E DISSE Erri De Luca
(…) “Non ruberai.” No, però potrai entrare nel campo del tuo vicino e mangiare del frutto del suo seminato. Non porterai con te cesto né gerla per riempire e trasportare, perché quello è rubare, sottrarre roba altrui.
Ma sul suo campo ti potrai sfamare e ti ricorderai di ringraziare il suo lavoro, il suo bene e la legge che ti permette l’ingresso. E quando è stagione di raccolto il proprietario lascerà una decima parte del campo a beneficio degli sforniti. E ancora: quando i mietitori saranno passati con la falce, non potranno passare una seconda volta a completare. Quello che resta spetta al diritto di racimolare.
Così nella necessità non ruberai e non maledirai la terra che ti sostiene e il cielo che scorre su di te. E se lavorerai a salario, il prezzo della tua fatica ti verrà pagato il giorno stesso. Così è detto a chi ti assolda: “Nel suo giorno darai il suo salario e non passerà sopra di lui il sole, perché povero è lui e verso quel salario solleva il suo fiato” (Deuteronomio/Devarìm 24,15).
Chi trattiene presso di sé il compenso dovuto all’operaio che ha svolto la sua opera, è pari a un ladro, ma con l’aggravio di opprimere un povero.
“Non opprimerai un salariato un povero e un misero: dei tuoi fratelli e del tuo straniero che è nella tua terra” (24,14). Rientra anche questo nel rigo: “Non ruberai” perché è rubare il fiato. Un salariato che vende la sua forza alla giornata non è un servo né un forzato. Chi lo asservisce si fa ladro di fiato, come chi rapisce in cambio di riscatto. Se la persona umana è abbassata a merce, a refurtiva, chi la riduce a questo è ladro.
Questa legge difficile proviene dall’amore, che è intransigente con chi opprime gli amati. L’amore esige la giustizia in terra, infiamma gli umiliati. L’amore arma la mano dell’oppresso. Questa legge vuole placarlo in tempo, accordargli diritto e dignità. Non gli affamati insorgono, ma i calpestati in cuore. Non ruberai la loro porzione di uguaglianza.
Nell’assemblea ognuno cercava di riconoscere un torto commesso, abbassava la testa, ripensava e già così premeditava di riconciliarsi. Chi non ne aveva o non ne ricordava pronunciò la formula che poi Davide scrisse: “Dalle nascoste assolvimi” (Salmo 19,13).
Il verbo del rubare sconvolgeva una comunità senza lucchetti e chiavi, senza prigioni e guardie. La proprietà di ognuno era il più semplice confine invalicabile. Chi poteva osare di sottrarre un valore altrui in mezzo a quel deserto affollato di occhi? Ebbero assaggio di un mondo successivo in cui solo le righe scritte della legge potevano servire a trattenere. Di solito le generazioni dicono: “In che tempi viviamo”. A loro venne in mente: “In che tempi vivranno”.
Penetravano in corpo le parole facendosi spazio nelle viscere, parlavano da dentro. Era un’esperienza ventriloqua che Davide avrebbe raccontato poi: “Vento di Iod ha parlato in me”. Nel corpo si piantava il vento di una voce da ascoltare. In petto saliva il calore di una presenza, le viscere commosse dall’ospitalità: “E la tua legge sta in mezzo al mio stomaco” (Salmo 40,9). Anche l’uomo ha un grembo per accogliere. “E il suo vocabolo è sopra la mia lingua”: la frase è risalita alla gola fino alla lingua che la pronuncia e anche l’assapora.
Nel corpo maschile dell’assemblea del Sinai le parole si facevano spazio al centro. Sprigionavano energia e la restituivano alla divinità.
“Date forza a Elohìm” (Salmo 68,35), dategli quella ricevuta dalle parole del Sinai.
“Sopra Israele è la sua altezza”: dritta sopra la verticale della loro assemblea si è accumulata la sua altezza abissale, qui è mezzogiorno a picco, nessun’ombra in terra.
Tra montagna e cielo passava lo scambio di energie. “Benedetto Adonài giorno per giorno ci sobbarcherai” (68,20): il verbo è di chi sta sotto una soma, eppure spinge in alto il suo grazie migliore.
“Non risponderai nel tuo compagno da testimone di inganno.” Ti sarà chiesto e dovrai rispondere. In quel punto ricorda il primo nato di donna a essere interrogato: è stato Caino. Rispose alla domanda su dove fosse Abele: “Non ho conosciuto: sono io il custode di mio fratello?”. Dal momento in cui pronunciò la frase, s’incatenò a essa: era diventato il custode di suo fratello. Ci sono domande in fondo alle quali si cancella il punto interrogativo e diventano involontarie affermazioni.
Anche tu, nel momento che ti viene chiesto, diventi il custode di tuo fratello. Ti è affidato e il suo futuro dipende dalla tua testimonianza. Perciò non risponderai da testimone di inganno, né contro né a favore. Non ti giustificherai con il pensiero che comunque sopra un testimone solo non si può fondare una sentenza. Perché la tua parola avrà ugualmente confuso la verità e modificato una reputazione. Chi è tenuto a rispondere su un suo compagno sta come Caino di fronte alla domanda: “Dov’è tuo fratello?”. La tua testimonianza dirà dove si trova, nel torto o nel giusto, tra i vivi o tra i morti, dentro la comunità o escluso.
Il rigo nove fece tremare le labbra dei presenti. Lì erano tutti testimoni della divinità. Di fronte a lei ognuno rispondeva del suo vicino. Si scambiarono sguardi intimoriti. Il rigo stabiliva la responsabilità di uno nei confronti degli altri. Una sua trasgressione li diminuiva tutti, una sua lealtà li rafforzava. L’assemblea di Israele diventava organismo vivente, ognuno era cellula comunicante con le altre. Col suo comportamento procurava la salute o la rovina di tutte. Pure nelle dispersioni che scaraventeranno il loro insieme sopra i volti della terra, sapranno di appartenere all’assemblea del Sinai. Dice un commento che il loro numero era 1.159.705, perché tante sono le lettere della scrittura sacra in ebraico. Se una ne manca tutto il testo è invalido.
Caino nega di sapere dove sia il fratello. Non potrà essere consentita questa risposta a nessuno dell’assemblea riunita sotto il Sinai. Ognuno dovrà sapere dov’è suo fratello e rispondere di lui. Così verrà ridetto e ribadito: “Non risponderai nel tuo compagno da testimone per falsità” (Deuteronomio/Devarìm 5/17). Dice “nel”: perché la tua risposta entra nel territorio dell’altra persona, ne invade il nome in pubblico.(…)
Brano tratto dal libro E disse, Feltrinelli, Milano, 2011. Erri De Luca
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