L’UNIVERSO GUIMARÃES ROSA Cristiana Sassetti
L’universo Guimarães Rosa (1908 - 1967) si è aperto del tutto casualmente ai miei occhi un pomeriggio di più di venti anni fa, mentre preparavo un esame di Letteratura Ispanoamericana, allorquando focalizzando l’opera di García Márquez, mi imbattei in una sua intervista nella quale il premio Nobel colombiano dichiarava che il più grande scrittore del Novecento, nonché suo maestro nel realismo magico, era lo scrittore brasiliano João Guimarães Rosa!?
Essendo all’epoca anche alunna del corso di lingua e letteratura portoghese, andai a chiedere ragguagli al mio professore, chiedendo il perché di un’assenza tanto singolare dal programma istituzionale che verteva, ricordo, sulla complessa pluralità dell’opera di Pessoa, (nonché sulle asperità del portoghese europeo). Egli pensò bene di rimediare alla lacuna personalizzando il mio programma, con l’aggiunta di una sorta di appendice dove inserì immediatamente l’opera maggiore e senz’altro più ardita del nostro scrittore, Grande Sertão: Veredas, oltre ai racconti urbani di Clarice Lispector e ai romanzi del Jorge Amado prima maniera, quello del realismo regionalista. Dopodiché decidemmo che l’autunno successivo l’avrei trascorso a Lisbona per frequentare un corso di letteratura brasiliana dove, tra le altre cose, mi innamorai perdutamente di una lingua molto simile al portoghese, ma dalla fonologia tanto più dolce e dall’intonazione tanto più rallentata. Ci volle poco quindi perché l’appendice si trasformasse in arcipelago ed iniziasse per me una navigazione a tutt’oggi ininterrotta, in quella che è una letteratura vasta, elegante e conturbante, che mischia sensualità, brutalismo e asfalto, e che è rimasta per lo più misconosciuta al grande pubblico poiché non era rientrata nel mainstream del boom latinoamericano degli anni ’70, prevalentemente di lingua spagnola.
Nondimeno, e per fortuna, il romanzo Grande Sertão: Veredas del 1956 aveva raggiunto l’Italia attraverso la traduzione di Edoardo Bizzarri già dal 1970. La trasposizione italiana veniva corredata da una imprescindibile “avvertenza del traduttore” nella quale si esplicitava la problematicità di restituire in italiano una lingua portoghese rivoluzionaria, che fondeva innovazioni linguistiche, eruditismi, arcaismi, dialetti regionali e lingue indigene, con una sintassi assai inusuale attraverso la quale si descriveva un paesaggio che non aveva riscontro nella terminologia di un paese europeo. Questo paesaggio era il mondo magico del Sertão di Minas Gerais, terra di origine dell’autore, un altopiano del Brasile centro-orientale caratterizzato dall’allevamento bovino e i cui corsi d’acqua, le veredas, alimentano palmizi giganti del tipo Burití e basse foreste. Questa brughiera-deserto-foresta attraverso le spesse lenti dello scrittore mineiro diventava un’immensa arena dove si affrontavano gruppi mercenari dei jagunços, banditi assoldati dai proprietari terrieri, per sorvegliare le terre. Un romanzo che permane un classico della letteratura brasiliana e mondiale, anche se all’apparenza difficile e quasi illeggibile in quanto l’autore, secondo Luciana Stegagno Picchio, opera uno “scardinamento sintattico, di invenzione verbale, di esplicitazione poetica ed ironica di suggestioni semantiche latenti nelle parole e sprigionatisi dalle catene verbali che attuano una vera e propria ‘Rivoluzione Guimarães Rosa’ che ha agito in profondità sulla contemporanea letteratura del Brasile, contribuendo ad emancipare la letteratura di questo paese (per lungo tempo semplice appendice di quella portoghese, con la quale ha in comune la lingua) e di darle dignità nazionale.”[i]
Per decifrare questo portoghese immaginoso, ardito e suggestivo, tutto proiettato verso l’oralità, gli strumenti che ci vengono in soccorso sono stranamente proprio le corrispondenze con i traduttori, ed in primis con il suo bravissimo traduttore italiano, il quale molto lungimirante e con un altruismo d’altri tempi, nel tentativo, credo, di offrire una bussola allo sprovveduto lettore autoctono e non, chiese allo scrittore l’autorizzazione alla pubblicazione della loro lunga corrispondenza in portoghese, che avverrà poi nel 1972, e che farà da apripista per la pubblicazione molti anni dopo della successiva corrispondenza con i traduttori tedeschi e inglesi, testi che rappresentano un vero e proprio vademecum per chiunque si cimenti a vario titolo con lo studio dell’opera di colui che è considerato il Joyce dei tropici. Nel carteggio, tuttavia, precisava all’amico-traduttore che la sua scrittura non scaturiva da “pressupostos planejamento cerebrino cerebral deliberado. Ao contrário, tudo, ou quase tudo, foi efervescência de caos, trabalho quase “mediúmnico” e elaboração subconsciente”[ii]. difendendo pertanto l’altissimo primato dell’intuizione, della rivelazione, dell’inspirazione sulla presuntuosa intelligenza riflessiva, razionale, che egli definiva “megera cartesiana”[iii].
