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Sagarana DALL’ALTRA PARTE DELLA VITA


Gennaro De Falco


DALL’ALTRA PARTE DELLA VITA



 

Sono sopravvissuto, come tutti d’altronde. Soltanto dopo la tua morte sono riuscito a dare un senso a quelle frasi che mi sembravano dei luoghi comuni, fatte di parole di circostanza; “il tempo cancella tutto”, “la vita deve continuare”, “hai un futuro a cui pensare”. Le ho sentite dire tante volte ad altre persone, e poi è toccato sentirle dire a me. Capita anche questo, ed è capitato inaspettatamente, come la tua morte.
“Mio padre si è suicidato”, faccio fatica ad usare queste parole. E’ più comodo dire che sei morto; non bisogna dare tante spiegazioni. Certo c’è chi insiste, chi ti chiede come sei morto, quanti anni avevi e varie altre domande che rischiano di mettermi in difficoltà. “Una morte improvvisa”, è questa la mia risposta, oppure “un incidente, ci ha lasciati tutti di stucco”. E così vado avanti, senza pensarci più di tanto. Ho cercato di lasciare alle spalle il tempo del pianto, e della rabbia.
Però non riesco sempre a nascondermi, e non posso nascondere il fatto che a volte ci penso. Penso ai però, ai se, alle parole che non ho capito, ai tuoi stati d’animo che forse non ho saputo bene interpretare. Sei stato sempre tu l’uomo forte, il padre-padrone di casa, quello le cui scelte non andavano mai discusse, quello a cui non si poteva mai dire di no.
Era questa l’immagine di te che ho avuto sempre. Non sono stati sufficienti i tuoi mutati atteggiamenti quando ci siamo visti a luglio, non sono bastate le tue richieste d’affetto che facevo fatica a raccogliere. Ho sbagliato, forse posso dirlo ora, a distanza di tempo, perché il tuo suicidio mi ha dato una interpretazione diversa di te.
Forse volevo punirti: per una volta che eri tu a chiedermi aiuto, te l’ho rifiutato, un modo di equilibrare quello che non ho mai condiviso di te, la tua educazione, la tua rigidità, la tua eccessiva presenza.
Certo, ora non penso più al padre severo, ora penso al padre bisognoso di aiuto. E mi pento. Ora, quando vedo le rigide linee del tribunale di Milano, penso a quelle stesse linee che si ripetono nel palazzo delle poste di Napoli, dove andavi a salutare i tuoi colleghi; penso ai pomeriggi assolati d’estate, quando mi tenevi per mano, e camminando per corso Umberto, ti fermavi in quei coloniali pieni di ogni ben di Dio, che ora si fa fatica a trovarli, e che quando trovo, e mi ci fermo davanti per vedere le confezioni colorate esposte in vetrina, mi rivedo improvvisamente bambino. Penso a quando spazzavi in casa, ed eri terribilmente rumoroso, con quei zoccoli che mettevi ai piedi non appena tornavi da lavoro. Penso alla tua voce grossa e doppia che in chiesa pregava la domenica. Penso a quando ti affacciavi di sera al balcone di casa e commentavi il tempo parlando con la mamma: Anna domani sarà umido, c’è afa; Anna senti che bel vento che soffia, domani si starà una bellezza.
Ti affacciavi sempre al balcone prima di andare a dormire. La notte dopo la tua morte mi sono affacciato anch’io al balcone. Ho riscoperto le luci del Golfo, luccicavano di una luce triste e piena di lacrime. Tutto era silenzioso, come sempre capita di notte. Mi è parso di sentire il rumore dei tuoi zoccoli. Un’illusione, direbbe un realista; una presenza impalpabile o un segno del destino, direbbe uno che non ama i realisti.
Ma per un momento, parlando con te, voglio addentrarmi nella realtà, quella che vivo e nella quale un giorno potrei diventare padre; e vorrei essere un buon padre, e forse per capire come esserlo dovrei fare in modo che mio figlio mi capisca, che possa comprendere anche i miei lati oscuri. Anche mondi lontanissimi, come il tuo ed il mio, potevano trovare un punto di incontro.
Un incontro che non è rapporto di sangue, ma affetto e parola. Non abbiamo parlato ed è una lezione che ricorderò per tutta la vita. So che è difficile parlare, a volte impossibile. So che è altrettanto difficile, e a volte impossibile, mettersi a nudo. Più facile irrigidirsi, mantenere le proprie posizioni come hai fatto tu, come ho fatto io. Qualcuno dice che siamo simili, è probabile, proprio per questo non ci siamo attratti quando dovevamo farlo. Siamo rimasti entrambi coriacei. Chi ha vinto? E’ una guerra silenziosa in cui non ha vinto nessuno, oppure abbiamo vinto entrambi. Interpretazioni entrambi sostenibili, anche dal più rigoroso dei logici.
Forse un logico, o il realista di cui ti ho parlato prima, non potrebbe capire alcune mie ossessioni, quelle che non vanno via; mi capita di chiedermi cosa pensassi quando ti sei lanciato, se sei morto subito oppure no, a chi dei tuoi figli hai lasciato l’ultimo saluto su questa terra. Sono dettagli che non cambiano la realtà dei fatti, e con questa ammissione so di rendere felice chi dice semplicemente “non ci pensare”, eppure faccio fatica a distogliere i miei pensieri e portarli in un altro posto.
Sette piani si fanno in sette secondi, o forse di meno, non so. E’ un tempo brevissimo che ha deciso la tua vita. Il mio tempo, quello che mi serve per superare i miei e i tuoi errori, per evitare di ripeterli, è molto più lungo. Perché se siamo simili, e parto da questo postulato d’affetti, anch’io posso commettere i tuoi errori. Ma bisogna avere anche la forza di superarli, non voglio creare nella realtà le saghe familiari dove gli errori si tramandano di generazione in generazione. Ci sono gli scrittori per creare queste saghe.
Mi avevi chiesto quale nome avrei messo un giorno a mio figlio. Potevo risponderti, per risollevarti da quella tua stanchezza che era diventata cronica, che avrei messo il tuo nome, Ernesto. Ma non l’ho fatto.
Ora, a mio figlio darei il tuo nome, mi farebbe pensare a ciò che sei stato e a ciò che non sei stato ma che potevi essere. E riempio la parte che non sei stato con la mia immaginazione. E così ti vedo un padre diverso, un padre con cui ho parlato, e mi vedo un figlio diverso, un figlio che ha parlato con suo padre. Sembra solo un gioco di parole, ma è un gioco che vorrei condividere con mio figlio. Abbracciandolo e chiudendo gli occhi. E ritrovandomi accanto a te, in un luogo che non ha spazio. Anche questo sembra un gioco di parole, ma so che c’è uno spazio dove si ritrovano gli affetti. Come scrive Céline, è dall’altra parte della vita.




Gennaro De Falco č nato nel 1976 a Napoli. Avvocato, attualmente vive e lavora a Milano. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti letterari – tra gli ultimi: Arcobaleno della vita 2010, Peter Russell 2010, Tapirulan 2010 – ed č presente in diverse antologie, anche on-line. Ha pubblicato una raccolta di poesie, Panchine d’inchiostro, che č presente in diverse biblioteche nazionali ed estere. Collaboratore di riviste on line che si occupano di filosofia e di diritto, ha condotto alcuni incontri sul tema della poesia in alcuni istituti superiori della Regione Lombardia.




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