TRE RACCONTI Agota Kristof
Mio Padre
Non l’avete mai conosciuto.
È morto.
Per questo l’anno scorso, all’inizio di dicembre, sono partita per il mio paese natale, a voi ugualmente sconosciuto.
Ventiquattro ore di treno per raggiungere la capitale, una notte da mio fratello e di nuovo il treno per dodici ore, in tutto trentasei ore di viaggio fino alla grande città industriale dove avrebbero murato mio padre, un’urna di porcellana bianca, un buchetto scavato nel cemento.
Trentasei ore di treno, con delle attese, delle fermate, dentro stazioni fredde e deserte, circondata da compagni di viaggio che non avevano perso il padre, o che l’avevano perso da così tanto tempo che non ci pensavano più. Io ci pensavo, ma non ci credevo.
Era un viaggio che avevo già fatto più volte, quando mio padre era ancora in vita, e mi aspettava nella periferia di quella città industriale dove ha vissuto così poco, amato così poco, e dove non ha mai passeggiato con me mano nella mano.
Al suo funerale pioveva quasi. C’era molta gente, corone, canti, un coro di uomini vestiti di nero. Era un funerale socialista, senza prete.
Ho posato un mazzo di garofani accanto all’urna bianca, minuscola, non potevo credere che lì dentro ci fosse mio padre, lui che ai tempi in cui ero ancora sua figlia, la sua bambina, era così grande.
Quell’urna di porcellana non era mio padre.
Tuttavia ho pianto quando l’hanno messa nel cemento. C’era un disco con l’inno nazionale in cui si prega Dio di benedire il paese e il suo popolo che in passato ha molto sofferto, anche per il futuro.
Il coro degli uomini ha dovuto fare un bis, perché i due operai erano alquanto imbranati, la lastra di chiusura non aveva gioco, l’urna, mio padre, non voleva entrare nel buchetto di cemento.
In seguito ho saputo che mio padre voleva essere sepolto, e non murato, nel suo villaggio natale, ma l’hanno convinto – moribondo divorato da un cancro allo stomaco all’oscuro del proprio male, mitigato a forza di iniezioni di morfina - , mia madre e mio fratello l’hanno convinto che sarebbe stato meglio qui, nel cimitero di quest’orrenda città industriale, che lui non aveva mai amato, dove non aveva mai passeggiato con me mano nella mano.
Più tardi ho dovuto salutare molte persone, degli sconosciuti che mi conoscevano. Le donne mi baciavano. Finalmente siamo arrivati alla fine. Intirizziti, abbiamo potuto tornare a casa dei miei genitori, voglio dire di mia madre. C’era una specie di ricevimento. Ho mangiato, come tutti, ho bevuto. Ero stanca del viaggio, della cerimonia, degli invitati, di tutto.
Sono andata nella stanzetta di mio padre, dove aveva l’abitudine di ritirarsi a leggere, a studiare le lingue, a scrivere il diario.
Mio padre non c’era. E non era neanche in giardino. Ho pensato che, forse, era andato a fare delle commissioni per tutti quegli ospiti. Faceva spesso le commissioni, gli piaceva.
Lo aspettavo, volevo rivederlo, perché presto avrei dovuto ripartire, cioè tornare qui. Ho bevuto molto vino, e lui non si vedeva.
- Ma dov’è finito papà? – ho detto alla fine, e la gente mi guardava.
I miei fratelli mi hanno portata a casa loro, mi hanno messa a letto. L’indomani sono ripartita. Ventiquattro ore, trentasei di treno.
Durante il viaggio ho fatto dei progetti.
Tra un po’ di tempo sarei tornata, avrei rimosso la lastra di cemento, avrei rubato l’urna e sarei andata a seppellirla nel suo villaggio natale, in riva al fiume, nella terra nera.
È una regione che conosco male, non ci sono mai andata. Ma allora, una volta rubata l’urna, dove l’avrei seppellita?
Da nessuna parte mio padre ha passeggiato con me mano nella mano.
La madre
Suo figlio se n’è andato di casa molto presto, a diciott’anni. Qualche mese dopo la morte del padre.
Lei continuava a vivere nel bilocale, era in ottimi rapporti con i vicini. Faceva la donna di servizio, rammendava, stirava.
Un giorno il figlio bussò alla porta. Non era solo. Era con una ragazza, piuttosto graziosa.
Lei li aveva accolti a braccia aperte.
Erano quattro anni che non rivedeva suo figlio.
Dopo cena il figlio ha detto:
- Mamma, se per te va bene, resteremo qui tutti e due.
A lei è scoppiato il cuore. Ha preparato la camera più grande, la più bella. Ma verso le dieci loro sono usciti.
