Torna alla homepage

Sagarana TREBLINKA


Vassilij Grossman


TREBLINKA



 

(…) Una volta il comandante del campo scelse alcuni bambini da un contingente di prigionieri, ammazzò i genitori e fece indossare ai piccoli dei bei vestiti; li rimpinzava di dolci e giocava con loro. Di lì a qualche giorno, però, il giocattolino gli venne a noia e diede ordine di ucciderli tutti quanti.
Uno dei divertimenti preferiti erano stupri e sevizie ai danni di giovani donne e ragazze di bell’aspetto che venivano selezionate in ogni tradotta. La mattina seguente erano gli stessi stupratori ad accompagnarle alle camere a gas.
Così si divertivano, a Treblinka, le SS, baluardo del regime di Hitler e orgoglio della Germania nazista.
Va notato, tuttavia, che quei mostri non erano automi, meri esecutori di volontà altrui. Avevano tutti qualcosa in comune, e i testimoni lo hanno rilevato: l’amore per le disquisizioni teoriche e filosofiche. Amavano pronunciare discorsi altisonanti di fronte alle loro vittime, vantandosi, illustrando loro l’alto senso e il significato futuro di quanto accadeva a Treblinka. Erano tutti profondamente e sinceramente convinti di fare una cosa giusta e necessaria. E allora si dilungavano in spiegazioni sulla supremazia della razza germanica, si lanciavano in tirate sul sangue tedesco, sul carattere tedesco, sulla missione dei tedeschi. Il loro credo era esposto nei libri di Hitler e Rosenberg, negli opuscoli e articoli di Goebbels.
Dopo aver lavorato ed essersi divertite come appena descritto, le SS dormivano il sonno del giusto, mai scosse da incubi e visioni. Senza un rimorso di coscienza. Anche perché non ce l’avevano, una coscienza. Facevano ginnastica, badavano gelosamente alla salute, bevevano latte a colazione, avevano molto a cuore gli agi quotidiani e circondavano gli alloggi personali di giardinetti, aiuole rigogliose e gazebo. Spesso, più volte all’anno, tornavano in licenza in Germania: la “fabbrica” in cui prestavano servizio era ritenuta un posto malsano e i superiori tenevano alla loro salute. A casa camminavano a testa alta, fieri, e non parlavano mai del loro lavoro; non perché se ne vergognassero, ma perché, da bravi soldati disciplinati, non osavano venir meno al giuramento solenne che avevano prestato e alla firma che avevano apposto. E quando, sottobraccio alle mogli, la sera andavano al cinema e si sbellicavano dalle risate facendo tintinnare gli stivali ferrati, era difficile distinguerli dagli altri comuni mortali. Invece erano belve nel senso primo del termine: belve delle SS.
L’estate del 1943 fu un’estate caldissima per quei luoghi. Niente pioggia, niente nubi né vento per diverse settimane. Il lavoro di incenerimento dei corpi ferveva. Erano quasi sei mesi che i forni lavoravano giorno e notte, ma solo la metà dei cadaveri era stata bruciata.
I detenuti addetti all’incenerimento non reggevano all’orrenda tortura – morale e fisica – e ogni giorno si registravano dai quindici ai venti suicidi. Molti andavano incontro alla morte violando deliberatamente le norme di disciplina.
“Beccarsi una pallottola era un lusso”, mi ha detto uno di loro, un ragazzo di Kossów che evase dal lager. Perché a Treblinka essere condannati a vivere era molto peggio che essere condannati a morire.
