BASILICO Ernesto Aloia
Ma tu guarda che faccia. Che schifo. Pallido come un vampiro. Con gli occhi rossi. Le occhiaie
nere nere. Già la sento mia madre. E che gli dico, guarda Mamma, non è colpa mia, tornando a casa
ho dato un passaggio alla Rosetta, sai quella che chiamano la Melona, be’, per farla breve io non
volevo ma lei ha rollato un cannone grassissimo e ci siamo fermati sulla statale... ma siamo
impazziti?
Ma tu guarda. Che roba. Io galleggio in un olio di oliva crepuscolare. La Twingo lilla fila che è
un piacere verso il tramonto. La Rosy è venuta lei da me all’Idea Viaggi: parlavo con un cliente e
mi è arrivata prima la sua risata gallinesca, di gola, poi il ciaf ciaf dei sandaletti indiani sul
linoleum, e quando ho alzato gli occhi ce l’avevo davanti, tutta un sorriso e un tremolio mammario,
viva la libertà. La guardavano tutti, a quel punto, e io ho pensato ma tu guarda la fricchettona di
ritorno come attizza – e te credo, la nostra Rosetta è una di quelle donne che entrando in una stanza
trovano sempre il modo di urtarti con almeno una tetta, e poi quel culo dondolone! Di faccia però è
da vomito. Diciamo che andrebbe bene per i pornazzi. Così meditando e immaginandola sul set ho
cominciato a sentire un certo srotolìo al piano inguinale (sta a vedere che è arrivata la primavera, mi
son detto), e quando dopo aver fatto il pieno di dépliants ha preteso un passaggio ho accettato
subito, anche se in realtà avrei dovuto passare dal Gigastore a far la spesa per la Mamma.
Non siamo ancora saliti in macchina che lei mi chiede, “Non ti spiace se rollo, vero?”, e senza
aspettare una risposta qualunque ha già tirato fuori dalla borsa di cuoio il set completo, insomma le
cartine, un pacchetto di Camel massacrato, il coltellino e il Bic, oltre naturalmente a una pallina
magica di pongo nero: il tutto sparso in giro dappertutto come piace ai cannonieri professionisti, che
a vedersi ‘sta roba intorno secondo me gli si scalda il cuore e gli viene uno sguardo da Madre di
Famiglia mentre accarezza i pargolotti.
Io era da tanto che non fumavo neanche le sigarette, e mi è venuta una tachicardia che era una
cosa brutta. Mi tremavano le gambe e le mani sul volante, così ho accostato in un’area picnic sotto i
tigli, a quattro metri dalla statale. E lì mi si è spento il televisore. Voglio dire, è stato proprio come
quando si spegne la tele, che lo schermo nella frazione di un attimo si restringe in un punto di luce,
e poi scompare anche quello. Non ci ho visto più. Sono svenuto, credo. Sarà durato due-tre secondi
e scommetto che la Rosy manco s’è accorta di niente, perché quando ho ripreso le trasmissioni l’ho
ritrovata che mi passava il cannone panciuto chinandosi un po’ su di me e in quell’atto premendomi
sul fianco uno dei suoi meloni contadini. E io, strano, stavo bene. Eccome. Ero tornato io, ed era
primavera. Così le ho aperto la camicetta e ho afferrato a due mani una tettona che già debordava
nell’utilitaria. Le ho succhiato i capezzoli, destro e sinistro, glieli ho pure stretti coi denti, ci siamo
baciati, ci siamo scambiati le salive fumose di pachistano mentre ci accarezzavamo le rispettive
parti vitali, e poi zac!, con due dita della mano a pagnottella la Melona mi aveva fatto scattare i
bottoni dei jeans – e confesso che per un attimo quando l’ho vista così svelta e rapace nel tuffarsi a
bocca aperta su di me ho avuto paura, ma perché poi? Boh.
Con tutta la sua fama mica è così brava, la Rosy. Ce la mette tutta, bisogna dargliene atto. Ma fa
sentire i denti. Dunque, è più forte di me, potenza del fumo o postumi del mezzo svenimento di
prima, dopo un po’ io quasi immemore della sua testa che mi fa su e giù tra le gambe mi distraggo a
raccattare i pensierini storti di quella primavera pachistana. E tra le altre cose mi viene in mente che
con l’entusiasmo delle sue aspirazioni la Melona finirà per estrarmi non solo una discreta razione
dell’annata spermatica ’96 ma anche tutto quanto nel corso del mio trentennio e mezzo al mondo si
è venuto accumulando un po’ più in alto, in testa voglio dire, facce parole gesti giornate, o meglio i
loro fantasmi, i ricordi. Una spruzzata memoriale, che idea. Sento già un bollichìo... e viste le
premesse chi mai poteva essere il primo a uscire dalla lampada: chi se non lui, il genio del vecchio
don Mazza, anima più nera della sua tonaca e adesso probabilmente sommerso e stracotto, stufato, dannato tra le fiamme eterne come dannato era stato in vita tra gli ardori del suo desiderio per me
ancora acerbo?
