UNA BOTTIGLIA IN MARE Carlos Aiub, I Versi Ritrovati: Una storia che ci incoraggia a continuare la lotta, 35 anni dopo il Golpe Militare Juan Aiub Ronco
Il ritrovamento di un vecchio quaderno a righe è la punta dell’iceberg di questa storia. Sopravvissuto al saccheggio militare, il quaderno nascondeva un tesoro. Una trentina di poemi scritti a mano da Carlos Aiub, militante del Movimento Rivoluzionario 17 Ottobre (MR-17), poeta, desaparecido. Questo quaderno è un dialogo, un incontro attraverso il tempo con l’autore di questa nota, Juan Aiub Ronco, figlio del poeta.
Il sequestro e la scomparsa di tre dei loro figli allontanò i miei nonni paterni da un mondo insensibile dove non avrebbero mai più messo piede. Per sopravviverci, si attaccarono al meccanismo meno utile: conservare la maggior quantità di oggetti che erano appartenuti a Carlos (mio padre), Riqui e Marita. Questo accumulo garantiva una presenza costante dei tre nell’aria vischiosa e grigia che non si sarebbe mai consumata nella vecchia dimora di Coronel Dorrego. Con ossessione da museologi, classificavano o esponevano i giocattoli, i quaderni scolastici, i vestiti e le maschere, le medaglie, i trofei , i diplomi, gli strumenti musicali e milioni di fotografie.
Gli oggetti che avevano protetto inizialmente, che appartenevano all’infanzia e alla gioventù dei loro figli, si assommarono nel giugno del 1977 a quelli che ricevettero da La Plata dopo il sequestro dei miei genitori. Gli altri miei nonni dovettero salvare dalla casa in rovina tutto ciò che era sopravvissuto al saccheggio, rovistando come riscattatori senza speranza tra i rottami di un terremoto. Tutto quello che sembrò essere intero fu caricato su un camion dei traslochi e portato a Dorrego, dove gli Aiub accettarono con piacere la possibilità di badare al patrimonio di Carlos e Beatriz fino a quando non fossero tornati.
Questo culto della conservazione non lo avevano iniziato dopo la scomparsa dei loro figli, ma fu in quel momento che per i miei nonni , la collezione materiale prese il valore dell’aria che respiravano. Non trovarono altro appiglio dove attaccarsi quando iniziò l’abisso. Fu, all’inizio, la garanzia di un sicuro ritorno; poi, l’alimentazione di un’aspettativa costante che perdeva di intensità con il passare del tempo e, per ultimo, la prova rassegnata che questi oggetti avevano avuto dei padroni, erano stati di proprietà, erano stati acquistati o creati per vive necessità di cui non c’era più segno, ma solo nulli risultati di ricerche disperate.
Anni dopo, la morte dei miei nonni ci mise, me e mio fratello, verso la fine della nostra adolescenza, davanti il compromesso inevitabile di decidere la destinazione che avremmo dovuto dare agli oggetti accumulati e tenuti da loro per tanto tempo. Alla fine, non eravamo disposti a caricare come chiocciole le tessere del nostro passato, portandole in ogni luogo in cui ci saremmo diretti. Dovevamo disfarci della collezione e del senso di colpa che cominciava a perseguitarci proprio a causa di questa azione codarda. Fummo obbligati ad analizzare, sminuzzare, classificare e decidere la destinazione, non solo finale, ma anche degna, di ogni cosa appartenuta ai miei vecchi e ai loro figli, per appropriarci quindi solo dell’indispensabile, se c’era qualcosa a cui calzava questa definizione. Fu durante questi giorni di ritrovamenti e scarti, di incontri e rifiuti della propria storia (e quando sembrava che ormai niente ci potesse più sconvolgere) che dentro una vecchia cassa malmessa, accanto alle rovine di una scacchiera a calamita, una bandierina di River Plate e alcune riviste di storielle, si rivelò davanti ai nostri occhi il vecchio quaderno ad anelli, di una paradossale marca Sucesso, guardiano ingiallito dei trenta poemi scritti a mano da mio padre.
Il quaderno terminava così la sua prima prigionia e iniziava la seconda, nelle mie mani. C’era ancora molto da conoscere su mio padre prima di buttarmi nella sua poesia. Quasi tutto. Molte domande e poche persone a cui rivolgerle. Molta rabbia repressa ancora stazionata in luoghi sbagliati. Molte eredità da ricevere, senza ritenerle tali. Cercavo invano, in quei giorni, di scoprire qualche porta che mi avrebbe espulso dalla mia storia, permettendomi di entrare in qualcuna più confortevole, e i poemi del mio vecchio non mi portavano affatto su questa strada.