Ceneri e resti venivano portati fuori dal lager. A caricarli sui carri e a spargerli lungo la strada che dal lager della morte portava al campo polacco erano i contadini che i tedeschi reclutavano nel paesino di Wólka. A spianare la cenere con i badili, invece, erano i prigionieri-bambini, che ogni tanto trovavano qualche moneta d’oro fusa o dei denti sciolti. Li chiamavano “i bambini della strada nera”. Perché con tutta quella cenere la strada era diventata nera come una fascia a lutto. Le ruote delle macchine facevano un rumore diverso, su quella strada, e quando mi trovai a passarci sentii anch’io un fruscio triste, soffuso, come un gemito timoroso.
La striscia nera, funerea, di cenere che attraversava i boschi e i campi dal lager della morte al campo dei polacchi era il simbolo tragico del destino tremendo che accomunava i popoli finiti sotto la scure della Germania hitleriana.
I contadini trasportarono cenere dalla primavera del 1943 all’estate del 1944. La procedura impegnava venti carri ogni giorno, e a ogni carro toccavano dai sei agli otto carichi quotidiani (centoventi – centotrenta chili di cenere ogni volta).
Nell’inno di Treblinka che gli ottocento addetti all’incenerimento dei cadaveri erano costretti a cantare c’è una frase che esorta i detenuti all’obbedienza e alla rassegnazione in cambio di “una piccola gioia, il lampo di un istante”. E per quanto strano, nella vita dell’inferno di Treblinka un giorno di gioia ci fu davvero. I tedeschi, però non avevano visto giusto: i condannati a morte non lo dovettero all’obbedienza e alla rassegnazione. Ma alla follia degli audaci. Che non avevano nulla da perdere. Erano condannati a morte certa, ogni nuovo giorno della loro vita era un giorno di sofferenze e di tormenti. Nessuno di loro, testimoni di crimini immondi, sarebbe mai stato risparmiato: dopo qualche giorno di lavoro finivano tutti quanti nelle camere a gas, prontamente sostituiti da nuove vittime scaricate dall’ennesima tradotta. Solo qualche decina di persone sopravvisse per settimane o mesi (invece di un pugno di giorni o di ore): erano artigiani, carpentieri e muratori qualificati utili ai tedeschi, oppure panettieri, sarti barbieri messi al loro servizio. Furono loro a ordire la sommossa. Certo, solo dei condannati a morte, solo persone in preda a un sentimento feroce di vendetta e di odio potevano escogitare un tale folle piano di rivolta. Non se ne sarebbero andati prima di avere raso al suolo Treblinka. E ci riuscirono. Nelle baracche spuntarono le armi: asce, coltelli, bastoni. A che prezzo, con quali rischi riuscirono a procurarseli! Per nasconderli nelle baracche durante le perquisizioni ci vollero pazienza, astuzia e abilità fuori dell’ordinario. Misero insieme un bel po’ di benzina per dar fuoco agli edifici del lager. Come riuscirono a procurarsela, goccia dopo goccia? E come riuscirono a farla sparire, volatilizzata o quasi? Furono necessari sforzi sovrumani, mente lucida e un grandissimo coraggio. Scavarono un grosso tunnel sotto la baracca dell’armeria tedesca. Anche in quel caso la temerarietà fu loro d’aiuto, il dio del coraggio li assistette. Portarono via venti granate, una mitragliatrice, carabine e pistole. Finì tutto sotto terra, nei nascondigli scavati dai cospiratori. Che si divisero in gruppi di cinque. Il gigantesco, complesso piano di insurrezione venne elaborato fin nei minimi dettagli. Ogni gruppo aveva un compito preciso. E ogni compito preciso – scientificamente preciso – era pura follia. Il primo gruppo doveva assaltare le torrette, territorio dei Wachmänner e delle loro mitragliatrici. Il secondo doveva attaccare di sorpresa le sentinelle di guardia ai passaggi tra le piazzole del lager. Il terzo i blindati. Il quarto doveva tagliare i fili del telefono. Il quinto avrebbe assaltato le caserme. Il sesto aperto passaggi nel filo spinato. Il settimo gettato dei ponti sui fossati anticarro. L’ottavo doveva cospargere di benzina gli edifici del lager e dar loro fuoco. Il nono distruggere tutto ciò che si poteva – facilmente – distruggere.
