HIPPE Thomas Mann
(…) Cantò da principio sottovoce, a bocca chiusa, poi forte e a gola spiegata. Aveva una voce di baritono chioccia, che ora però gli sembrava bella, e il canto lo entusiasmava sempre più. Quando l’attacco era troppo alto, arrivava, in falsetto, alle note di testa, e anche queste gli parevano belle. Se la memoria lo tradiva, se la cavava applicando alla melodia sillabe qualsiasi e parole senza senso che alla maniera dei cantanti lanciava in aria adattando opportunamente le labbra e facendo vibrare l’erre palatale, finché tanto per il testo quanto per le note si diede a improvvisare e ad accompagnare le sue invenzioni persino con teatrali movimenti delle braccia. Siccome è molto faticoso salire e cantare allo stesso tempo, si trovò assai presto col fiato corto, e il respiro cominciò a mancargli. Ma per idealismo, per la bellezza del canto, vinse la difficoltà e con frequenti sospiri fece il massimo sforzo, finché col fiato ridotto al minimo, cieco, con davanti soltanto un luccichio di scintille multicolori e col polso agitato si abbandonò al piede di un grosso pino… preda improvvisa – dopo tanta esaltazione – di un profondo malumore, di un abbattimento assai prossimo alla disperazione.
Quando, rimessi abbastanza a posto i nervi, si alzò per proseguire la passeggiata, la nuca gli tremava vivamente di modo che, pur così giovane, tentennava la testa esattamente come a suo tempo il vecchio Hans Lorenz. Accolse con affetto l’apparizione del defunto nonno, la quale non gli riuscì punto spiacevole, e si compiacque di imitare il dignitoso sostegno del mento col quale il vegliardo aveva cercato di frenare il tremito del capo, suscitando il compiacimento del ragazzo di allora.
Salì più in alto, a zig zag. Attirato da un suono di campanacci, trovò poi anche il gregge che pascolava accanto a una capanna di tronchi d’albero, il cui tetto era gravato di pietre. Due uomini barbuti gli vennero incontro, con la scure sulla spalla, e quando gli furono vicini si separarono. “Be’, stai bene e tante grazie” disse l’uno con voce gutturale profonda e, spostata la scure sull’altra spalla, cominciò a scendere a valle fra gli abeti con passo crocchiante. Aveva un suono strano nella solitudine, quello “stai bene e tante grazie” e la mente di Castorp frastornata dalla salita e dal canto ne era rimasta colpita come in sogno. Egli ripeté le parole a voce bassa sforzandosi di imitare il dialetto gutturale, impacciato e solenne del montanaro, e salì ancora un pezzo oltre la baita, poiché teneva a raggiungere il limite della zona alberata; ma un’occhiata all’orologio lo fece desistere da questo proposito.
Seguì a sinistra, in direzione del villaggio, un sentiero che procedeva in piano e poi scendeva. Entrò così in un bosco di conifere d’alto fusto e, mentre lo attraversava, riprese persino un po’ a cantare, sia pure con cautela, e nonostante che nella discesa le ginocchia gli tremassero più stranamente di prima. Ma uscendo dal folto si trovò di sorpresa davanti a un magnifico scenario aperto, a un paesaggio intimamente unito entro una grandiosa inquadratura di pace.
Un ruscello alpestre in un letto piano e sassoso scendeva dalle alture di destra, si riversava spumeggiando su massi disposti a scaglioni e scorreva poi più tranquillo a valle, attraversato da un pittoresco ponticello col rustico parapetto di legno. Il terreno azzurreggiava di campanule d’una invadente pianta a cespi. Severi abeti, di altezza enorme e regolare, si levavano singoli o a gruppi dal suolo della gola e dai versanti, e uno di essi, radicato sul pendio di fianco al torrente, attraversava la scena inclinato e bizzarro. Uno scrosciante isolamento regnava sul luogo bello e solitario. Al di là del ruscello Castorp scorse una panchina.
