QUATTRO Juan Goytisolo
Nonostante evitasse il faccia a faccia nella penombra della sera, gli faceva visita appena si assopiva.
“Sarò spietato: siete nati per perpetuare l’oblio. Il dolore della perdita si attutisce, impallidisce il ricordo, i sentimenti e gli affetti perdono forza e intensità. È la legge del mondo che si suppone io abbia creato e a essa siete sottomessi. Non ci sono figli o spose inconsolabili. I tuoi cari verseranno qualche lacrima per te ma la tua immagine si scioglierà come neve al sole.
Già non pensi a lei ogni giorno e hai bisogno di guardare una sua fotografia per ricordare com’era. Tutto sbiadisce, si oscura e si spegne. È la mia unica manifestazione di bontà. Poiché se quelli della tua incorreggibile specie disponessero della facoltà di conoscere il futuro, credi che procreerebbero figli, nipoti e pronipoti a tal punto estranei da non comprenderne il comportamento e restarne sgomenti? Se il padre del padre di colui che ti mise al mondo avesse potuto immaginare cosa saresti diventato e cosa avresti scritto di lui, stai sicuro che non avrebbe ottemperato al suo dovere, sarebbe sceso dal treno in marcia. Ciò che sei oggi lo avrebbe inorridito. Per questo vi spedisco a ingrassare i vermi: per risparmiarvi lo spettacolo di una discendenza opposta a quella che sognaste …”
In cielo non c’erano stelle o forse erano coperte dalle nubi, l’oscurità lo avvolgeva, il giardino rimaneva silenzioso e si sentiva solo il pianto di un bambino nella casa vicina, probabilmente all’angolo del vicolo. Si avvolse nella coperta a quadri e lo lasciò parlare.
“Chi mi immagina felice, circondato da angeli e fedeli, ignora che il mio unico diversivo sono le gesta dei malvagi. Nessuna perversità mi è estranea. Vi deliziate adesso davanti al televisore con le immagini della guerra, dei corpi mutilati e della barbarie della soldataglia, senza sapere che io ne godo dal giorno in cui mi avete ideato. Vi ingannate come poveri illusi con il parto della vostra mente!
So che non credi in me, ma nulla puoi contro coloro che in me credono. Esisto grazie a loro e così sarà finché vivranno.
Quello che dico vale per te e per il tuo amato Tolstoj, anche se lui non perse mai del tutto la sua fede contadina e mi stemperò in una sorta di entità generica e in fin dei conti blanda. Fu la sua grandezza: l’intuizione o il dubbio che lo colse alla stazione di Astapovo su un vagone di terza classe. Voleva andare a sud, al di là delle Montagne Bianche e, nella sua brama di un finale coerente, morì senza raggiungerle …
In quanto a te …”.
Non c’è grande differenza tra noi due. Anche se tu fosti generato da una goccia di sperma mentre io fui creato a colpi di speculazione e concili, qualcosa di primordiale ci unisce: l’inesistenza. Siamo chimere o spettri sognati da qualcun altro, chiamalo caso, contingenza o capriccio. Tu nascesti morto e già appartieni al regno delle ombre. Io sono il prodotto di millenni di querelle bizantine e cesserò di esistere il giorno in cui l’ultimo dei tuoi simili smetterà di credere in me. Ciascuno dei miei attributi o qualità immaginarie furono motivo di dispute, emendamenti, precisazioni, scontri mortali. Sono Uno, sono Trino, sono il Misericordioso? Oppure un mostro spietato, assetato di sangue, spettatore impavido delle vostre crudeltà e angherie? Chi fa di me la Bontà Suprema subito si sente oppresso dal problema dell’inclemenza e della brutalità del mondo. Che diavolo ci faccio lassù se non muovo un dito per impedirla? Mi sono forse concesso vacanze interminabili o sono cieco, insensibile e inutile? Impossibile sfuggire alla contraddizione per quanto la mia invenzione si sia perfezionata con il passare dei giorni. Se non sono quell’Essere iracondo che mette a ferro e fuoco ciò che ha creato e si impone con il terrore nella coscienza delle sue creature, cosa rimane di me? Un fantasma anemico e debole, un’idea già vaga che si intorbida e sfuma. In principio, quando cominciaste a plasmare la mia esistenza immaginaria, le vostre teorie e congetture mi divertivano. I sostantivi che mi definiscono e gli aggettivi che li completano rafforzavano la mia entità e il suo peso specifico. Sarò franco con te. I ritocchi e le aggiunte alla mia persona ne risvegliavano l’ingordigia, mi tenevano in uno stato di perturbante ansietà. Questo triangolo equilatero con al centro un occhio scrutatore, questo sole triangolare adorno di nubi non soddisfacevano le mie aspettative. Perché Trino e non Quadruplo? La madre di mio Figlio non riuniva forse in sé i requisiti di una vera divinità? E, già che sognavate, io, il Sogno, perché non potevo essere un Esagono o, meglio ancora, un Decaedro con tante facce e angoli quanti i comandamenti scolpiti nelle Tavole della Legge che consegnai a Mosè? Mi vedevo come un blocco cristallino e prismatico, come gli occhi delle mosche capaci di studiare gli esseri e le cose mettendoli a fuoco da punti opposti. Ti confesso la mia invidia nei confronti degli dèi pagani: avevano capacità limitate, ma vivevano