piacere in Lajos. Ci fu un tempo in cui si vestivano allo stesso modo, e la città risuonava delle loro gesta frivole e rocambolesche che facevano scalpore. Ma tutti li perdonavano volentieri, perché erano giovani e simpatici e in fin dei conti non avevano mai commesso atti disonorevoli. Si rassomigliavano in maniera impressionante, nel corpo e nell'anima.
Questa amicizia, che durante gli anni dell'università aveva già raggiunto un livello di intimità sconcertante, non cessò quando Lajos cominciò a mostrare interesse nei miei confronti; non cessò, però si trasformò in miniera singolare. Anche un cieco si sarebbe reso conto che Laci era geloso di Laos in modo addirittura ridicolo; egli faceva di tutto per avvicinare l'amico alla famiglia. ma nello stesso tempo era infastidito dal fatto che mi facesse la corte e cercava di disturbare il più possibile i nostri approcci maldestri, coprendo di scherno i timidi segni di un'attrazione nascente. Laci era geloso, ma stranamente - o forse nemmeno tanto stranamente - questa sua gelosia si limitava a me; quando Lajos sposò Vilma. sembrò contento, e si comportò sempre con grande delicatezza e generosità. In famiglia tutti sapevano che la preferita di Laci ero io, che aveva un debole per me. Più tardi mi chiesi anche se la simpatia e l'antipatia di Laci non avessero influito sull'infedeltà di Lajos. Ma questa supposizione non riuscii mai a suffragarla con elementi concreti, neanche di fronte a me stessa.
Quei due uomini così simili. quei caratteri quasi identici, gareggiavano nel cercare la reciproca amicizia. Per un certo periodo, quando Lajos entrò in possesso della sua eredità. alloggiarono insieme nella capitale, in un magnifico appartamento da scapoli che io non vidi mai, ma che nelle descrizioni di Laci figurava come il palcoscenico che aveva ospitato gli incontri intellettuali e mondani più importanti di quegli anni. Da parte mia, avevo buone ragioni per dubitare del prestigio di quella vita sociale. Ad ogni modo vivevano insieme e avevano denaro in abbondanza – Lajos a quei tempi era quasi ricco, e quando Laci ricorda l'orologio d'oro e i biglietti da cento dati in prestito, lo fa per un risentimento puerile, perché Lajos, all'epoca del suo benessere transitorio, spendeva parecchio sia per sé che per gli altri e naturalmente anche per l'amico. Si circondarono di alcuni servizievoli rappresentanti di quella gioventù dorata che alla fine del secolo si dedicava beatamente al dolce far nulla e, a quanto ho potuto capire più tardi, condussero una vita romantica. Con questo non voglio dire che fosse una vita dissoluta. Lajos, per esempio, non ha mai amato il vino, e taci evitava di fare le ore piccole. Vivevano piuttosto in una specie di ozio costoso, complesso e pretenzioso che agli occhi di uno spettatore poco informato poteva essere scambiato facilmente per un qualche genere di attività coerente e approfondita, per una forma di vita esigente o addirittura – secondo l'espressione preferita di Lajos – per un nuovo «stile di vita» da realizzare mediante il sodalizio di quei due giovani di talento. In realtà essi mentivano e sognavano. Ma questo venni a saperlo soltanto molto più tardi.