Attraversò il ponticello e si sedette per godere la vista delle cascatelle, della schiuma fuggente, e ascoltare il rumore idillico e loquace, monotono e pur intimamente mutevole; Castorp amava lo scroscio dell’acqua come la musica, e forse più. Ma si era appena accomodato allorché gli si manifestò un’emorragia nasale così improvvisa che non poté evitare del tutto di insudiciarsi l’abito. L’epistassi era violenta, ostinata e lo tenne impegnato per una buona mezz’ora costringendolo a correre continuamente tra la panca e il ruscello, a sciacquare il fazzoletto, ad aspirare l’acqua e a distendersi sul sedile di legno, il panno umido sul naso. Così stette coricato finché l’emorragia cessò… rimase quieto, le mani incrociate sotto la testa, le ginocchia sollevate, gli occhi chiusi, le orecchie piene dello scroscio, senza malessere, anzi piuttosto calmato dall’abbondante salasso e in curioso stato di vitalità attenuata; infatti dopo un’espirazione non sentiva per un po’ il bisogno di aria nuova, ma con le membra immobili lasciava tranquillamente che il cuore facesse una serie di pulsazioni, finché, fiacco e in ritardo, traeva di nuovo un sospiro superficiale.
Ed ecco, a un tratto si sentì trasportato in quella precoce situazione che era l’origine di un sogno, sognato alcune notti prima, e modificato secondo recentissime impressioni… Ed era trasferito in quella lontananza di spazio e di tempo così intensamente, così al completo, fino all’annullamento del luogo e dell’epoca, da far pensare che lassù, sulla panchina in riva al torrente, giacesse un corpo inanimato, mentre il vero Hans Castorp fosse lontano, in anni e ambiente d’altri tempi, e precisamente in una situazione, per quanto semplice, pur ardita e inebriante.
Aveva tredici anni, frequentava la terza del ginnasio, ragazzo in calzoni corti, e stava discorrendo nel cortile della scuola con un altro ragazzo, press’a poco della stessa età, di un’altra classe… Il colloquio che Castorp aveva provocato piuttosto spontaneamente, pur non potendo essere altro che brevissimo, dato l’argomento pratico e molto limitato, lo empiva di gioia. Era l’intervallo tra la penultima e l’ultima ora, fra una lezione di storia e una di disegno nella classe di Castorp. Nel cortile lastricato con formelle rosse e separato dalla strada mediante un muro coperto di scandole e interrotto da due portoni, gli scolari passeggiavano in fila su e giù e formavano gruppi o si appoggiavano semiseduti agli aggetti smaltati dell’edificio. Nel brusio un insegnante col cappello a cencio sorvegliava quella baraonda e dava ogni tanto un morso a un panino col prosciutto.
Il ragazzo col quale Castorp stava parlando si chiamava Hippe, e di nome Pribislav. Ed era strano che la erre di questo nome si dovesse pronunciare come sc seguita da i: Pscibislav; e questo nome insolito s’intonava alla figura del ragazzo, che non era comune, ma decisamente un po’ inconsueta. Hippe, figlio di uno storico e professore di liceo, noto perciò come alunno modello già una classe più avanti di Castorp, benché probabilmente non più vecchio di lui, veniva dal Mecklenburgo ed era l’evidente prodotto di un’antica mescolanze di razze, di una fusione di sangue germanico con sangue slavo… o viceversa. Biondo era, e sul cranio tondo portava i capelli cortissimi, ma gli occhi, d’un grigio celeste o d’un celeste grigio – d’un colore un po’ incerto e ambiguo, il colore, ad esempio, d’una montagna lontana – avevano un taglio particolare, sottile e, a rigore, persino un po’ obliquo, con gli zigomi, immediatamente sotto, sporgenti e molto rilevati: un viso che nel caso suo non lo sfigurava affatto, anzi riusciva piacente, che però era bastato a procurargli da parte dei compagni il nomignolo di “chirghiso”. E poi Hippe portava già i calzoni lunghi e la giubba accollata, tesa sul dorso, turchina, sul cui colletto c’era di solito un po’ di forfora.
