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Sagarana FISSARE LO SGUARDO NEL ‘CENTRO SEGRETO’ DEL ROMANZO


Cherilyn Parson


FISSARE LO SGUARDO NEL ‘CENTRO SEGRETO’ DEL ROMANZO



 

“The Naive and the Sentimental Novelist” (Il romanziere ingenuo e sentimentale) di Orhan Pamuk è una lettera d’amore al romanzo letterario, capace di espandere la coscienza e la gioia della lettura. Per chi scrive romanzi è il forziere colmo di tesori.
Mentre gran parte della critica letteraria presenta le caratteristiche di un referto autoptico, un sezionamento asettico del testo, il breve saggio di Pamuk affronta l’analisi del romanzo lanciandosi in un’esplorazione di tutto ciò che ne anima il corpo. Ne traccia il sistema circolatorio, sonda i campi sensoriali che compongono il personaggio, si sofferma su quel miracolo invisibile e tuttavia dilagante che è la coscienza del romanzo, il suo “centro segreto”, secondo la definizione dello scrittore.
Chi scrive questa recensione non ha solitamente troppa pazienza per le teorie del romanzo o per i critici che non abbiano mai intrapreso con serietà l’arduo compito di scriverne uno. Avendone scritto otto, sei dei quali tradotti dal turco in inglese, Pamuk, il vincitore nel 2006 del premio Nobel per la Letteratura, invece sa esattamente di che cosa si tratta, e a questa grande esperienza unisce anche la sua attività di saggista e attivista per la libertà di espressione. Nel discorso di accettazione del premio Nobel, per descrivere come si sente uno scrittore durante la stesura di un romanzo, ha fatto ricorso al detto turco ”scavare un pozzo con un ago”.
In altre parole, un lavoro difficile, e tuttavia, in tutto il mondo, a prescindere che le loro opere siano pubblicate o meno, i romanzieri sono lì a scavare. Pamuk sostiene infatti che in qualunque luogo il romanzo come genere sia riuscito a radicarsi è divenuto la modalità dominante di fabulazione. Nel saggio egli non esamina l’impatto delle nuove tecnologie, eppure è chiaro che neanche il limite di 140 caratteri è in grado di arginare la pulsione di scrivere romanzi, i quali adesso vengono raccontati tramite cellulare e Twitter, non solo sul cartaceo o sullo schermo. Possono perfino non necessitare di parole, basti pensare ad alcune graphic novel.
Che cos’è dunque questa strana pulsione a sedersi tutto solo in una stanza (come si fa di solito) e scrivere parola dopo parola, spesso scervellandosi per trovare quella giusta, mentre tutti gli altri sono al mare a divertirsi? Ma aspetta, e cosa dire allora di tutta quella gente lì sotto l’ombrellone a fissare le pagine (o uno schermo) per ore, che si rilassa inseguendo le orme dei dettagli di una storia che non è neppure vera?
Che cosa producono in noi i romanzi? Perché li leggiamo e cosa potremmo fare per migliorarne la lettura? Che cosa determina la loro efficacia trasversale in culture, formati e secoli diversi?
Lo strano titolo del saggio di Pamuk si ispira al famoso saggio del filosofo e drammaturgo Friedrich Schiller “Sulla poesia ingenua e sentimentale”. Il romanziere utilizza le idee di Schiller come punto di partenza per una discussione sia sul lettore che sullo scrittore. Per quanto riguarda il lettore, “ingenuo” è il riferimento a come dimentichiamo noi stessi nella lettura “ sentiamo che il mondo fittizio nel quale ci siamo calati e che ci godiamo sia più reale che lo stesso mondo reale.” Ma il lettore moderno si rende conto che la storia è solo un sogno, e, quindi siamo sentimentalisch, il termine tedesco che descrive una persona passata dall’ingenuità alla consapevolezza e alla riflessione.
Per quanto riguarda invece lo scrittore, ingenuo è l’ideale romantico della creatività spontanea —sia essa dettata da Dio, dalla musa, da sostanze stupefacenti (che Coleridge sosteneva fossero state l’ispirazione per “Kubla Khan”), dall’alcol, dall’eccitazione della strada (Kerouac), o dal puro e semplice genio. Lo scrittore sentimentale, d’altro canto, “non è sicuro che le sue parole riusciranno ad abbracciare la realtà” ed è “esageratamente consapevole della poesia che scrive, dei metodi e delle tecniche che usa e dell’artifizio sotteso al suo operare.” Queste caratteristiche, sostiene Pamuk, sono quelle di uno scrittore moderno. O postmoderno aggiungerei io. La meta-narrativa incarna tale fenomeno.
Sono queste due le idee che diventeranno i temi portanti del libro. Pamuk elabora una teoria del romanzo che incorpora la ricerca di significato, il gioco tra verità e menzogna, il nucleo di ottimismo necessario all’atto di leggere e scrivere – e il piacere che si trae dall’esperienza di tutte queste cose. I bravi lettori e i bravi scrittori sono quindi allo stesso tempo “ingenui” e “riflessivi” (termine con cui Pamuk ribattezza sentimentali).
Quest’ultimo breve saggio dello scrittore turco si presta ad una rapida lettura, ma è ancor più piacevole ritornarci nel tempo. I sei capitoli che costituiscono il libro erano in origine un ciclo di Norton Lectures, conferenze pronunciate da Pamuk nel 2009 a Harvard. Non c’è da stupirsi, quindi, se a volte si ripetono o se si riagganciano a discorsi fatti in precedenza. In questa sede cercherò di riassumere le idee fondamentali del libro e, alla fine, esporre i suggerimenti indirizzati da Pamuk a chi vuole scrivere romanzi.
 