Con Lajos, il nuovo amico, fece il suo ingresso in casa nostra uno stato d'inquietudine romantica. Egli osservava i nostri passatempi provinciali e il nostro modo di vita con benevolenza indulgente e un pizzico di disapprovazione. Sentivamo la sua superiorità e ci sforzavamo intimoriti di rimediare alle nostre mancanze. Di colpo ci mettemmo a leggere, soprattutto gli autori la cui importanza ci era stata segnalata per la prima volta da Lajos – e lo facemmo con tale diligenza e umiltà che sembrava ci stessimo preparando a un esame decisivo per la nostra vita. Più tardi venimmo a sapere che Lajos non aveva mai letto le opere di questi autori o, se le aveva lette, lo aveva fatto nel modo più superficiale, anche se non esitava a richiamare su di esse la nostra attenzione, lasciando trapelare un silenzioso disappunto per il fatto che noi di queste celebrità non conoscessimo neppure un rigo. Il suo fascino esercitava un effetto immediato, come i sortilegi maligni praticati nei baracconi delle fiere. La nostra povera mamma fu la prima a lasciarsi stordire da quel polverone. Leggevamo continuamente, sotto l'influenza di Lajos e in suo ossequio, quindi cominciammo ad «abbigliarci» in modo completamente diverso da come ci vestivamo in passato, a condurre una vita sociale in contrasto con quella di prima; rinnovammo persino la mobilia del nostro appartamento. Tutto ciò costava parecchio e noi non eravamo ricchi. La mamma non aspettava che Lajos, e si preparava alle sue visite come se dovesse affrontare un esame: mandava a memoria intere opere di filosofi tedeschi solo perché un giorno Lajos si era informato, in tono di condiscendenza, se conoscevamo le opere di un certo B. di Heidelberg. No, nessuno di noi ne aveva mai sentito parlare. Ci precipitammo tutti a leggere quelle elucubrazioni altisonanti e un poco nebulose sulla vita e sulla morte. Anche il babbo, in quel periodo, tentò di darsi un contegno. Se avevamo ospiti, beveva di meno, cercava di comportarsi dignitosamente e di evitare che gli occhi di lince di Lajos mettessero a nudo la sua vita triste e malandata. Gli ospiti, mio fratello e Lajos, trascorrevano tutti i fine settimana da noi.
Allora le stanze si riempivano di gente chiassosa. Il vecchio soggiorno si trasformava di colpo in una specie di salotto dove Lajos riceveva le persone più interessanti della città; persone che in precedenza avevamo considerato piuttosto losche e assai poco interessanti, e che non avevamo mai in-vitato. Ora invece ottennero libero accesso in casa nostra. Mio padre si aggirava timido e goffo tra i suoi ospiti del fine settimana con la sua giacchetta sdrucita e la sua gentilezza di altri tempi – in quei giorni non osava neppure accendere la pipa... E Lajos riceveva, concedeva udienze, fulminava o approvava con lo sguardo, innalzava nell'alto dei cieli, elargiva premi o condannava al fuoco dell'inferno. Continuò così per tre anni.
Mio fratello e il suo strano amico non erano semplicemente due ragazzi incoscienti e spericolati come ce ne sono tanti. Alla fine del primo anno anche un estraneo si sarebbe accorto che Laci era entrato con Lajos nello stesso rapporto di dipendenza in cui ci trovavamo noialtre, la mamma, Vilma e più tardi io stessa. Ora potrei anche vantarmi di essere stata io a conservare più a lungo la mia lucidità, soccombendo per ultima a quel sortilegio maligno; ma perché dovrei ingannare me stessa cantando vittoria per un fatto così insignificante? Sì, fin dal primo momento avevo valutato bene Lajos; ma non mi ero forse precipitata ciecamente, con avidità, a offrirgli i miei servigi? Era così serio e gentile. Gli studi universitari, come dovemmo constatare ben presto, li lasciò a metà, al pari di Laci; disse – ricordo le sue parole, era l'ora del tramonto, lui stava davanti alla finestra, una ciocca di capelli gli ricadeva sulla fronte – con l'aria rassegnata di chi si è deciso a un grave sacrificio: «Mi sento costretto a sostituire il silenzio e la solitudine feconda del mio studio con le possibilità rischiose e turbolente offertemi dal campo di battaglia della vita». Parlava sempre come se stesse recitando le frasi di un libro. La sua dichiarazione mi turbò profondamente. Pensai che, nell'interesse di una meta alta e un poco oscura, avesse rinunciato a coltivare il suo talento per proseguire la sua battaglia - probabilmente in nome dell'umanità - non più con le armi della scienza ma con quelle della realtà concreta. Quel sacrificio mi preoccupava perché nella nostra famiglia si preferiva che i ragazzi terminassero i loro studi prima di presentarsi sul «campo di battaglia della vita». Ma io credevo in Lajos, ero convinta che la sua strada e i suoi mezzi fossero diversi da quelli della gente comune. Ovviamente anche Laci si affrettò a seguirlo sulla nuova strada. Al terzo anno abbandonarono l'università. All'epoca io ero ancora una ragazzina. Più tardi Laci fece ritorno al «mondo intellettuale»; appoggiandosi alle ultime possibilità di credito concesse alla famiglia, aprì una bottega di libri in città e, dopo i grandiosi progetti iniziali, si ridusse a vivere modestamente vendendo libri scolastici e articoli di cancelleria. Lajos disapprovò questo passo in maniera molto drastica. In seguito però, quando si lasciò sedurre dalla politica, per un pezzo il nostro idolo non ci fece più avere sue notizie.
