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Sagarana IL COLLASSO DELLA GLOBALIZZAZIONE


Chris Hedges


IL COLLASSO DELLA GLOBALIZZAZIONE



 

Le rivolte in Medio Oriente, le sommosse che stanno lacerando nazioni come la Costa d’Avorio, il malcontento che ribolle in Grecia, Irlanda e Gran Bretagna e il dibattito sul lavoro in Wisconsin e in Ohio fanno presagire il collasso della globalizzazione. Fanno presagire un mondo in cui le risorse vitali, tra cui cibo, acqua, posti di lavoro e sicurezza, diventeranno sempre più scarse e difficili da ottenere. Fanno presagire una miseria crescente per centinaia di milioni di persone che si trovano intrappolate in stati in panne, soggetti a un’escalation di violenza e paralizzati dalla povertà. Fanno presagire forze e controlli sempre più draconiani, basti considerare quanto sta accadendo al militare Bradley Manning, adottati per proteggere l’elite delle multinazionali che sta orchestrando la nostra fine.
 Dobbiamo abbracciare, e farlo rapidamente, una nuova etica radicale basata sulla semplicità e sulla protezione rigorosa del nostro ecosistema, soprattutto del clima, o ci ritroveremo ad aggrapparci alla vita con le unghie. Dobbiamo ricreare movimenti socialisti radicali i quali richiedano che le risorse di uno stato e di una nazione siano dedicate alla prosperità di tutti i cittadini e che la mano pesante del potere dello stato sia usata per proibire il saccheggio perpetrato dall’elite delle potenze multinazionali. Dobbiamo considerare le multinazionali capitaliste che hanno preso il controllo dei nostri soldi, del nostro cibo, della nostra energia, della nostra istruzione, della nostra stampa, del nostro sistema sanitario e dei nostri governi nemici mortali da sconfiggere.
Cibo a sufficienza, acqua potabile e misure di sicurezza di base sono già al di là della portata di forse la metà della popolazione mondiale. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, da dicembre 2008 il costo degli alimenti è cresciuto del 61% a livello globale. Il prezzo del frumento è esploso, più che raddoppiato negli ultimi otto mesi, arrivando a $ 8,56 per staio. Quando la metà del reddito è spesa per l’alimentazione, come succede in paesi come lo Yemen, l’Egitto, la Tunisia e la Costa d’Avorio, rialzi dei prezzi di questa portata si trascinano dietro fame e denutrizione. Negli ultimi tre mesi i prezzi degli alimenti negli Stati Uniti sono lievitati a un tasso annualizzato del 5 percento. Ci sono ben 40 milioni di indigenti negli Stati Uniti che spendono il 35 percento del loro reddito, al netto delle tasse, in cibo. Con i costi dei combustibili fossili che salgono, i cambiamenti climatici che continuano a sconvolgere la produzione agricola e la popolazione e il tasso di disoccupazione che aumentano, ci troveremo sconvolti da sempre più disordini nazionali e globali. Le rivolte per il cibo e le proteste politiche saranno inevitabili. E questo non implicherà necessariamente più democrazia.
Il rifiuto dimostrato da tutte le istituzioni liberali, tra cui la stampa, le università, i sindacati e il Partito Democratico, nello sfidare premesse visionarie, secondo cui è il mercato a dover determinare il comportamento umano, permette alle multinazionali e alle società di investimento di sferrare il loro attacco, che prevede tra le altre cose la speculazione sulle merci, mirata a far schizzare alle stelle i prezzi dei generi alimentati. Permette inoltre alle società che gestiscono gas naturale, petrolio e carbone di contrastare le energie alternative e di emettere livelli mortali di gas serra. Permette alle aziende agroindustriali di destinare le colture di mais e soia alla produzione di etanolo, schiacciando i sistemi di agricoltura locale e sostenibile. Permette all’industria bellica di prosciugare metà della spesa statale, generando triliardi di deficit, e di trarre profitti da conflitti in Medi Oriente in cui non abbiamo alcuna possibilità di vittoria. Permette alle multinazionali di eludere controlli e normative fondamentali, lasciando che si cementi un nuovo neo-feudalesimo globale. Le ultime persone che dovrebbero occuparsi dei nostri approvvigionamenti alimentari, o della nostra vita politica o sociale se è per