Il ‘significato’ di Tolstoj, il ‘centro’ di Pamuk
 
Inizia a leggere il romanzo e cosa succede? “Seguiamo la narrazione” -- la storia - ma sostiene l’autore “cerchiamo anche di scoprire il significato e l’idea principale che ci vengono suggeriti dalle cose che incontriamo.” Ma perché insistiamo a barcamenarci tra migliaia di particolari, specialmente se non esiste una trama dalla struttura forte? Pamuk argomenta che cerchiamo di comporre il puzzle per arrivare al significato che si cela sotto la superficie della trama. Paragona il lettore “[a]l cacciatore che tratta ogni foglia e ogni ramo rotto come fosse un segno, esaminandoli con grande attenzione mentre si fa strada nell’ambiente circostante. Andiamo avanti con la sensazione che ogni parola nuova, ogni oggetto, personaggio, protagonista, conversazione, descrizione e dettaglio, tutte le qualità linguistiche e stilistiche del romanzo, ogni svolta della narrativa sottintendano e indichino qualcosa di diverso da quello appare in superficie.”
Questo “qualcosa” è quello che egli chiama “il centro”, un’idea dalla parvenza mistica che costituisce il nucleo della sua teoria del romanzo. Il centro di un particolare romanzo è “l’opinione profonda o intuizione che riguarda la vita, un punto misterioso incastonato in profondità, sia reale che immaginario.” Secondo Pamuk leggiamo in uno stato di costante, perfino ansiosa, ricerca di “un frammento di conoscenza, un’intuizione, un indizio che riguardi ciò che sta nel più profondo – in altre parole, il centro, o quello che Tolstoj chiamerebbe il significato della vita (o quant’altro lo vogliamo chiamare), quel posto difficile da raggiungere che, da ottimisti, crediamo esista.”
Ma esiste davvero? L’atto di leggere un romanzo, afferma Pamuk, “è lo sforzo di credere che il mondo abbia davvero un centro, e per arrivare a questa convinzione ci vuole tutta la fiducia che siamo in grado di raccogliere. I grandi romanzi come Anna Karenina, A la recerche du temps perdu, La montagna magica e Le onde ci sono indispensabili perché creano la speranza e la vivida illusione che il mondo abbia un centro e un significato e alimentano in noi il piacere sostenendo questa impressione mentre voltiamo le pagine.” Questo discorso vale almeno per i romanzi di carattere letterario. Con qualche eccezione, i romanzi che si rifanno a un genere non ispirano tale ricerca, al massimo incoraggiano la lettura attraverso elementi dell’intreccio e di suspense. Ci forniscono “la pace e la sicurezza” della familiarità che ha un certo valore in quanto non dobbiamo sentirci “fiaccati dallo sforzo di fare domande fondamentali sul significato della vita” come accade invece nei romanzi a carattere letterario.
 