Una prova della capacità inventiva sia sul piano lessicale che su quello grammaticale e sintattico, senza voler per il momento istigare il lettore ad intraprendere la sfida delle cinquecento pagine di sperimentazioni linguistiche di Grande Sertão, la ritroviamo nelle due poesie in prosa Aquário-Berlim e Aquário-Nápoles uscite in traduzione sulla rivista STEVE 40 (Modena, agosto 2011). Questi componimenti fanno parte della raccolta postuma e ancora inedita in Italia, Ave, Palavra (1969 e 1971), curata da Paulo Rónai: un testo nel complesso di difficile catalogazione, nel quale sono confluiti racconti, appunti di viaggio, poesie in prosa e riflessioni. Alcuni capitoli si intitolano proprio Zoo, e le città dove sono stati fissati su carta queste note, Berlino, Londra, Amburgo, Rio, Napoli e Parigi e altri Acquario, con sottotitolo Berlino, Napoli, oltre a Diario di Parigi e Diario di Parigi III[iv]. Sin dall’indice quindi non ho potuto non ripensare al testo di Benjamin Immagini di città, e al suo studio sui passages-acquario della Parigi capitale del XIX secolo, con il loro “glauco chiarore abissale”, ed infine alla sua Infanzia berlinese scritta dopo il 1930[v] e mai pubblicata in vita, che si apre proprio con la descrizione del Tiergarten, il parco centrale e Giardino Zoologico di Berlino. Questo era il luogo che da bambino il filosofo tedesco percorreva e dentro al quale si perdeva come in un labirinto ogni giorno per andare a scuola o nelle passeggiate con la madre, e che continuava l’opera di proseguimento di una nuova prospettiva di analisi dello spazio urbano che definiva l’attività del flâneur. Anche il bighellonare attorno a spazi urbani e perturbanti come gli acquari e gli zoo mi hanno fatto rilevare la straordinaria sintonia che accomunava in quegli anni la sensibilità creativa di Guimarães Rosa a quella di Julio Cortázar. Entrambi, ho verificato poi, si trovavano nella Parigi del secondo dopoguerra tra il ‘48 e il ‘51, e anche se con esiti compositivi e stilistici diversi, avevano elevato l’acquario e il Jardin de Plantes a simbolo dell’alterità, dell’altro da sé, della realtà straniante che li circondava e a cui si sentivano condannati. Di fatto, i versi rosiani di Acquario-Berlino, “Dal calmo caos, come dal chiuso fondo del mare, entità/ ci spiano, compatte, opache, refrattarie. Insolubili, gravide,/ tutte esuberanti. Si rassegnano davanti a noi?/ I pesci oscillano, sbadigliano e si sventolano, senza diritto all’immobilità/ […] Io e il pesce nell’acquario non abbiamo alcuna naturalezza.”[vi], sembravano far eco al celebre racconto di Cortázar Axolotl, nel quale si narra la storia fantastica e inquietante della trasformazione di un visitatore dell’acquario del Jardin de Plantes parigino, che da osservatore diventa osservato, che da uomo diventa pesce: “Ci fu un’epoca in cui pensavo molto agli axolotl. Andavo a vederli nell’acquario al Jardin de Plantes, e mi fermavo ore intere a guardarli, osservando la loro immobilità, i loro oscuri movimenti. Ora sono un axolotl[vii]”.