Ora, fatto è che da parecchio tempo Castorp aveva rivolto la sua attenzione a questo Pribislav: lo aveva scelto nel brulichio noto ed ignoto del cortile scolastico, si interessava a lui, lo seguiva con gli occhi, o vogliamo dire: lo ammirava? In ogni caso lo guardava con eccezionale simpatia e già per via, mentre andava a scuola, pregustava il piacere di osservarlo in compagnia dei suoi compagni di classe, di vederlo parlare e ridere e di distinguerne fin da lontano la voce, piacevolmente velata, fioca, un po’ rauca. Ammesso che non esisteva una ragione sufficiente di quella simpatia, se proprio non si volesse tener conto del nome pagano, della distinzione di primo della classe ( che però non poteva avere assolutamente importanza) o infine degli occhi chirghisi – occhi che talvolta a un certo sguardo di traverso, lanciato senza intenzione di vedere, si coprivano dolorosamente come d’un velo notturno -, Hans Castorp non si curava di giustificare spiritualmente le sue sensazioni o addirittura di darne all’occorrenza una definizione. Amicizia non poteva essere, visto che non “conosceva” Hippe. Ma in primo luogo non c’era alcuna necessità di dar loro un nome, poiché non c’era da pensare che un giorno o l’altro se ne potesse far parola: egli non vi era tagliato e non ne aveva neanche il desiderio. In secondo luogo un nome è, se non una critica almeno una determinazione , cioè l’inserimento in un mondo noto e consueto, mentre Castorp possedeva l’inconscia convinzione che un bene interiore come questo doveva essere preservato una volta per sempre da siffatta determinazione e collocazione.
Ma, bene o mal motivate, quelle sensazioni così lontane dal nome e dalla comunicazione avevano in ogni caso tanta vitalità che Castorp le nutriva da ormai quasi un anno – da un anno all’incirca, poiché non era possibile rintracciarne l’inizio -, prova, se non altro, della sua fedeltà e costanza di carattere, quando si consideri quale tempo enorme rappresenti un anno a quell’età. Nelle indicazioni della qualità del carattere è sempre compreso purtroppo un giudizio morale, sia di elogio, sia di biasimo, benché tutte abbiano due lati. La fedeltà di Hans Castorp, della quale d’altronde non era affatto orgoglioso, consisteva, senza che la si voglia valutare, in una certa lentezza e indolenza e immobilità di spirito, in una fondamentale aura conservatrice che gli faceva sembrare condizioni e rapporti di affezione e di continuità tanto più rispettabili quanto più lunga era la loro durata. Tendeva anche a credere nella infinita durata dello stato d’animo in cui si trovava, lo apprezzava appunto per ciò e non aveva affatto il desiderio che mutasse. Così si era assuefatto alla sua muta e lontana relazione con Pribislav Hippe e in fondo la considerava una durevole istituzione della propria vita. Amava le emozioni che ne conseguivano, come l’ansiosa attesa oggi lo incontrerò? Mi passerà accanto? Chi sa se mi guarderà? – e i silenziosi, teneri appagamenti che il suo segreto gli donava, e persino le delusioni che ne derivavano, e la più grande gli toccava quando Pribislav “era assente”: allora il cortile della scuola era desolato, la giornata priva di sapore, ma la confortante speranza rimaneva.
Questo stato di cose durò un anno, finché giunse a quel culmine bizzarro, poi durò un secondo anno grazie alla fedeltà conservatrice di Castorp, e poi cessò… ma senza che egli avvertisse l’allentarsi e il dissolversi dei vincoli che lo legavano a Pribislav Hippe, più di quanto non ne avesse notato il sorgere. Oltre a ciò Pribislav, a causa del trasferimento di suo padre, abbandonò la scuola e la città; ma Castorp quasi non se ne accorse; già prima lo aveva dimenticato. Si può dire che la figura del “chirghiso” era entrata inavvertitamente dalle nebbie nella sua vita, si era fatta sempre più chiara e tangibile fino al momento della massima vicinanza e concretezza nel cortile, era rimasta un po’ in primo piano, poi si era ritirata a poco a poco fino a svanire, ancora nelle nebbie, senza rimpianto.