È per questo che per anni – e mentre scoprivo che non esiste rinuncia possibile all’identità– rinchiusi il quaderno in una cassa simile a quella in cui lo avevamo trovato. Sapevo che qualche meccanismo latente in me doveva prendersi carico di liberare, prima o poi, la poesia sopravvissuta. Finalmente, questa attivazione arrivò a metà dell’anno 2007 quando, al compiersi dei trenta anni dalla scomparsa di mio padre, decidemmo di pubblicare Versi Ritrovati, il libro (e il sito web: www.versosaparecidos.com.ar) che contiene i trenta poemi inediti di Carlos Aiub.
***
Carlos, il maggiore dei tre fratelli Aiub,era nato il 17 dicembre del 1949 a Coronel Dorrego, un paesino di campagna nel sud della provincia di Buenos Aires. Lì trascorse la sua infanzia e la gioventù: era un alunno modello alle elementari e alle superiori, giocava a calcio (un nove con più voglia che abilità), era un fervente cattolico (chierichetto e membro dell’Azione Cattolica), ascoltava i Beatles, esultava ai gol di River, collezionava figurine, giocava a scacchi, leggeva Sandokan e sognava di essere uno dei personaggi di El Tony o D´Artagnan.
Una volta terminati i suoi studi secondari, Carlos si spostò a La Plata per studiare geologia, carriera in cui si laureò più tardi. Durante questi anni, la facoltà, la pensione studentesca e la realtà gli mostrarono che la chiesa non era lo strumento sufficiente per raggiungere i cambiamenti legittimi che iniziava a sognare. Si avvicinò al Peronismo di Base e iniziò la sua militanza di quartiere; lì conobbe Beatriz Ronco –Bea nei suoi poemi– che fu sua compagna, sposa, e madre dei suoi due figli. Insieme e in compagnia di Riqui, scelsero il Movimento Rivoluzionario 17 Ottobre (MR-17) come nuovo spazio di lotta. Sarebbe stato quello nuovo e definitivo.
Il colpo di stato del 1976 ferì tragicamente la storia del popolo argentino e con la stessa intensità ferì la mia famiglia: il 9 Giugno del 1977, arrestarono a La Plata Beatriz Ronco e Ricardo Aiub; il giorno dopo, Carlos, del quale non si conobbe mai la prigione; un mese dopo in un’azione militare, assassinarono Marita, suo marito Rafael Caielli (militanti Montoneros) e Claudio, il figlio di entrambi di solo due mesi di età; sempre nel luglio di quell’anno, sequestrarono a Coronel Dorrego, María, la madre dei fratelli Aiub che, dopo essere stata brutalmente torturata, fu liberata giorni dopo.
***
Carlos era un appassionato della letteratura; già laureato e docente nel Museo di Scienze Naturali, continuava il suo lavoro alternativo di vendita ambulante di libri. Il suo socio era uno scrittore che percorreva La Plata a bordo di una vecchia Citroën azzurra sulla quale scriveva a mano con il colore bianco gli aforismi di sua creazione (La mano amica, si appoggia sulla spalla; la ricordo scritta su un parafango). Insieme, vagavano per le stradine dei comuni offrendo libri che caricavano od ordinavano sul catalogo. Si erano conosciuti anni prima come vicini di bancarella alla fiera dei libri usati che si svolgeva regolarmente nella piazza San Martín de La Plata, la piccola Plaza de Mayo di questa città, da dove poi avrebbero marciato le Madri, dove molti anni dopo avrebbero marciato i FIGLI.
Nonostante questa passione del mio vecchio per la lettura, non è molto quello che rimase della sua biblioteca, quasi niente, solo un paio di libri e qualche testimonianza: A sangue freddo, di Truman Capote e Giro di Vite, di Henry James, considerati indispensabili da lui stesso. Tempo dopo la pubblicazione dei Versi Ritrovati, scovammo un’antologia di Paco Urondo che era appartenuta a mio padre. Confermando così il sospetto quasi ovvio che qualche volta avesse letto il poeta santafesino (di Santa Fé ndt). Ma nient’altro, questo era tutto. Il resto fu distrutto dal gruppo incaricato di svuotare quella che era stata la mia ultima casa paterna o fu gradualmente abbandonato dal mio vecchio nei traslochi anteriori di cui non doveva rimanere traccia alcuna.