L’esempio principale adoperato da Pamuk per descrivere la nozione di “centro” è stato molto sfruttato, io me lo ricordo dalle dispense che usavamo al liceo, ma è efficace per illustrare il fenomeno. Sapete già che vi chiederò, “Moby Dick ha veramente come argomento una balena? Dapprima Moby Dick sembra trattare della dura vita dei cacciatori di balene, dopo tutto la narrativa si addentra nei particolari della caccia alle balene. Poi, mentre il romanzo esplora la pazzia del Capitano Ahab, l’argomento del libro si tramuta in quello della psicologia dell’ossessione. Infine (e qui Pamuk cita Jorge Luis Borges, che scrive su Melville) , “pagina dopo pagina, la storia cresce fino ad assumere le dimensioni del cosmo.”
È interessante che a rendere un romanzo particolarmente profondo e brillante, secondo Pamuk, sia la grande distanza tra la superficie della storia e il suo centro. Se il centro è troppo ovvio l’atto della lettura risulta noioso. In Moby Dick, il lettore può, “avvertire costantemente la presenza di un centro” ma per molto tempo non ha alcuna idea di che cosa esso sia “Costantemente ci chiediamo cosa potrebbe essere e costantemente cambiamo idea sulla risposta.” Sia per contenuto sia per forma, i migliori romanzi sono costruiti “come un enigma – un puzzle la cui soluzione rivela il centro del romanzo.” 
L’obiettivo per il lettore è di “ dover cercare di immaginare il centro in ogni frase e ogni paragrafo, per poter distinguere tra ciò che è importante e ciò che non lo è.” Per raggiungere tale obiettivo la narrativa utilizza un congegno molto sottile, cioè “parla di cose importanti come se fossero irrilevanti e di cose di scarsa importanza come se invece fossero rilevanti.” (È sconsigliabile utilizzare questo metodo al lavoro!)
È indubbio che questa descrizione generi confusione, ma ho cominciato a considerarla mentre leggevo il nuovo romanzo di Jennifer Egan “A visit from the Goon Squad” (Una visita dalla squadra dei picchiatori), romanzo per il quale l’autrice ha vinto il Premio Pulitzer nel 2010 e il National Book Award nel 2011. Nel libro l’autrice presenta una serie di storie collegate spesso da un solo personaggio che appare in storie precedenti. Le voci di superficie (ogni capitolo ha un narratore diverso) sono sigillate, a volte chiacchierine, a volte propense a digressioni, impegnate nella vita quotidiana e mai ovviamente profonde. Le storie sono ambientate in contesti relativi alla musica come business. Ma di che cosa tratta veramente il libro? Del tempo, della perdita e della velocità con cui passa la vita.
Mentre cominciavo a leggere “Goon squad” mi chiedevo cosa potesse significare quel titolo così bizzarro. Ma a circa un terzo del libro, e una volta sola, Egan lascia intravedere le sue carte. Mi riferisco a due righe del dialogo a pagina 273. Un chitarrista fallito, parlando delle sue condizioni deteriorate venti anni dopo l’iniziale successo, dice “Il tempo è un picchiatore, vero? Non è l’espressione giusta?” Un altro personaggio lo ripete, dichiarando di non aver mai sentito quell’espressione. È tutto qua, ma è un chiaro indizio che rivela il centro del libro. Salta all’occhio, non può scappare ad un lettore attento. Ma piuttosto che perdere curiosità questa scoperta mi ha proiettato verso tutto un altro livello di lettura. Egan non si è dilungata in spiegazioni, e questo rende ancora più intrigante la cosa. In che senso tratta del tempo questo romanzo? Pur non avendo veramente alcun interesse per gli aspetti commerciali della musica e pur non essendo i personaggi particolarmente gradevoli, ciò non mi ha distolto dalla voglia di mettere insieme i tasselli del puzzle e trovare il significato di queste storie collegate tra di loro.
 
