DAVANTI ALLE TELECAMERE Brano tratto dal romanzo Oltre il giardino Jerzy Kosinski
(…) L'interno dello studio era identico a tutti gli studi televisivi che Chance avesse mai visto alla TV. Lo scortarono rapidamente fino a un vasto ufficio attiguo e gli offrirono qualcosa di forte da bere, che lui rifiutò; prese, invece, una tazza di caffè. L'intervistatore fece la sua comparsa. Chance lo riconobbe subito; l'aveva visto parecchie volte in "Questa sera", anche se le interviste e le tavole rotonde non erano i suoi programmi preferiti.
Mentre l'intervistatore continuava a rivolgergli la parola, Chance si chiedeva che cosa sarebbe accaduto poi, e quando l'avrebbero effettivamente mandato in onda. Finalmente l'intervistatore tacque, e il produttore tornò subito con un truccatore. Chance sedette davanti a uno specchio mentre l'uomo gli stendeva sul viso uno straterello di cipria brunastra.
« Ha fatto molta televisione? » chiese il truccatore.
« No, » disse Chance « ma la guardo di continuo. »
Il truccatore e il produttore ridacchiarono educatamente. « Pronto » disse il truccatore, chinandosi e chiudendo la cassetta. « Buona fortuna, signore. » Si voltò e uscì.
Chance attese in una stanza adiacente. In un angolo c'era un televisore, grosso e ingombrante. Chance vide l'intervistatore comparire sullo schermo e presentare lo spettacolo. Il pubblico applaudì; l'intervistatore rise. Le grosse telecamere, col loro naso aguzzo, scivolavano qua e là nello studio. C'era della musica, e il direttore d'orchestra apparve sullo schermo, sorridente.
Chance era stupito che la televisione potesse ritrarre se stessa; le telecamere si guardavano e, guardandosi, trasmettevano un programma. Questo autoritratto veniva proiettato su alcuni schermi televisivi orientati verso il palcoscenico e seguiti dal pubblico presente in studio. Di tutte le svariatissime cose che t'erano al mondo — alberi, erba, fiori, telefoni, ascensori, apparecchi radio — solo la TV si teneva costantemente uno specchio davanti al viso, uno specchio né solido né fluido.
A un tratto apparve il produttore, che gli fece segno di seguirlo. Varcarono la soglia e si trovarono al di là di un pesante tendaggio. Chance sentì l'intervistatore pronunciare il suo nome. Poi, mentre il produttore faceva un passo indietro, scoprì di essere sotto la luce intensa dei riflettori. Vide il pubblico davanti a sé: diversamente dai pubblici che aveva visto sullo schermo del suo televisore, non riusciva a distinguere i singoli volti tra la folla. Sul palcoscenico, piccolo e quadrato, c'erano tre grosse telecamere; sulla destra, l'intervistatore era seduto a un tavolo foderato di cuoio. Sorrise a Chance, si alzò con molta dignità e lo presentò; il pubblico applaudì fragorosamente. Imitando ciò che tanto spesso aveva visto fare alla TV, Chance si diresse verso la poltrona vuota. Sedette, seguito dall'intervistatore. I cameramen spostavano silenziosamente le telecamere intorno a loro. Attraverso il tavolo, l'intervistatore si sporse verso Chance.
Rivolto alle telecamere e al pubblico, ora appena visibile sullo sfondo dello studio, Chance lasciò che accadesse quello che doveva accadere. Aveva la testa vuota. Ciò che vedeva lo interessava, ma Chance provava anche uno strano senso di distacco. Le telecamere lambivano l'immagine del suo corpo, registravano ogni suo movimento e silenziosamente li scagliavano in milioni di schermi televisivi sparsi in tutto il mondo: dentro stanze, macchine, barche,
aerei, soggiorni e camere da letto. Sarebbe stato visto da più persone di quante avrebbe mai potuto incontrarne in vita sua: gente che non lo avrebbe mai incontrato. Chi lo guardava sul suo televisore non sapeva chi aveva davanti: come poteva, se non lo aveva mai conosciuto? La televisione specchiava solo la superficie della gente; e continuava a sbucciarne l'immagine dal corpo finché questa non veniva risucchiata nelle caverne degli occhi degli spettatori, definitivamente irrecuperabile, per sparire. Rivolto alle telecamere con i loro tre insensibili obiettivi puntati come grifi su di lui, Chance diventò solo un'immagine per milioni di persone vere. Non avrebbero mai saputo quant'era reale, poiché il suo pensiero non poteva essere teletrasmesso. E, per lui, gli spettatori esistevano solo come proiezioni del suo pensiero, come immagini. Non avrebbe mai saputo quant'erano reali, poiché non li aveva mai incontrati e non sapeva che cosa pensavano.
Chance sentì l'intervistatore dire: « Noi qui dello studio siamo onoratissimi di averla con noi stasera, signor Chauncey Gardiner, e altrettanto lo sono, senza dubbio, i più di quaranta milioni di americani che ogni sera guardano "Questa sera". Le siamo particolarmente grati per aver sostituito, nonostante un preavviso così breve, il vicepresidente, al quale affari urgenti hanno disgraziatamente impedito di essere, stasera, qui con noi ». L'intervistatore fece una pausa di un secondo: nello studio c'era un silenzio assoluto. « Sarò franco, signor Gardiner. Lei è d'accordo col giudizio del Presidente sulla nostra economia? »
« Quale giudizio? » chiese Chance.