Quel momento però, la situazione ardita e bizzarra, che ora gli si riaffacciò alla mente, il colloquio, un vero colloquio con Pribislav Hippe ebbe luogo nel modo seguente. Nell’intervallo prima dell’ora di disegno Castorp si accorse di non avere con sé la matita. Ciascuno dei suoi compagni aveva bisogno della propria; ma tra gli allievi di altre classi c’erano conoscenti ai quali egli la poteva chiedere. Se non che il più noto gli parve che fosse Pribislav questi era il più vicino, che di lui si era già tanto occupato in silenzio, e in uno slancio gioioso deliberò di approfittare dell’occasione (occasione la chiamò) e di chiedere una matita a Pribislav. Abbagliato com’era da una strana disinvoltura non si avvide, o non se ne diede pensiero, che stava per compiere qualcosa di stravagante, dato che in realtà non conosceva Hippe. Sicché in mezzo alla calca nel cortile ammattonato si fermò davvero davanti a lui e disse:
“Scusa, mi puoi prestare una matita?”
Pribislav lo guardò con gli occhi da chirghiso sopra gli zigomi sporgenti e gli rispose con quella sua voce piacevolmente rauca, senza stupore o almeno senza mostrare stupore.
“Volentieri” disse. “Ma dopo l’ora me la devi restituire senza fallo. “Ed estrasse la sua matita, una matita d’argento con un anello che bisognava spingere in su affinché il lapis rosso sporgesse dal tubo metallico. Gli spiegò il semplice meccanismo, mentre tutti e due vi chinavano la testa.
“Ma bada di non romperla!” aggiunse.
Che diavolo? Pensava forse che Castorp avesse intenzione di non restituirla o di non averne la debita cura?
Poi si guardarono sorridendo e, poiché non c’era altro da dire si volsero le spalle e se ne andarono.
E fu tutto. Ma Castorp non era mai stato contento in vita sua come in quell’ora di disegno, mentre adoperava il lapis di Pribislav Hippe… con la previsione, oltre a tutto, di restituirlo poi al suo proprietario, dono fuori programma e ovvia e naturale conseguenza di ciò che precedeva. Si prese la libertà di temperare un po’ il lapis e di quelle schegge verniciate di rosso ne conservò tre o quattro quasi un anno intero in un cassetto interno della scrivania… e nessuno che le avesse viste ne avrebbe potuto immaginare l’importanza. La restituzione avvenne in forma semplicissima, come Castorp desiderava; e anzi ci teneva… indifferente com’era e viziato dall’intimo contatto con Hippe.
“ To’” disse. “Mille grazie.”
Pribislav non disse nulla, controllò soltanto in fretta il meccanismo e s’infilò la matita in tasca…
Poi non si erano parlati mai più, ma quell’unica volta era pur avvenuto grazie allo spirito intraprendente di Castorp…
Egli spalancò gli occhi, sbalordito dalla profondità della sua lontananza. “Devo aver sognato!” pensò. “Sì, era Pribislav. Da un pezzo non ho più pensato a lui. Dove saranno andate a finire quelle schegge? La scrivania è nel solaio, in casa dello zio Tienappel. Ci devono essere ancora nel cassetto interno a sinistra. Io non le ho mai tolte di lì. Non le ho prese in considerazione nemmeno quanto occorreva per buttarle via… e’ stato proprio Pribislav in persona. Non avrei mai pensato di vederlo così chiaramente. Strano, come le somiglia… a quella quassù! Per questo dunque mi interesso tanto a lei? O forse: per questo mi sono interessato tanto a lui? Assurdo! Una simpatica assurdità. Ma ora devo scendere, e in fretta!” Invece rimase ancora disteso, a riflettere e ricordare. Poi si alzò. “Be’, stai bene e tante grazie” disse e, mentre sorrideva, gli occhi gli si empirono di lacrime. Fece per incamminarsi, ma col cappello e il bastone in mano si sedette ancora un momento doveva essersi accorto che le ginocchia non lo reggevano. “Oilà!” pensò. “Temo di non farcela. E alle undici in punto devo essere nella sala da pranzo per la conferenza. Qui le passeggiate hanno un lato bello, ma, a quanto pare, presentano anche difficoltà. Però qui non posso restare; sarà che stando coricato mi sono un po’ indolenzito, il moto mi rimetterà in sesto.” E di nuovo provò a stare ritto e, siccome concentrò gli sforzi, ci riuscì. (…) (Brano tratto dal libro “La montagna incantata”, Casa Editrice Corbaccio,Milano, ultima ristampa: marzo 2009, traduzione di Ervino Pocar.) Thomas Mann
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