La verità della menzogna
 
Secondo Pamuk è proprio l’idea del centro a distinguere il romanzo dalle forme letterarie più lineari quali l’epica, le tradizionali narrative di avventura o i romanzi d’amore. L’altro fattore che sancisce l’efficacia del romanzo è la contraddizione tra la credulità del lettore e dello scrittore rispetto alla storia esposta nel romanzo e la loro coscienza che tuttavia si tratta di una menzogna. Per scrivere o leggere bene un romanzo dobbiamo essere ingenui e sentimentali/riflessivi allo stesso tempo.
In uno stimolante ed ironico capitolo intitolato “Sig. Pamuk, ma davvero le è successo tutto questo?” l’autore descrive un fenomeno che può essere corroborato da qualunque scrittore abbia partecipato a un tour di presentazione di un proprio libro, cioè la convinzione di fondo da parte dei lettori che il libro sia autobiografico. Mentre, naturalmente, non lo è. Eppure i romanzieri attingono alle proprie esperienze di vita cercando con tutte le proprie forze di far perdere, di invischiare, i lettori nella storia che narrano. Pamuk sostiene che nel suo romanzo, Il museo dell’innocenza pubblicato nel 2008, “era mia intenzione che il romanzo fosse percepito come opera di finzione, un prodotto dell’immaginazione, ma allo stesso tempo desideravo che i lettori presumessero la veridicità dei personaggi principali della storia.”
Poiché sappiamo che la storia non è vera - o almeno così ci viene detto - leggiamo i romanzi in maniera completamente diversa dalle memorie, o da altri testi che si presentano come testimonianza di fatti realmente accaduti. Non appena un libro viene chiamato romanzo, “iniziamo a cercarne il centro, interrogandoci sull’autenticità dei dettagli, chiedendoci quali parti siano reali e quali frutto dell’immaginazione.”
Quando un romanziere vive sotto un regime di oppressione, questo potere del romanzo - il fatto che unisce il vero e il falso – assume ancora un’altra dimensione. Lo scrittore non può dire la verità direttamente, o almeno dichiararla tale, ma la può divulgare in guisa di finzione.
Quando sia lettori che scrittori mantengono l’illusione del romanzo pur riconoscendone la natura costruita, sono in grado di ricevere i doni speciali della sua forma, “evadere dalla logica di un mondo cartesiano con un unico centro in cui corpo e mente, logica e immaginazione sono collocate in contrapposizione. I romanzi sono strutture uniche che ci permettono di mantenere pensieri contraddittori senza provocare disagio, e di capire simultaneamente punti di vista diversi”.
Oltre alla dicotomia vero/falso, espandiamo la mente identificandoci con i vari personaggi. Il romanzo ci permette di “ liberarci da noi stessi, diventare un’altra persona e, per una volta, vedere il mondo attraverso gli occhi di un altro”. Sotto elenchiamo i consigli che Pamuk offre a chi desidera scrivere romanzi, illustrando tecniche per far identificare il lettore con diversi personaggi. Una volta allargati i confini, “abbiamo anche la sensazione che la nostra mente abbia la capacità di credere a molte cose allo stesso tempo – e che né la nostra mente né il mondo veramente contengano un centro.” Un’aggiunta alla sua idea di “centro” che potrebbe sembrare davvero paradossale.
Esattamente per queste ragioni, Pamuk chiama il romanzo “finzioni tridimensionali” che mi riporta alla mente la “terza tigre” nel libro di Borges Tigri del sogno. La terza tigre che cerca Borges non è la creatura vertebrata reale “con il suo sangue caldo” – l’ingenuo o il puramente naturale. E non è neanche la mitologia della tigre, la creatura “del sogno, un sistema di parole” e simboli – il sentimentale/riflessivo. La terza tigre è qualcosa che sta tra di loro od oltre a loro, in una terza dimensione oltre entrambe:
So bene
Che qualcosa mi affida questa ricerca
Indefinita, priva di senso ed antica, e procedo
Cercando nel tempo del meriggio
L’altra tigre, quella che non è in versi
-          Da Tigri del sogno, di Jorge Luis Borges
 