Non ho mai conosciuto esattamente le idee politiche di Lajos. Tibor, che ho interrogato spesso a tale riguardo, si limitava sempre a scrollare le spalle e diceva che Lajos non aveva nessuna convinzione politica, era semplicemente un avventuriero che andava alla ricerca di emozioni nei luoghi in cui gli uomini si spartivano il potere. Questa accusa poteva anche essere fondata, tuttavia non corrispondeva esattamente alla verità. Avevo l'impressione che Lajos fosse veramente disposto a compiere sacrifici per l'umanità, o meglio per un ideale astratto di umanità – aveva sempre amato gli ideali più della realtà, probabilmente perché sono meno pericolosi e più elastici –, e quando cercò l'avventura nella vita politica sarebbe anche stato disposto a mettere in gioco la pelle, non tanto in vista del bottino quanto per amore di quelle emozioni e di quel pathos di cui si compenetrava profondamente, al punto da soffrirne. Conoscevo Lajos come una persona che inizia raccontando bugie e poi, man mano che prosegue, si riscalda tanto che scoppia a piangere; continua a mentire con le lacrime agli occhi e infine, tra lo stupore generale, passa a dire la verità con la stessa disinvoltura con cui poco prima aveva mentito... Naturalmente questa sua capacità non gli aveva impedito di presentarsi, negli ultimi dieci anni, come il paladino di diversi partiti estremisti di segno opposto; in breve, però, fu messo alla porta da tutti. Per fortuna Laci non lo aveva seguito su quella strada. Era rimasto all'interno del «mondo intellettuale», nell'atmosfera un po' ammuffita dei libri scolastici di seconda mano con le orecchie e degli articoli di cancelleria. Lajos invece finì per smarrirsi tra pericoli di ogni genere; nessuno sarebbe stato in grado di dire quali fossero esattamente questi pericoli, tuttavia noi, da lontano, lo vedevamo sempre come un uomo che vive in zone procellose e turbolente, circondato da fulmini e saette.
Quando morì Vilma e fra noi ebbe luogo la rottura, Lajos scomparve dall'orizzonte della famiglia. Fu allora che tornai qui, in questa casa modesta, nel mio ultimo rifugio. Non c'era nulla ad aspettarmi, a parte un giaciglio e un tozzo di pane. Ma chi è scampato a una bufera è felice di avere un tetto sopra la testa. (…) (Brano tratto dal romanzo L’ereditŕ di Eszter, Adelphi editrice, Milano, 1999. Traduzione di Marinella D’Alessandro. Sándor Márai, in origine Sándor Károly Henrik Grosschmid de Mára (Košice, 11 aprile 1900 – San Diego, 22 febbraio 1989), č stato uno scrittore e giornalista ungherese. La sua fama č legata in particolare al romanzo Le braci, apparso in Italia nel 1998 e L'ereditŕ di Eszter, pubblicato nel 1999.
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