quello, per non citare l’assistenza ai bambini malati, sono le multinazionali capitaliste e gli speculatori di Wall Street. Ma niente di tutto ciò cambierà finché non volgeremo le spalle al Partito Democratico, non denunceremo l’ortodossia che viene fatta circolare nelle nostre università e nella stampa dagli apologhi delle multinazionali e non costruiremo la nostra opposizione allo stato delle multinazionali a partire dalla base. Non sarà facile. Ci vorrà del tempo. E ci richiederà di accettare lo stato di pariah sociali e politici, soprattutto mentre la frangia radicale del nostro establishment politico consolida il suo potere. Lo stato delle multinazionali non ha niente da offrire, né a destra né a sinistra, solo la paura. Esso usa la paura, la paura dell’umanesimo laico, o dei fascisti cristiani, per fare della popolazione un complice passivo. E finché avremo paura non cambierà nulla.
Nessuno avrebbe mai dovuto prendere sul serio Friedrich von Hayek e Milton Friedman, due dei principali architetti del capitalismo non regolamentato. Ma le meraviglie della propaganda e dei finanziamenti delle multinazionali hanno trasformato queste due figure marginali in profeti venerati da università, esperti, stampa, enti legislativi, tribunali e consigli di amministrazione. Ancora oggi sopportiamo le falsità delle loro screditate teorie economiche, mentre Wall Street sta prosciugando il Tesoro degli Stati Uniti, prodigandosi ancora una volta nella speculazione che, a oggi, ha fatto evaporare qualcosa come $ 40 trilioni di ricchezze globali. Tutti i sistemi di informazione però ci insegnano a ripetere il mantra che il mercato sa cosa è meglio.
Poco importa, come hanno fatto notare scrittori come John Ralston Saul, che ogni singola promessa del globalismo si sia rivelata una fandonia. Poco importa che la diseguaglianza economica sia peggiorata e che buona parte della ricchezza mondiale si sia concentrata in poche mani. Poco importa se la classe media, il cuore pulsante di ogni democrazia, sta scomparendo, se i diritti e i salari della classe operaia sono diminuiti precipitosamente, se le normative sul lavoro, che sono la protezione della base produttiva, e i sindacati dei lavoratori sono stati smantellati. Poco importa che le aziende abbiano usato la distruzione delle barriere di mercato come meccanismo di una massiccia evasione fiscale, una tecnica che ha permesso a colossi come la General Electric di aggirare il pagamento di qualunque imposta. Poco importa che le aziende sfruttino e uccidano l’ecosistema da cui dipende la vita della specie umana. Il solido sbarramento di illusioni disseminato dai sistemi di propaganda delle multinazionali, in cui le parole sono spesso rimpiazzate da musica e immagini, è a prova di verità. La fede nel mercato sostituisce per molti la fede in un Dio onnipresente. E chi dissente, da Ralph Nader a Noam Chomsky, viene messo al bando come un eretico.
Scopo dello stato delle multinazionali non è nutrire, vestire o dare una casa alle masse, ma spostare tutto il potere economico, sociale e politico e la ricchezza nelle mani di un’esigua elite. È creare un mondo in cui i dirigenti delle aziende guadagnano $ 900.000 all’ora, mentre famiglie con quattro lavori faticano a sopravvivere. L’elite delle multinazionali ottiene lo scopo di un profitto sempre maggiore indebolendo e smantellando gli organi di governo e acquisendo il controllo delle istituzioni pubbliche o distruggendole. Le scuole private, gli eserciti mercenari, il remunerativo settore delle assicurazioni sanitarie e l’outsourcing di ogni aspetto delle attività governative, dalle operazioni impiegatizie a quelle di intelligence, foraggiano la bestia multinazionale a nostre spese. La decimazione delle associazioni sindacali, la virata dell’istruzione verso un’appiattita formazione professionale e l’abbattimento dei servizi sociali ci rendono sempre più alla mercé dei capricci delle multinazionali. L’intrusione delle multinazionali nella sfera pubblica annienta il concetto stesso di bene comune, cancellando la linea di confine tra interesse pubblico e interesse privato e creando un mondo che viene definito esclusivamente in base al crudo interesse personale.
