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Sagarana DUECENTO HIROSHIMA E NAGASAKI


- Brano tratto dal saggio Chernobyl -


Francesco M. Cataluccio


DUECENTO HIROSHIMA E NAGASAKI



 

Il nome di Chernobyl divenne famoso in tutto il mondo dopo il 26 aprile del 1986 quando, nella locale Centrale elettronucleare, si verificarono due conseguenti esplosioni che provocarono l’immediata morte di 31 persone e fecero scoperchiare il tetto disperdendo nell’atmosfera grandi quantità di vapore contenente particelle radioattive. Durante l’esecuzione di un test di simulazione di guasto al sistema di raffreddamento del reattore numero 4, per un errore degli operatori, guidati dall’ingegnere Valerij Chodemčuk, le barre di uranio del nocciolo del reattore si surriscaldarono per davvero (raggiungendo un picco di valore pari a 100 volte quello stabilito) provocando la fusione del suo cuore. Il reattore nucleare era del tipo RBNK-1000, costruito con grafite e alimentato a biossido di uranio arricchito. La sua caratteristica era di possedere un “coefficiente di vuoto positivo”: se aumenta la potenza o diminuisce il flusso dell’acqua di raffreddamento del sistema, c’è un aumento della produzione del vapore nei canali di alimentazione. Così, i neutroni, che vengono assorbiti dall’acqua più densa, producono un aumento della fissione nucleare nell’alimentazione del sistema e quindi un aumento di produzione di energia. Se però la potenza cresce, aumenta di conseguenza la temperatura nell’alimentazione e questo determina come effetto la riduzione del flusso di neutroni, riportando quindi il sistema a livelli di potenza accettabili. Ad alti livelli di energia, in situazioni normali, la temperatura ha un effetto dominante e non si verificano oscillazioni di potenza tali da portare a surriscaldamento. Ma se l’energia scende a livelli inferiori al 20% rispetto al massimo previsto, diventa dominante il “coefficiente di vuoto positivo”: il reattore diventa instabile e tende a produrre un’improvvisa ondata di energia. Ciò che avvenne nella Centrale di Chernobyl provocò un’esplosione con rilascio di radioattività duecento volte superiore alle bombe di Hiroshima e Nagasaki messe insieme.
Fu un tipico man-made disaster, un incidente provocato interamente dall’uomo: un’inadeguata valutazione dell’esperimento e violazioni rispetto alle prescrizioni tecniche di esercizio dell’impianto; quel test era pericoloso e altri impianti russi si erano rifiutati di eseguirlo, ritenendolo troppo rischioso; i tecnici che avrebbero condotto il test provenivano da Mosca e il loro responsabile era un ingegnere elettrotecnico non esperto di impianti con reattore; lo stesso piano del test era dubbio e scarse erano le misure di sicurezza, che erano soprattutto di procedura formale.
Si levò in pochi giorni un’immensa nube, composta da tonnellate di materiale radioattivo che il vento portò in tutta l’Europa e raggiunse il Mediterraneo nei successivi 14 giorni, riportando a terra con la pioggia le particelle radioattive (che possono essere rilevate ancora oggi con un contatore Geiger a circa 10 centimetri sotto la superficie). Per molti giorni le autorità sovietiche negarono la portata della catastrofe, anche se un laboratorio di ricerche nucleari in Danimarca e i satelliti spia statunitensi avevano annunciato, già il 28 aprile, “un incidente di enorme portata”.
I soccorsi mostrarono da subito impreparazione e improvvisazione. I pompieri a disposizione della Centrale erano 14. Si gettarono letteralmente nel fuoco, senza alcuna tuta di protezione. Le radiazioni bruciarono rapidamente tutte le loro cellule vitali. Cinque ore dopo arrivarono i rinforzi: 250 uomini disponibili, 69 operativi. Moriranno tutti. L’incendio continuò ad autoalimentarsi e, il 4 maggio, il nucleo del reattore, ormai completamente fuso, iniziò a sprofondare nella terra, rischiando di far entrare in contatto la grafite in fusione con la falda acquifera sottostante e provocare un’esplosione termonucleare. Per evitare questo, 400 minatori della regione del Donets’k, anch’essi inconsapevolmente votati alla morte, furono costretti a scavare sotto la Centrale un tunnel per portare dell’azoto liquido che, dopo l’evaporazione, potesse saldare la terra con il cemento e formare una sorta di cuscino per isolare il reattore. Tornavano su, dopo turni di tre ore di immersione in una stretta galleria, privi delle maschere e a torso nudo per il caldo irrespirabile, investiti da livelli radiazione impensabili, e si sentivano subito male …
Per due settimane, dall’alto, 1.800 operai ed elicotteristi ricoprirono il nocciolo fuso, con sabbia a base di boro, silicati, dolomia e piombo, finché l’emissione di vapore radioattivo cessò sabato 10 maggio: “Si facevano quattro o cinque voli nell’arco delle 24 ore a un’altezza di 30 metri sopra al reattore, con una temperatura nella cabina che raggiungeva i 60 gradi. Ci si può immaginare cosa succedeva di sotto, quando venivano lanciati i sacchetti di sabbia … La radioattività raggiungeva i 1.800 röntgen per ora (50 röntgen è la dose mortale). I piloti avevano dei malori già durante il volo. Per aggiustare la mira e colpire il bersaglio, cioè il cratere infuocato della Centrale, sporgevano la testa dalla carlinga e calcolavano a occhio. Non c’era altro sistema …”, ha raccontato Sergej Vasil’evic Sobolev, dell’Associazione “Uno scudo per Chernobyl”. Il 2 ottobre, durante una di queste operazioni, un elicottero MI-8 urtò il braccio di una gru della Centrale e si schiantò al suolo. l’incidente avvenne sotto gli occhi di una telecamera che documentò il precipitare di quel goffo uccello meccanico.
Per portar via le macerie si cercò dapprima di utilizzare dei robot tedeschi, giapponesi e sovietici. Ma i loro sistemi elettronici andavano in tilt rapidamente a causa del livello estremamente elevato delle radiazioni. Fu quindi presa la decisione di usare gli uomini: dei “robot biologici”. Una sirena ululava all’inizio e alla fine di ogni intervento, che doveva durare meno di un minuto. Quanto bastava per ricevere una dose di radiazioni pari, se non superiore, al massimo ammesso per l’intera durata della vita umana.
Il reattore distrutto fu, nel mese di novembre, ricoperto da una struttura di contenimento in bario, chiamata “Sarcofago”: una vera e propria piramide del XX secolo, progettata per resistere 30 anni (ma già nel 1995 venne rilevato che la struttura presentava fratture e crepe per 250 metri quadrati). C’è un proverbio ucraino, secco e complicato, che può essere forse tradotto con quello che mia nonna ripeteva in continuazione, con tono fatalistico: “Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi!”.
Dopo 36 ore dall’incidente iniziò l’evacuazione dell’area di Chernobyl della popolazione residente. Circa 350.000 persone furono portate via dalla città, da Pripjat’ e dalle campagne adiacenti. In una Zona di 30 chilometri quadrati di diametro non rimase più nessuno. Ma ormai il danno era stato irrimediabilmente fatto: migliaia di persone, profondamente contaminate, avevano già cellule impazzite, il sistema genetico in subbuglio, la tiroide compromessa. I feti delle donne incinte non avevano alcuna speranza, così come molti bambini.
Sui bambini malati, senza capelli e con grandi occhi disperati, c’è un’ampia e terrificante quantità di fotografie (molto forti sono quelle, ad esempio, di Pierpaolo Mittica del 1998). Ma la più efficace rappresentazione di questa che, oltre la retorica, è una tragedia nella tragedia, è frutto della fantasia che si esprime attraverso i disegni in bianco e nero di Paolo Parisi, nel “graphic novel” Chernobyl: un reportage di rara misura e sensibilità non soltanto visiva.
Un documento unico della vicenda di Chernobyl in presa diretta è il libro di foto del fotoreporter dell’agenzia Novosti, Igor Kostin (1936), originario della Moldavia, chiamato allora Bessarabia, figlio di una famiglia abbastanza benestante rovinata dalla guerra e dal sistema sovietico: “Mi ricordo di esser cresciuto tra le vigne, bruciato dal sole, all’ombra dei noci, dal mattino alla sera. (…) Ora sono convinto che devo la mia buona salute alle noci e all’uva della mia infanzia. Se ho resistito alle forti dosi di radioattività di Chernobyl, lo devo al paese dei miei genitori, a quello che mangiavamo, a tutto quello che ci circondava e ci proteggeva”.