Insistere nel voler conoscere quali fossero state le sue letture era solo una prova in più per scoprirlo come scrittore, categoria della quale non c’era altra pista percorribile se non il quaderno ritrovato. Solo quest’ultimo e niente di più. Nessuna persona a lui vicina, almeno tra i vivi, conosceva quest’altro Carlos celato, il poeta. Nessuno, neppure il suo amico scrittore di aforismi. Niente, neppure una certezza, solo il quaderno. Quale sarà stata la reale dimensione dell’opera del mio vecchio? Avrà scritto solo questi trenta poemi? Oppure questi saranno solo una piccola porzione di un’opera più consistente? E lui avrebbe voluto pubblicarli? Queste sono tutte incognite di cui non conosceremo mai la risposta per colpa della dittatura. Non solo ci fu negato di conoscere la fine dei corpi, infinite domande aperte come queste, ci accompagnano giorno dopo giorno, cariche di un peso irreale, quasi tangibile, sulle loro scomparse.
Penetrare nel quaderno del mio vecchio per trascrivere la sua poesia con l’intenzione posteriore di diffonderla è risultato un viaggio cifrato. Perché le poesie per prima cosa fanno vedere la loro scrittura esclusiva composta da lettere maiuscole e privi di punteggiatura. La maggior parte non ha titolo, solo a pochi ne è stato dato uno. Qualcosa di simile accade con le date, non tutte sono state apposte da Carlos; contemplando le poesie che già erano datate, risulta strana l’inesistenza di una linea cronologica all’interno dell’ordinamento spaziale (l’ordinamento è stato rispettato nella pubblicazione e su questa base, numerati): le poesie vanno e vengono nel tempo, passano dal 1972, saltano al 1975 e ritornano nuovamente agli anni anteriori. Insieme all’incognita di questa linea temporale interrotta, il quaderno mostra un deciso uso della china (basta accarezzare i fogli ingialliti per rendersene conto), con macchie e correzioni praticamente inesistenti. Come spiegare la strana ubicazione delle poesie? Come intendere questa sicurezza nella parola? L’unica risposta che ha calmato la mia vocazione di detective selvaggio è che il quaderno contenga una scelta fatta da mio padre, una raccolta di poesie costruita per essere legata nell'ordine da lui stabilito e in modo completo, come la mappa di un tesoro perduto (la rivoluzione?), dove solo la soluzione di ogni pista permette di avanzare a quella dopo. Il quaderno è come una bottiglia lanciata in un mare agitato, il cui messaggio non porta le speranze di un riscatto impossibile, ma le coordinate di un’isola dove è possibile perdurare nel tempo e spezzarne la dimenticanza.
La poesia di Carlos Aiub è la poesia ferita dalle schegge di una realtà feroce. È la poesia che sanguina davanti alle evidenze di un mondo diviso. È poesia a momenti agonizzante, dove la vicina possibilità della morte non viene neppure sedotta dal dubbio di un’alternativa posteriore, ma subita come il vuoto che non permetterà sintetizzarsi nel trionfo dell’inesorabile. Ma è anche poesia armata, poesia che abbraccia un fucile seguendo la vertigine e l’intensità di una trasformazione urgente. È poesia intima, riconoscendo nel suo amore per Bea il motore necessario per il quotidiano addentrarsi della realtà vischiosa. Ed è, soprattutto, poesia impegnata, quella che racconta dei suoi figli, fiorenti e protetti, temendo una forte impossibilità di vederli crescere, ma confidando nella libertà come unica possibile eredità.
***
Il linguaggio scelto da Carlos privilegia la contundenza della parola sulle forme estetiche complesse: I dubbi per sapere se si raggiunge solo con il volontarismo l’andare qui e là l’odio e l’amore uniti in ogni parola o in ogni sguardo/ se raggiungere con l’ottimismo o il voler pulire mezzo mondo (…) – poema sei –. Queste incertezze che non riesce a sconfiggere marcano i limiti di un universo intimo, da cui Carlos ci parla e parla a se stesso: i versi che ancora provi a colpi/ l’amore e l’odio insieme/ senza sapere quale sia l’uomo o l’altro da un certo momento in poi (…) – poema due –.
I suoi versi sono carichi di un’estrema malinconia, rifugio essenziale dove recuperare le forze per rimanere in quella cornice i cui rischi vede vicini e decide di non abbandonare: e andare avanti nonostante questi dubbi / sapendo che questa è la tua vita e che non ne potrai mai scappare perché non vuoi farlo (…) – poema sei –; la tristezza è un pezzo di cielo dalla finestra piccola della cella/ è morire e non vedere il trionfo (…) – poema dodici–.
Ma la militanza è, nonostante tutto, allegria (…) l’allegria di noi in loro…/ l’ allegria in questa guerra/ le parti pulite della guerra sporca nella grande guerra/ l’offerta generosa pura/ l’offerta studiata forse per domani stesso…/ la piccola zona liberata dei miei sogni di stratega/il segno della guerra quotidiana…/ che mescola così semplicemente il nostro con il quartiere, con i compagni della militanza quotidiana (…) – poema uno –.