I sostenitori ideologici del globalismo, Thomas Friedman, Daniel Yergin, Ben Bernanke e Anthony Giddens, sono i prodotti stentati di un’elite di potere materialistica e compiaciuta. Essi fanno uso dell’ideologia visionaria del globalismo quale giustificazione morale del benessere, dell’egoismo e del privilegio che gli sono propri. Non mettono in discussione i progetti imperiali della nazione, né la dilagante disparità in termini di ricchezza e sicurezza che esiste tra loro, membri dell’elite industrializzata del mondo e il resto del pianeta. Abbracciano il globalismo perché, come buna parte delle ideologie filosofiche e teologiche, esso giustifica i loro privilegi e il loro potere. Considerano il globalismo non un’ideologia, ma l’espressione di una verità inconfutabile. E poiché la verità è stata svelata, tutte le visioni economiche e politiche concorrenti sono state liquidate dal dibattito pubblico prima ancora di essere ascoltate.
La difesa del globalismo rivela un’allarmante spaccatura nella vita intellettuale americana. Nel 1929 il crollo dell’economia globale screditò i fautori dei mercati deregolamentati. Lasciò spazio a visioni alternative, in molti casi prodotte dai movimenti socialisti, anarchici e comunisti che una volta esistevano negli Stati Uniti. Ci adeguammo alla realtà politica ed economica. La capacità di un atteggiamento critico verso gli assunti politici ed economici portò al New Deal, allo smantellamento dei monopoli aziendali e a una forte regolamentazione attuata dal governo su banche e grosse società. Ma a questo giro, poiché le multinazionali controllano gli organi della comunicazione di massa e poiché migliaia di economisti, docenti di scuole di economia, analisti finanziari, giornalisti e manager aziendali hanno puntato la loro credibilità sull’utopia del globalismo, ci ritroviamo a parlare un gergo incomprensibile. Continuiamo a seguire i consigli di Alan Greenspan, che considerava il romanziere di infimo livello Ayn Rand un profeta economico, o di Larry Summers, la cui deregolamentazione delle banche quando era segretario del tesoro sotto Bill Clinton ha fatto volatilizzare $ 17 triliardi tra salari, benefit previdenziali e risparmi personali. Candidati presidenziali come Mitt Romney ci assicurano che nuove agevolazioni fiscali convinceranno le multinazionali a riportare i profitti dall’estero negli Stati Uniti e a creare nuovi posti di lavoro. È un’idea questa, partorita da un ex-manager di fondi di investimento che ha ammassato una fortuna personale principalmente licenziando i lavoratori e dimostra quanto il discorso politico razionale si sia ridotto a insensati slogan ad effetto.
Siamo imbambolati da queste chiacchiere infantili e gioiose. Chi vuol sentirsi dire che non stiamo avanzando verso un paradiso felice di consumo e prosperità personale ma verso il disastro? Chi vuole affrontare un futuro in cui gli appetiti avidi e rapaci di un’elite mondiale che ha trascurato la protezione del pianeta minacciano di produrre e diffondere caos, fame, catastrofi ambientali, terrorismo nucleare e guerre per via di risorse sempre più ridotte? Chi vuole mandare in frantumi il mito secondo cui la razza umana si evolve moralmente, può continuare la sventata razzia di risorse non rinnovabili e perseguire livelli dissoluti di consumo, il mito per cui l’espansione capitalista è eterna e non cesserà mai?
Le civiltà morenti spesso preferiscono la speranza, anche una speranza assurda, alla verità. Rende la vita più sopportabile. Permette di distogliere lo sguardo davanti alle difficili scelte del futuro e di crogiolarsi nella confortante certezza che Dio o la scienza o il mercato porteranno la salvezza. Ecco perché gli apologhi del globalismo continuano ad avere un seguito. E i loro sistemi di propaganda hanno costruito un enorme villaggio Potemkin globale per intrattenerci. Le decine di milioni di americani impoveriti, le cui vite e lotte raramente arrivano in televisione, sono invisibili. Come lo sono buona parte dei miliardi di poveri di tutto il mondo, stipati in slum fetidi. Non vediamo coloro che muoiono per via di acque contaminate o perché incapaci di sostenere le spese dell’assistenza sanitaria. Non vediamo coloro a cui hanno pignorato le case. Non vediamo i bambini che vanno a dormire affamati. Ci teniamo occupati con l’assurdo. Investiamo la nostra vita emotiva in reality televisivi che celebrano eccesso, edonismo e ricchezza. Siamo attratti dalla vita opulenta di cui gode l’oligarchia americana, un 1% che controlla più ricchezza di quanta il 90% della base possa produrre.