La metafora dell’acquario quindi come una vetrina/specchio, proietta lo spettatore/scrutatore in un luogo innaturale e reale al contempo, un mondo ovattato dove tutto ristagna e dove la luce fredda al neon illumina la sua stessa vita asfittica, condannata agli stessi gesti ripetitivi di un animale costretto in cattività: “Vitreo, acquoso, cristallino, ogni scompartimento apre un occhio: filmato azzurro o verde fluoresceina:quelli degli annunci al neon e delle piccole onde morenti”[viii]
Guimarães Rosa aveva una grande passione per gli animali. Ad ogni suo viaggio, ovvero per tutta la vita in quanto dopo la laurea in medicina aveva scelto la carriera diplomatica, aveva annotato su dei taccuini gli zoo che visitava, e quello che gli animali ‘gli sollecitavano’. Il racconto di animali, peraltro, era stato il genere di esordio dello scrittore: nel suo primo libro Sagarana (1946), alimentato da ricordi autobiografici, inizia a delineare una serie di animali con tratti antropomorfici che lo seguiranno per tutta la vita[ix].
Dal punto di vista meramente stilistico, gli acquari rosiani mettono in vetrina pesci, crostacei, molluschi, tartarughe in un linguaggio che a mio avviso si fa ancora più ricercato, innovativo e intenso nel catturare l’essenza di ogni singolo animale: procedimenti stilistici tipici della lingua orale quali le frasi lapidarie e i proverbi o i diminutivi, intercalano tentativi di descrivere l’acqua, il pesce, la chiocciola attraverso neologismi alleati a termini rigorosamente scientifici: “Il polpo saltellante: segreg-atro, ottopode, occhietti immensamente difensivi/ la pancia turbolenta: polpo dalla testa ai piedi”[x]. Si direbbero delle istantanee surrealiste, nel tentativo di afferrare la parola giusta che cattura l’oggetto ma che al contempo ne amplifica le possibilità, in una lingua quindi dinamica, sperimentale e molto giocosa, ricca di onomatopee, rime interne, assonanze, calembour (“un ostricacismo di mollusco”), prestiti dal francese e dal latino (homardo, claial, clapa nell’originale portoghese provengono rispettivamente da homard, claie e clapper del francese; palinuro, piloto, astaco dal latino)[xi]. Termini colti che innestati in un contesto leggero ne sortiscono un effetto ironico e spiazzante, per restituirne una visione fuori di ogni abitudine percettiva, da ogni meccanismo verbale logorato dall’uso:
“Aragosta sontuosa maneggia un compasso. Granchio oscillabondo, le sue chele esuberano. Ha l’anima centripeta, in un corpo ancora centrifugo, risultato: cammina di lato, indietreggia. L’aragosta palinuro, schermitrice, i piedi che si muovono in successione, indipendenti. L’Omardo – homar, astaco, astice – si dimentica di sgonfiare e chiudere le pinze deformi. Cavatore, corre a nascondere il cibo in un buco, come un cane.”[xii]
I versi di questi acquari sembrano così ammiccare alle stesse composizioni surrealiste di Francis Ponge del Partito preso delle cose (1942), la cui notorietà era giunta sino in Brasile, e i cui versi da buon francofilo non dovevano esser sfuggiti al nostro manipolatore di parole, per cui ecco apparire la chiocciola ritratta come in un flash fotografico: “Anche nella schiuma c’è un’intenzione di conchiglia. Eppure la chiocciola si ricrea a spirale con il carbonato di calcio […]/ La chiocciola – si è sbavata addosso!: esce dalla sua scala residenziale.”[xiii]
Parafrasando il Calvino che commenta ‘le cose’ di Ponge potremmo concludere che anche Rosa è ‘antropomorfo’ nel senso d'una immedesimazione negli ‘animali’, come se l'uomo uscisse da se stesso per provare com'è essere ‘pesce’. “Questo comporta una battaglia con il linguaggio, un continuo tirarlo e rimboccarlo, come un lenzuolo qua troppo stretto e là troppo largo, il linguaggio che tende sempre a dire troppo poco o a dire troppo"[xiv].
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João Guimarães Rosa nacque a Cordisburgo, nello Stato di Minas Gerais, nel 1908 e morì nel 1967 a Rio de Janeiro. Durante la sua vita viaggiò molto e soggiornò a lungo all’estero, in qualità di ambasciatore del Brasile in vari paesi europei ed americani. La sua produzione letteraria (che si sviluppò soprattutto negli ultimi venti anni della sua vita) comprende romanzi e racconti. Tra questi spiccano Sagarana (1946) (Feltrinelli, 1994), e i cicli di racconti-poema Corpo de Baile (1956)(Corpo di Ballo, Feltrinelli 1964 e successivamente scisso in tre racconti Miguilim; Una storia d’amore e Buriti ], e Grande sertão: veredas (1956) (Grande sertão, Feltrinelli,1970); Meu tio o iauaretê (Mio zio il giaguaro, Guanda, 1999).