Avevano anche pensato al denaro per i fuggiaschi. Ma il medico di Varsavia che lo stava raccogliendo rischiò di mandare a monte tutto quanto. Un giorno, infatti, uno Scharführer adocchiò una grossa mazzetta di banconote nella tasca dei suoi pantaloni – l’ennesimo furto dalla “cassa” che il dottore avrebbe poi nascosto. Lo Scharführer non disse una parola, ma fece subito rapporto a Kurt Franz in persona. Quella storia aveva dell’incredibile, e Franz andò personalmente a chiederne ragione al dottore. Sospettò subito qualcosa di losco: che cosa se ne faceva, un condannato a morte, di tutti quei soldi? Franz condusse l’interrogatorio con grande calma e polso fermo. Del resto, nessuno al mondo conosceva le torture quanto lui. E nessuno meglio di lui – l’Hauptmann Kurt Franz – sapeva che a questo mondo non c’era essere umano che potesse resistere alle sue sevizie. Il dottore di Varsavia, invece, mise nel sacco la SS. Si suicidò col veleno. Uno degli insorti mi disse che mai, a Treblinka, si mise tanto zelo nel cercare di salvare qualcuno. Franz doveva avere intuito che quel medico in fin di vita stava portando con sé un segreto importante. Ma il veleno tedesco fece il suo mestiere e il segreto del dottore restò tale. Alla fine di luglio l’afa divenne soffocante. Quando si aprirono le fosse, il vapore che ne esalava pareva uscire da immensi calderoni. Il lezzo tremendo e il terribile calore dei forni fecero diversi morti. Gli addetti al trasporto dei cadaveri finivano per cadere anch’essi, stremati, sulle graticole. Miliardi di mosche grosse e grasse strisciavano sulla terra e ronzavano nell’aria. Ormai restavano da bruciare solo gli ultimi centomila cadaveri.
La rivolta venne fissata per il 2 di agosto. Il segnale fu un colpo di pistola. La sacra impresa fu coronata da successo. Nel cielo si levò alta una nuova fiamma che non era quella greve e grassa di fumo dei cadaveri che ardevano, ma il fuoco vivido, ardente e impetuoso degli incendi. Il lager bruciava, e per gli insorti fu come se il sole stesso si fosse strappato dalla sua orbita e stesse ardendo proprio sopra Treblinka per celebrare il trionfo della libertà e dell’onore.
Spari a singhiozzo, e poi raffiche di mitragliatrici sulle torrette conquistate dai rivoltosi. Granate che esplodevano solenni come campane di verità. L’aria era scossa da boati e scoppiettii, gli edifici crollavano e il sibilo delle pallottole copriva il ronzio delle mosche.
Nell’aria tersa e pulita balenò il rosso delle asce lorde di sangue. Il 2 agosto il sangue marcio delle SS bagnò la terra di Treblinka, un cielo azzurro rovente di luce celebrò in trionfo l’ora della vendetta. E una storia vecchia come il mondo tornò a ripetersi: esseri che si credevano rappresentanti di una razza superiore, esseri che avevano tuonato “Achtung! Mützen ab!”, che avevano cacciato la gente di Varsavia dalle proprie case per portarla a morire urlando con voce imperiosa da padroni “Alle r-r-r-aus! Unter-r-r!”, esseri convinti della propria forza e potenza quando si trattava di giustiziare milioni di donne e bambini, si rivelarono vigliacchi spregevoli, squallidi esseri che imploravano pietà strisciando non appena lo scontro si fece reale, mortale. (…)
 





Brano tratto da L’inferno di Treblinka. Adelphi edizioni, Milano, 2010. Traduzione di Claudia Zonghetti .




Vassilij Grossman
Vassilij Grossman




    Torna alla homepage copertina I Saggi La Narrativa La Poesia Vento Nuovo Nuovi Libri