Le celebrità e le stelle dei reality televisivi, le cui manie conosciamo nell’intimo, conducono vite autoreferenziali in magioni che si estendono senza controllo o appartamenti esclusivi di Manhattan. Sfilano davanti a noi con corpi scolpiti e perfezionati dalla chirurgia in abiti griffati. Dedicano la loro vita alla promozione e all’ascesa personali, al consumo, ai party e al fare soldi. Festeggiano il culto del sé. E quando subiscono un tracollo, noi assistiamo con un’estasi raccapricciante. Questa esistenza vuota è quella che ci insegnano ad ammirare ed emulare. È questa la vita che, ci dicono, tutti possiamo avere. La perversione dei valori ha creato un panorama in cui la gestione delle multinazionali a opera di figure equivoche come Donald Trump viene confusa con la leadership e in cui la capacità di accumulare immense fortune viene confusa con l’intelligenza. E se poi di sfuggita vediamo la classe operaia o i poveri comparire sugli schermi, sono ridicolizzati e scherniti. Diventano oggetto di disprezzo, che sia nel “Jerry Springer Show” o in “Jersey Shore.”
L’incessante rincorsa dello status, del progresso personale e della ricchezza ha fatto precipitare buona parte del Paese in un debito inimmaginabile. Le famiglie, i cui salari sono stati decurtati negli ultimi trent’anni, vivono in case decisamente enormi, finanziate da mutui che spesso non sono in grado di ripagare. Ricercano un’identità nei prodotti. Passano il tempo libero nei centri commerciali a comprare cose di cui non hanno bisogno. Chi è in età da lavoro trascorre le giornate in minuscoli cubicoli, sempre che abbia un lavoro stabile, schiacciato dal dominio delle multinazionali che hanno tolto il potere ai lavoratori americani e preso il controllo dello stato e che possono mandarlo a casa per un capriccio. È una corsa disperata. Nessuno vuole rimanere indietro.
I propagandisti del globalismo sono l’escrescenza naturale di questo mondo privo di cultura e basato sull’immagine. Parlano di teorie politiche ed economiche per cliché privi di contenuto. Soddisfano i nostri desideri subliminali e irrazionali. Selezionano alcuni fatti e dei dati isolati e li usano per liquidare la realtà storica, politica, economica e culturale. Ci dicono quello che vogliamo credere su noi stessi. Ci assicurano che siamo eccezionali come individui, e come nazione. Esaltano la nostra ignoranza come se fosse conoscenza. Ci dicono che non c’è motivo di indagare altri modi per organizzare e governare la nostra società. Il nostro modo di vivere è il migliore. Il capitalismo ha fatto di noi dei grandi. Come venditori ambulanti spacciano il sogno maniacale dell’inevitabile progresso umano. Ci assicurano che saremo salvati dalla scienza, dalla tecnologia e dalla razionalità e che l’umanità si muove inesorabilmente in avanti.
Niente di tutto ciò è vero. È un messaggio che sconfigge la natura e la storia umane. Ma è ciò in cui molti desiderano disperatamente credere. E finché non ci risveglieremo da questo delirio collettivo, finché non porteremo avanti atti sostenuti di disobbedienza civile contro lo stato delle multinazionali e non ci separeremo dalle istituzioni liberali che sono al servizio della macchina multinazionale, specie il Partito Democratico, continueremo a essere lanciati come missili verso una catastrofe globale.






Traduzione di Nausikaa Angelotti.




Chris Hedges


Chris Hedges scrive regolarmente una rubrica per Truthdig.com. Hedges si è laureato alla Harvard Divinity School ed per quasi due decenni è stato un corrispondente estero del New York Times. È autore di molti saggi tra cui: War Is A Force That Gives Us Meaning, What Every Person Should Know About War, e American Fascists: The Christian Right and the War on America. La sua opera più recente è Empire of Illusion: The End of Literacy and the Triumph of Spectacle.





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