L'intervistatore sorrise con aria saputa. « Il giudizio formulato dal Presidente oggi pomeriggio nel suo discorso all'Istituto Finanziario d'America. Prima del suo discorso il Presidente si è consultato con lei, tra gli altri consiglieri finanziari... »
« Sì...? » disse Chance.
« Quello che voglio dire è... » L'intervistatore esitò e diede una sbirciata alle sue note. « Be'... mi permetta di farle un esempio: il Presidente ha paragonato l'economia di questo paese a un giardino, e ha detto che dopo un periodo di declino sarebbe naturalmente seguito un periodo di sviluppo... »
« Conosco benissimo il giardino » disse Chance con fermezza. « Ci ho lavorato per tutta la vita. È un buon giardino, buono e sano; sani sono i suoi alberi, sani i fiori e le piante, sempre che li si potino e annaffino nelle stagioni giuste. Il giardino ha bisogno di molte cure. Sono perfettamente d'accordo col Presidente: tutto, al momento opportuno, crescerà nel modo migliore. E c'è un mucchio di posto, dentro, per nuovi alberi e nuovi fiori di ogni varietà. »
Una metà del pubblico lo interruppe per applaudire e l'altra per fischiare. Guardando il televisore alla sua destra; Chance vide prima la sua faccia che riempiva lo schermo. Poi furono mostrati alcuni volti tra il pubblico: evidentemente erano tra quelli che approvavano le sue parole; altri apparivano seccati.
Sullo schermo tornò la faccia dell'intervistatore, e Chance distolse lo sguardo dall'apparecchio e si voltò verso di lui.
« Ebbene, signor Gardiner, » disse l'intervistatore « le sue parole fotografano la situazione, e credo che siano state di grande conforto per tutti coloro che non amano piangersi addosso o indulgere in lugubri previsioni! Parliamoci chiaro, signor Gardiner. La sua opinione, dunque, è che il rallentamento dell'economia, la tendenza al ribasso del mercato azionario, l'aumento della disoccupazione... Tutto questo, secondo lei, è solo un'altra fase, un'altra stagione, per così dire, del ciclo di sviluppo di un giardino... »
« In un giardino le cose crescono... ma prima devono appassire; gli alberi devono perdere le foglie per metterne di nuove, e per diventare più grossi, più forti e più alti. Certi alberi muoiono, ma nuovi arbusti li sostituiscono. I giardini hanno bisogno di molte cure. Ma se ami il tuo giardino non ti secca lavorarci, e aspettare. Allora, nella stagione giusta, sicuramente lo vedrai fiorire. »
Le ultime parole di Chance si persero in parte nell'animato brusio del pubblico. Alle sue spalle, alcuni componenti dell'orchestra tamburellavano sugli strumenti; altri espressero ad alta voce la loro approvazione. Chance si girò verso lo schermo più vicino e vide la propria faccia con gli occhi puntati da una parte. L'intervistatore alzò la mano per zittire il pubblico ma l'applauso continuò, punteggiato da fischi isolati. L'intervistatore si alzò lentamente e, con un cenno, invitò Chance a raggiungerlo al centro del palcoscenico, dove cerimoniosamente lo abbracciò. L'applauso diventò una baraonda. Chance non sapeva che fare. Quando il rumore diminuì, l'intervistatore gli strinse la mano e disse: « Grazie, grazie, signor Gardiner. È di uno spirito come il suo che questo paese ha tanto bisogno. Speriamo che contribuisca ad annunciare la primavera nella nostra economia. Grazie ancora, signor Chauncey Gardiner... finanziere, consigliere presidenziale e autentico statista! ».
Tornò a scortare Chance fino alla tenda, dove il produttore gli strinse calorosamente la mano. « È stato grande, signore, proprio grande! » esclamò il produttore. « Produco questo show da quasi tre anni e non ricordo di avere mai visto niente di simile! Posso dirle che il principale si è davvero divertito. È stato grande, grande davvero! » Pilotò Chance tra le quinte. Molta gente, tra il personale, gli andò incontro per salutarlo cordialmente; altri gli voltarono le spalle. Brano tratto dal romanzo Oltre il giardino, Feltrinelli edizioni, Milano, 1996 Prima edizione Mondadori 1973, Traduzione di Vincenzo Mantovani. Nato a Lodz, in Polonia, nel 1933, Jerzy Kosinski sė laurea in storia e in scienze politiche. Dopo un periodo trascorso all'Accademia di Scienze di Varsavia, nel 1958 si trasferisce negli Stati Uniti alla Columbia University e, nel 1965, prende la cittadinanza americana. Insegna a Wesleyan, Princeton e Yale e scrive romanzi e saggi in inglese che gli procurano fama e successo. In Italia sono stati pubblicati Presenze (Mondadori, 1973) che diventa, dopo la realizzazione del film, Oltre il giardino, L'uccello dipinto (Longanesi, 1981; Guanda, 1991), Abitacolo (Longanesi, 1982) e L'albero del diavolo (Mondadori, 1982). Per l'adattamento cinematografico di Oltre il giardino ha ottenuto il Best Screenplay of the Year Award della Writers Guild of America e della British Academy of Film and Television Arts. Muore suicida nel 1991.
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