Mio padre liberò una guerra prolungata dal giovane cattolico che era stato e che sembrava non essere del tutto scomparso: tutto sta cambiando/ perfino quel bambino che è arrivò se arrivò/ e quella pace che portò/ pensi basta con l’oppio/ basta con questa pace dei sepolcri (…) – poema diciotto –; pensare a Dio/ e molte volte dubitare (…) – poema tre –.
La sua poesia trova posto per onorare i compagni fucilati nel massacro di Trelew: Ritorno alla vita da voi non conclusa/ ritorno alla poesia anche quella inconclusa/ ritorno al mio cammino di allora ( tre anni fa Trelew 22 agosto)/ e cerco (…) – poema diciassette –. In un altro dei poemi rende omaggio a un compagno caduto detto "El Gordo" (“Il Grasso”), con il quale ricorda di aver condiviso anni di pensione universitaria e militanza studentesca per poi ognuno intraprendere percorsi di lotta diversi. La pubblicazione di Versi Ritrovati e la sua ripercussione posteriore ci ha permesso di identificare il Gordo: si tratta di Carlos Starita, militante del ERP che fu ucciso in uno scontro relativo al sequestro dell’allora direttore del quotidiano El Día, di La Plata. Questa morte spinge Carlos, una volta ancora a riflettere sulla morte e la sua vicina possibilità: quel Gordo è quello della notizia che ti racconto/ è il ricordo che ti porta l’idea più concreta della morte – poema otto –.
I dubbi che pesano nelle parole di Carlos sembrano schiantarsi davanti la sua più grande certezza, l’amore per Beatriz, mia madre: Per la tua continua devoluzione di tenerezza e sorprese/ per te sola e di ciò che cerchiamo/ è questo il mio regalo più intimo – poema diciannove –; per quello che accadrà/ per quello che cerchiamo/ per tutto questo Bea/ ti amo – poema ventuno –.
Torno solo un’altra volta sui poemi di mio padre alla ricerca di nuovi segni, convinto che ci saranno nuovi ritrovamenti. Tuttavia non posso evitare di fermarmi, indifeso, sempre sugli stessi versi in cui mio padre parla a sé stesso:
Temi anche la tua dimenticanza
o qualcosa così
quello che penseranno di te
se ti ricorderanno
se il tuo nome battezzerà qualcosa o servirà a qualcosa
temere la fine che non ti lasci vedere il finale
Di tutte le conseguenze dovute alla pubblicazione di Versi Ritrovati, forse la seguente è stata la più preziosa, l’unica capace di attraversare la poesia del mio vecchio, di sfidarla, di chiudere sebbene sia una delle incognite che ci ha lasciati la sua parola interrotta. Riporto la risposta di una compagna del mio vecchio ai versi sotto. Lei era incinta quando sequestrarono Daniel (nome di guerra di mio padre) e dice di essere viva grazie al silenzio del mio vecchio sotto tortura:
Carlos (Daniel), si ti ricordiamo.
Memoria eterna, passerà di generazione in generazione.
Si, battezzasti mio figlio che porta il tuo nome, tu lo salvasti.
***
Non mi appartiene un solo ricordo di mio padre, manco assolutamente di ciò. Neppure uno. Per quanto cerchi e mi rimproveri, non riesco a recuperare neppure una scena; avevo solo 64 giorni quando lo sequestrarono. Ho cercato di appropriarmi di qualche ricordo estraneo ma l’esperimento non funziona. Non riesco neppure a conformarmi con i ricordi delle sue foto, il fatto di osservarle infinite volte non mi permette comunque di entrare in esse, nonostante tenti di farlo, non riesco a penetrarle. La mia memoria su di lui ha solo due dimensioni e una cornice bianca, sono sempre le stesse immagini trattenute contro quelle che ho vissuto io stesso fino a superarle come età. Non riesco a dare una forma al suo corpo, né, tanto meno, dotarlo di vita. Tuttavia, e dalla comparsa dei poemi, ho iniziato a ricordare la voce di mio padre. Ricordo una voce che non ho mai sentito, o che solo ho ascoltato per pochi giorni. Ricordo suoni e parole assai molto vicine che non rispondono alle mie domande (ho cercato di trovare risposte) né mi mostrano come procedere (ho provato a trovare anche questo). La voce che ricordo recita solo i versi che gli appartengono, ed è in quelli che devo cercare l’incontro incompiuto con mio padre. Raggiungere infine questo dialogo postumo, oggi è un minimo trionfo, ma possibile.
Traduzione dallo Spagnolo di Samanta Catastini.
|