alla luce del sole passioni e odi, non si prendevano troppo sul serio, vi mentivano ma si lasciavano corrompere e placare. A me, invece, negaste l’umorismo e il riso. Sono solenne come i vostri autocrati o come Napoleone nel giorno dell’incoronazione. Se l’inferno è uno stato psichico, come sostiene ora questo vecchio grottescamente incapsulato dentro una bolla di plastica in movimento, che cosa ne è stato della bella e prodigiosa visione dantesca del fuoco, dei calderoni e delle fiamme nelle quali si consumava in eterno il reprobo? Cancellare tutto questo in un solo colpo significa privarmi di una parte fondamentale di me stesso, ridurre i miei poteri di monarca assoluto a una specie di repubblica costituzionale. Se i miei rivali di altri credi conservano i loro, mi annienteranno irrimediabilmente, poiché la mia autorità si sostiene grazie all’incentivo segreto dell’intimidazione. Conosco bene la faccenda di porgere l’altra guancia, il sacrificio del Figlio e tutte le altre leggende misericordiose destinate a mascherare la crudezza del primo racconto, come quel giardino stucchevole e appartato che coltiva il tiranno insieme al filo spinato e alle torri di guardia dei suoi campi di sterminio. Ma niente di tutto ciò può compensare la privazione delle mie qualità e attributi migliori. La condotta della vostra specie obbedisce a correnti alterne di sottomissione abietta e bramosie di trasgressione. Ti saresti arreso tu alla bellezza insulsa di un angelo, senza cranio virile, la mascella volitiva, le labbra voraci, il corpo muscoloso, al cui potere suggestivo soggiacesti ciecamente per tutta la vita?”
“Quando animali selvatici vivevate nelle caverne, camminando già su due zampe, ma barcollando e rimpiangendo forse il vostro sostegno plantigrado, cosa vi rendeva tanto diversi dagli altri primati?
Il vostro rozzo intelletto si applicava solo a soddisfare i bisogni elementari, raccogliere radici e frutta, cacciare e sbranare ogni specie inferiore o semplicemente più debole che capitasse tra quelle vostre estremità pelose che sarebbe ingiurioso chiamare mani.
Dominati dal calore delle femmine, facevate irruzione nelle grotte dove si rifugiavano e, per accoppiarvi con loro, affondavate rozze armi di pietra nel torace o nel cranio dei loro maschi, li squartavate e ne inghiottivate testicoli e verghe allo scopo di accrescere la vostra potenza, come ancora fanno alcuni affezionati nostalgici con i testicoli, cucinati a puntino, di tori indomiti (l’atavismo perdura per quanto civilizzati e saggi vi crediate).
Non so se avevate davvero scoperto il segreto del fuoco e celebravate vittorie e conquiste con grugniti e salti attorno a un fuoco o se invece l’ho visto in uno dei vostri film su Tarzan o i dinosauri: io non era ancora stato concepito dalle vostre menti. La mia invenzione tardò milioni di anni.
Ma da quando mi avete creato onnipotente ed eterno, vi contemplo con sguardo retrospettivo e riesco a misurare i progressi e i regressi, la lotta tra la razionalità e l’eredità animale. A essere sincero, non vedo una grande differenza tra i vostri appetiti da predatori e quelli che manifestavate appena usciti dalla Caverna.
I centomila anni luce trascorsi da allora (vorrai perdonare l’inesattezza dei calcoli) non vi hanno cambiati, ancora ballate le vostre danze rituali intorno alle fiamme, triturate le ossa dei vostri nemici e copulate con le loro divinità in calore: secoli e secoli di cultura e istruzione svaniti tra le ceneri dell’ignizione e il crollo di grattacieli.
Anche tu, come il giovane Tolstoj, hai visto i massacri e le devastazioni della Cecenia.
Dimmi: cos’è mutato sulla terra che, stando alla leggenda, creai in una settimana?
Chiudi un istante gli occhi: solo il paesaggio montagnoso e agreste del Caucaso, così come quello che presagisci dietro queste cime che ammiri dalla tua terrazza, serba tutto il suo splendore per te. Corpi sacrificati accumulano polvere e rancore nelle sue valli profonde e nel Tetto del Mondo risuonano le mie risate”. Brano tratto da Oltre il Sipario. Traduzione di Chiara Vighi. L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, Settembre 2004. Juan Goytisolo nacque a Barcellona nel 1931, visse a Paris dal 1957. In una prima fase della sua produzione narrativa ha dato un contributo originale alla fase neorealista e di impegno sociale della narrativa spagnola degli anni '50, con elementi tratti dall'école-du-régard francese: Giochi di mano (Jeugos de mano, 1954), Fiestas (1958), Lutto in paradiso (Duelo en el paraíso, 1955), La risacca (La resaca, 1958), Fine di festa (Fin de fiesta, 1962). In una seconda fase ha adottato procedimenti sperimentali, svolgendo una critica feroce ai miti inveterati della Spagna, con una visione che si richiama ai valori della cultura arabo-ispanica delle origini: Segni d'identità (Señas de identidad, 1966), e poi soprattutto: Rivendicazione del conte don Julian (Reivindicación del Conde don Julian, 1970), Juan senza terra (Juan sin tierra, 1975), Makbara (1979).
|