Illustrazione di Edoardo Gori da Acquario, n. 3, Golfo Stella, Settembre 2011.
NOTE:
[i] Luciana Stegagno Picchio, Storia della Letteratura Brasiliana, Torino, Einaudi 1997, p. 564-565.
[ii] João Guimarães Rosa, Correspondência com seu tradutor italiano Edoardo Bizzarri, 3ª ed. Rio de Janeiro, Editora UFMG, Editora Nova Fronteira, 2006, p. 89
[iii] Idem, p. 90.
[iv] Ave, Palavra, Rimangono a tutt’oggi inediti negli archivi dell’Istituto di Studi Brasiliani dell’Università di São Paulo i diari, gli appunti tenuti in Germania e a Parigi, di cui molti studiosi si sono occupati, e di inestimabile valore, tra cui foto, quaderni di note e appunti, diari di Parigi e di Berlino, e cinque quaderni/taccuini di viaggio, compreso quello in Italia, fedeli compagni dei suoi soggiorni europei.Rio de Janeiro, Nova Fronteira, 3ª ediz, 1985.
[v] Ipotesi proposta in nota al volume Walter Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino (1971) da Peter Szondi, che non ne definisce la data esatta ma la classifica dopo gli articoli di giornale sulle città scritti tra il 1925 e il 1930 e prima del 1933 anno in cui è costretto a lasciare la Germania di Weimar e trasferirsi a Parigi come rifugiato, articoli raccolti nel libro citato. Crf, pp.113-114. Per Raul Calzoni il testo sul Tiergarten è stato scritto nel 1933, a Parigi. Il parco berlinese descritto da Benjamin è lo spunto per un interessante riflessione su questo spazio urbano eletto a osservatorio peculiare e crocevia della nuova realtà multiculturale della letteratura “decentrata” di lingua tedesca. Cfr. Raul Calzoni, Percorsi dell’alterità a Berlino. I ‘Passagen’ del Tiegarten fra intertestualità e interculturalità, in «Il Confronto Letterario», n° 39, 2003, pp. 133-156.
[vi] Acquario Berlino, in « STEVE 40», p. 28. Ringrazio Carlo Alberto Sitta, direttore della rivista, per aver autorizzato la pubblicazione di questo testo.
[vii] Julio Cortázar, Axolotl, in I racconti, a cura di Ernesto Franco, Einaudi – Gallimard, Torino, 1994, pp. 199.
[viii] idem, ibidem.
[ix] La parola titolo Sagarana, è un neologismo creato dall’autore aggiungendo al radicale ‘saga’ proprio delle antiche narrazioni nordiche del XIII e XIV secolo, il suffisso di lingua tupì ‘rana’, che significa ‘alla maniera di una saga’. Cfr. Nilce Sant’Anna Martins, O Léxico de Guimarães Rosa, 3ª ed. revista, Edusp, São Paulo, 2008 p. 439
[x] Op. cit. p. 32
[xi] Nilce Sant’Anna Martins, O Léxico..., Luiz Claudio Vieira de Oliveira, Ave, Palavra, «Caligrama», 13, Belo Horizonte, Dezembro 2008, pp.139-153
[xii] Acquario Napoli, op. cit. pag. 35
[xiii] Idem. p.34.
[xiv] Italo Calvino, Felice tra le cose, «Corriere della sera», 29 luglio 1979; reperibile su www.fotologie.it/Ponge 26/04/2010
Cristiana Sassetti si occupa di letteratura urbana portoghese e brasiliana.Dopo la tesi di laurea dedicata a Rubem Fonseca, ha conseguito nel 2007 il titolo di dottore di ricerca in Lusitanistica presso l'Università di Bari, con uno studio sulla Lisbona dello scrittore portoghese António Lobo Antunes, dal quale ha tratto un saggio di imminente pubblicazione. È critica e traduttrice letteraria con particolare riferimento alle letterature brasiliana e portoghese contemporanee. In questo ambito ha recentemente tradotto in italiano un poemetto di João Guimarães Rosa Acquario ("Steve 40", Modena, agosto 2011). È editor e direttore della collana “Saggistica e critica letteraria” della casa editrice Libertà Edizioni (www.libertaedizioni.net).
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