Scrivere la tigre
 
Il libro di Pamuk è ricco di consigli per la scrittura di romanzi. Se questi brevi assaggi vi inspirano vi consiglio di comprare il saggio per poterlo approfondire.
Il romanziere deve fare in modo che ogni particolare del romanzo “sia collegato ad ogni altra cosa e che questa intera rete di rapporti dia forma all’atmosfera del libro e che stia a indicare il suo centro segreto.”
Pamuk consiglia che “proprio come i giocatori di scacchi che anticipano la mossa dell’avversario, il romanziere [deve] sempre prendere in considerazione l’immaginazione del lettore e i desideri e le motivazioni che la animano. La probabile risposta della mente del lettore è una delle più importanti considerazioni per lo scrittore”. In altre parole, “quando si tratta di realizzare un romanzo, le intenzioni del lettore sono importanti quanto quelle dello scrittore”.
Pamuk prende la massima tipica dei laboratori di scrittura “Show don’t tell (Mostra non dire)” e la porta verso una novella direzione, “La sfida e la gioia profonda scaturiscono dal romanzo non quando deduciamo il carattere del protagonista dal suo comportamento, ma quando ci identifichiamo in lui… Lo scrittore che si fida dei poteri dell’immaginazione del lettore si limiterà a descrivere e definire con parole le immagini che costituiscono i momenti del romanzo lasciando i sentimenti e i pensieri al lettore”.
Come si realizza quanto sopra? Quello che Pamuk chiama “‘il paesaggio’ del romanzo – gli oggetti, le parole, i dialoghi e tutto ciò che è visibile – devono essere considerati  parte integrante ed estensioni delle emozioni dell’eroe”. Scrivere un romanzo implica abbinare le emozioni ed i pensieri di ciascun protagonista con gli oggetti che lo circondano e poi combinarli in una frase, con un unico abile gesto”. Illustra come ciò avviene in Anna Karenina, “Tolstoj non ci dice quali siano i sentimenti di Anna mentre è sul treno di San Pietroburgo. Invece dipinge quadri che ci aiutano a sentire quelle emozioni, la neve visibile dal finestrino sulla sinistra, l’attività nel compartimento, la temperatura fredda, etc. …”.
Il romanzo crea identificazione entrando nei sensi del personaggio, “Ciò che importa non è il carattere dell’individuo, ma il modo in cui reagisce alla moltitudine di forme del mondo – ogni colore, ogni evento, ogni frutto e gemma, tutte cose portate dai sensi”.
 Pamuk manifesta scarsa considerazione per gli ‘articoli di fede’ articolati da E.M. Forster e accettati in maniera ‘ingenua e acritica’, cioè che i personaggi s’impossessano dei romanzi mentre li si scrive. Lo scrittore obietta che è il centro che inizia a impossessarsene. “[P]roprio come il lettore sentimentale-riflessivo procede nella lettura cercando di individuare esattamente qual è il centro, il romanziere esperto procede sapendo che il centro emergerà gradualmente con la scrittura e che l’aspetto più difficile e allo stesso tempo più gratificante del suo lavoro sta esattamente nel trovare questo centro e metterlo a fuoco”.
Come procede lo scrittore? “[m]entre un angolino della mia mente è impegnato a creare personaggi fittizi che parlano e si comportano come i miei eroi, e che generalmente cercano di mettersi nella pelle di un’altra persona, in un altro angolino della mente valuto attentamente il romanzo nel suo insieme – scrutando l’intera composizione, valutando il modo in cui lo leggerà il lettore, interpretando la narrativa e gli attori e cercando di prevedere l’effetto delle mie frasi… Più il romanziere è in grado di essere simultaneamente ingenuo e sentimentale meglio riuscirà a scrivere”.






Traduzione dall'Inglese di Pina Piccolo.






Cherilyn Parson abita a Berkeley, in California. I suoi racconti e saggi sono stati pubblicati nei quotidiani San Francisco Chronicle e Los Angeles Times, nelle riviste Online Journalism Review, New York Newsday e in antologie letterarie. Lavora presso il Center for Investigative Reporting e ha conseguito un master in scrittura professionale dalla University of Southern California.





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