Brano tratto dal libro Chernobyl, Sellerio editore, Palermo, 2011.)




Francesco M. Cataluccio

Francesco M. Cataluccio ha studiato Filosofia a Firenze e Letteratura a Varsavia. Dal 1977 al 1986 ha vagabondato per l'Europa centrale, soggiornando a lungo in Polonia, dove, nonostante tutto, si è trovato benissimo. Tornato in Italia, e stabilitosi a Milano, ha fatto svariati lavori (anche l'insegnate liceale e l'archivista storico della Breda). Con la caduta del Muro, nel 1989, la sua vita è cambiata: è stato assunto come redattore alla casa editrice Feltrinelli. Da allora ha lavorato per vent'anni nell'editoria, dirigendo la Bruno Mondadori e poi la Bollati Boringhieri. Complice l'insonnia, e nei ritagli di tempo, ha scritto numerosi saggi sulla cultura e la storia della Polonia e del Centro Europa. È stato, tra l'altro, curatore delle opere di Witold Gombrowicz (presso Feltrinelli) e delle opere complete di Bruno Schulz (Einaudi, Torino 2001 e Siruela, Madrid 2009). Ha pubblicato: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi, Torino 2004; tradotto in spagnolo e polacco); Che fine faranno i libri? (nottetempo, Roma, 2010); Vado a vedere se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio, Palermo 2010), Chernobyl (Sellerio 2011). È collaboratore del "Sole24ore" e, quando può, abita a Venezia.





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