“Saranno andati al cinema”, si disse lei, e si addormentò felice nella stanzetta dietro la cucina.
Non era più sola. Suo figlio era tornato a vivere con lei.
La mattina usciva presto per le sue ore di servizio e i lavoretti che preferiva non abbandonare, visti i nuovi sviluppi della sua situazione.
A mezzogiorno cucinava buoni pranzetti. Il figlio portava sempre qualche cosa. Dei fiori, un dolce, il vino, e a volte dello champagne.
Il va e vieni di sconosciuti che le capitava di incrociare in corridoio non le dava alcun fastidio.
- Entrate, entrate, - diceva, - i ragazzi sono in camera.
Ogni tanto, quando il figlio non c’era e mangiavano tra donne, i suoi occhi incontravano quelli tristi e cerchiati della ragazza che abitava da lei. Allora la madre abbassava lo sguardo e cincischiando una mollica mormorava:
- È un bravo ragazzo. Un ragazzo a modo.
La ragazza piegava il tovagliolo – l’avevano educata bene – e usciva dalla cucina.
Casa mia
Sarà in questa o in un’altra vita?
Tornerò a casa.
Fuori gli alberi urleranno, ma non mi faranno più paura, e neanche le nuvole rosse, né le luci della città.
Tornerò a casa, una casa che non ho mai avuto, o troppo lontana perché me ne ricordi, perché non era, non è mai stata veramente casa mia.
Domani, finalmente, avrò casa mia, in un quartiere povero di una grande città. Un quartiere povero, perché come si può diventare ricchi con niente, quando si viene da altrove, da nessuna parte, e senza il desiderio di diventarlo?
In una grande città, perché le piccole città non hanno che qualche casa cadente, solo le grandi città hanno strade buie all’infinito dove si rifugiano quelli come me.
In queste strade camminerò verso casa.
Camminerò in queste strade spazzate dal vento, illuminate dalla luna.
Donne obese che prendono il fresco mi guarderanno passare in silenzio. Saluterò tutti, piena di gioia. Bambini quasi nudi mi ruzzoleranno tra le gambe, li prenderò in braccio ricordando i miei che saranno grandi, ricchi, e felici da qualche parte. Li accarezzerò, questi figli di chiunque, e regalerò loro cose luccicanti e preziose. Rialzerò anche l’ubriaco caduto nel canale di scolo, consolerò la donna che corre gridando nella notte, ascolterò le sue pene, la calmerò.
Arrivata a casa sarò stanca, mi distenderò sul letto, un letto qualunque, le tende ondeggeranno come ondeggiano le nuvole.
Così il tempo scorrerà via.
E, sotto le mie palpebre, scorreranno le immagini di quel brutto sogno che fu la mia vita. Ma non mi faranno più male.
Sarò a casa mia, sola, vecchia e felice. Racconti tratti dalla raccolta La vendetta. Traduzione di Maurizia Balmelli. Einaudi, Torino, 2005. Ágota Kristóf (Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011]) è stata una scrittrice ungherese naturalizzata svizzera.Come autrice, si è espressa esclusivamente in francese, la sua seconda lingua, che non riuscirà mai a padroneggiare pienamente e senza errori, una circostanza che, nella narrazione autobiografica, portò la scrittrice a definire se stessa come un'«analfabeta»[ La Kristóf era fuggita con il marito e la figlia in Svizzera nel 1956 dopo la repressione dei moti di Budapest e l’invasione dell’Armata Rossa. Un evento che la scrittrice aveva trasposto in parte nella magistrale Trilogia della città di K., pubblicato in Italia da Einaudi come le sue altre opere, dedicato alle vicende dei gemelli Lucas e Klaus in un paese occupato da forze straniere. Un’opera, apparsa in Francia a metà anni Ottanta, che svelò alla scena letteraria internazionale una voce unica. Amata in Italia, dove ricevette il premio Alberto Moravia nel 1998, ha visto tradurre i suoi romanzi in oltre trenta Paesi. Da uno di questi (Ieri, del 1995) era stato tratto il film Brucio nel vento di Silvio Soldini.La scrittrice, da tempo malata e lontana dal lavoro, aveva già venduto tutti i suoi autografi agli Archives Litéraires Suisses (Als) e conservava con sé soltanto il suo diario e il romanzo incompiuto Aglaé dans le champs, dedicato a suo padre. L’ultima apparizione pubblica era stata a marzo nella nativa Ungheria, la terra da cui decenni prima era dovuta scappare. Vi era tornata per ritirare il prestigioso Premio Kossuth, il più importante riconoscimento letterario ungherese, e si era detta «molto felice». Un rientro in patria tra celebrazioni meritate, dove disse, nell’ultima intervista: «Non potrò mai esprimere pienamente ciò che pensavo».
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