PASSEGGIATA IN CITTà Michele Pandolfo
Questo racconto è frutto della mia fantasia. Lo scrittore triestino Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz, morì il 13 settembre 1928 all’ospedale di Motta di Livenza (TV).
Trieste, 29 marzo 1929
“Signor Schmitz, la sèndi qui?” [1], mi domandò l’autista. “Sì, lasciami qua Guido!”, risposi distratto. Così cominciò la mia passeggiata, aprendo lo sportello dell’automobile e appoggiando il piede in Piazza Goldoni: girando su me stesso, mi voltai confuso perché non sapevo ancora bene dove volessi andare. Guardai la galleria e la scalinata che la sovrastava. Mi ridestai, e da lì presi Corso Italia e cominciai a camminare lentamente, appoggiandomi in maniera pesante, quasi sofferta, al mio nuovo compagno. Livia me lo regalò il giorno in cui lasciai finalmente l’ospedale di Motta di Livenza dopo mesi di sofferenze: aveva un’impugnatura color argento, veniva da Firenze perchè glielo aveva mandato Letizia, come avrei scoperto in seguito: “Con questo ti muoverai meglio” mi suggerì Livia. Osservai le vetrine di alcuni negozi, camminai piano piano e arrivai a Piazza della Borsa. Passeggiando lentamente vidi tanti volti noti, forse troppi. Tolto il cappello e alzato lo sguardo, mi accorsi che per me era tutto nuovo, mi affidavo completamente al mio bastone. Mi sentii però quasi assalito, stretto in tanti saluti, volli scappare: vidi il teatro di fronte a me e ricordai le tante serate trascorse lì dentro con il mio povero Elio. Oppresso, vidi dopo lungo tempo piazza Unità: l’immagine di una splendida cartolina, sempre uguale nel corso del tempo, ritornò ai miei occhi. Senza ben rendermene conto, mi avvicinai alla loggia e mi avviai verso la zona piccola e stretta delle vecchie librerie e degli antiquari. Uscendo da una botteguccia, dove cercai un piccolo pensiero per Livia, mi rivolsi a destra verso Città Vecchia, uno degli angoli più oscuri e più amati della mia Trieste, percorsi via Cavana e arrivai fino a Piazza Hortis. Qui mi fermai, stanco, sedetti sul basso muretto grigio e guardai la gente che passava. Mi trovai di fronte alla Biblioteca Civica: quante volte, prima del matrimonio, quando finivo di lavorare, venivo e mi fermavo a leggere solo e di nascosto da tutti. Città Vecchia conserva tanti dei miei ricordi più belli che mi tornano alla mente lontani e confusi. Pensando, mi trovai in Piazza Venezia, di fronte a me via del Lazzaretto Vecchio, quella che qualcuno definì come una delle vie più tristi di tutta Trieste. Voltai alla mia destra e, attraversata la strada, mi affacciai alle rive. Costeggiai a passo lento il mare e giunsi presso il molo Audace, lo percorsi tutto e arrivai sino al luogo dove era giunta l’italianità a Trieste, toccai la grande ancora di bronzo. Lì mi sedetti sull’unica panchina rimasta libera e mi misi a osservare il mare, increspato da lievi ma costanti raffiche di vento. Dopo un po’ di tempo mi alzai, ripercorsi il molo, girai a sinistra e arrivai in Piazza Ponterosso, dove, sempre maestosa, sorgeva la chiesa di Sant’Antonio. Mi volsi e osservai l’intero orizzonte che giungeva lì dal mare. Appagato lo sguardo, mi ridestai: la via si faceva sempre più affollata. Guardai l’orologio e mi accorsi che ero in ritardo di oltre mezz’ora all’appuntamento che avevo dato al povero Guido. Attraversai le vie ordinate del Borgo Teresiano per arrivare in Piazza Oberdan, nei pressi della stazioncina del tram. Accelerai il passo più che potei, ma erano sforzi inutili. Vidi l’automobile ferma dall’altra parte della strada e la raggiunsi.
“Dove la porto signor Schmitz?” mi chiese Guido con gentilezza. “Scusami il ritardo, torniamo pure a villa Veneziani” gli risposi. “Ma non doveva andare in fabbrica oggi?”, chiese di nuovo. “Ci andrò domani, il primo giorno di lavoro può attendere, e poi tanto oramai, a quest’ora, non ci sarà più nessuno. Portami a casa!”. Lo vidi esitare, come se non avesse ben capito i miei ordini. Allora alzai la voce: “Guido, cos’ te gà? Te me porti casa? Movite! Go’ furia!”[2]. “Subito!” disse e mi ubbedì.Così tornai a casa e, dopo aver salutato, mi congedai presto da tutti e mi ritirai nella mia stanza, dalla quale non uscii più.
E.S.
Bussano. Chiedo: “Chi xè?” [3]. Allora vedo che la maniglia della porta lentamente si abbassa e sento la voce dolce e rassicurante di Livia che mi chiede di entrare. “Vieni pure”, rispondo. “Ettore, sei stato tutto il giorno chiuso in camera anche oggi! Quando comincerai a uscire? Perché non vai a vedere la fabbrica?”. La guardo sorridendo: “Forse, magari uno di questi giorni, se la gamba non mi farà ancora così male!”.
Presi un foglio bianco dal cassetto della scrivania e per qualche minuto rimasi fermo davanti al pezzo di carta. Dai tempi dell’incidente non avevo più scritto. Presi la penna, la intinsi nell’inchiostro e ricominciai a scrivere.
Mi chiamo Michele Pandolfo, ho ventisette anni, sono nato il 20 dicembre 1983. Dopo la laurea in Lettere moderne ho superato l’esame di ammissione al dottorato in Storia: culture e strutture delle aree di frontiera presso l’Università di Udine con un progetto di ricerca sulla diaspora somala e le sue forme culturali in Italia. Ora vivo a Montpellier, in Francia, dove sono assistente di lingua italiana e dove mi dedico alla lettura, all'insegnamento e alla ricerca.
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