Si sa com’è nei paesi, ti becchi un soprannome e te lo tieni nei secoli. A me tanti anni fa
qualcuno (adesso che ci ripenso sarà stato Juri, e chi altri, con quella faccia da cinese sempre intento
alle malignerie e quella risatina col mento aguzzo in fuori, ih ih ih, è lui l’autore di metà dei
soprannomi di qui) qualcuno dicevo ha cominciato a chiamarmi Il Bradipo, perché nelle partite di
pallone mostravo poco agonismo e voglia di correre e scalciare. In effetti, di solito mi ritrovavo
vagabondo fuori della mischia con le gambe di piombo e la testa che me la portava via il vento, mi
incantavo a esaminare nei minuti dettagli le margheritine tra la magra erba oratoriale oppure
guardavo stupido le nuvole in quei cieli pomeridiani come navigavano lente. Oppure pensavo
semplicemente ai cazzi miei. Fatto sta che nel continuo schiamazzare di “Passa! Passa!” io ero
quello che si faceva da parte e non chiedeva mai palla, tanto che anche sul giornalino dei ragazzi
l’avevano scritto: A DANIELE BOSCHETTI PIACE STARSENE IN UN ANGOLO A FARSI I FATTI SUOI. PER LA SQUADRA È UN UOMO INUTILE. VOTO 3. Un uomo inutile! Ma il brutto è che in quell’inutilità perplessa il pochissimo che sopravviveva del mio orgoglio insisteva a fantasticare di un’occasione di riscatto, un pur breve momento di gloria, che ne so, io con le mani in tasca a centrocampo e la palla che rotola lontano dalla turba, io che prendo la rincorsa, un due tre, tiro di collo pieno, mille stupori, le facce che si voltano verso di me poi verso la porta: gol. Naturalmente gol, nella mia testa.
Naturalmente mai successo – mai avuta quell’occasione, devo ammettere che aveva poi ragione il
giornalino affisso in bacheca all’oratorio: Boschetti detto Il Bradipo andava alla deriva sul campo in
preda a un’oscura malavoglia, lui da una parte e il pallone dall’altra.
Be’, all’origine di tutto c’era lui, don Mazza, un prevosto sui cinquantacinque ma quadrato come
un taglialegna, alto due metri, il mento nero di barba spinata, l’alito putrido e i piedi sempre in
fermentazione (segni certi, a ripensarci adesso, di un marciume che lo riempiva e traboccava pure).
Portava occhiali telescopici, cioè con due lenti che gli facevano gli occhi enormi sì da indurci a
credere che tutto vedesse, come l’occhio azzurro dell’Onnipotente inscritto in un triangolo e
annidato tra le nubi, e invece non vedeva un cazzo; o forse no, per vederci forse ci vedeva fin
troppo bene, solo che guardava contro natura, per esempio noi che facevamo la doccia e ogni altra
situazione di chiappe, palle e pistolini all’aria. E un pomeriggio subito prima dell’allenamento –
avrò avuto sì e no tredici anni – io esco solo dagli spogliatoi e me lo ritrovo appostato nell’androne
che portava al campetto. «Daniele, prima di giocare mi aiuti a mettere in ordine lo stanzino?» E
intanto mi pinzava una spalla con la mano, così io potevo solo dire sì.
«Vai avanti tu, io vengo subito».
Il corbaccio se l’era studiata bene. Lo stanzino, un ex cesso che serviva da deposito per opuscoli
missionari, lui l’aveva preparato prima: così aperta la porta mi trovo davanti ‘sta distesa di carta,
tutto il pavimento, saranno stati tre metri per tre coperti di DONNE e uomini nudi, tutti che
chiavavano ovviamente, e in ogni posizione: nove metri quadrati di fighe divaricate e nerchie
enormi, inculate a incastro e succhiamenti vari e membra umane aggroppate e squadernate lì
davanti a me, che sentii subito come un brivido di nausea lenta risalirmi da sotto la pancia, tra
interiora e coratelle, e la testa che mi partiva in giostra. Lo stanzino aveva solo una finestrella con la
grata, di dove entrava un fascio di luce denso di polvere che faceva l’arcobaleno; in un angolo, nel
suo vaso di terracotta, appassiva una piantina di basilico: era cresciuta tutta storta perché lì dov’era
non prendeva mai sole e in qualche modo, credo, tentava di trascinarsi verso il rettangolo caldo e
brillante al centro dell’ex cesso, e mica poteva portarsi dietro il vaso.
Anch’io, che avrei voluto sparire, non riuscivo a staccare né i piedi dal pavimento né gli occhi
dall’ammucchiata. L’aveva studiata bene, il don lurido. Con il cuore che mi stamburava i timpani,
non mi accorsi dei passi insolitamente felpati e del fruscio di sottana per le scale, sicché non feci
neanche in tempo a rimettermelo nelle mutande, mi ritirai nell’angolo accanto al basilico
preparandomi al peggio, cioè, pensavo, a urlacci e sberloni; e invece lui prese quell’espressione da
lontano parente che vuol dire madonna mia come sei cresciuto, mi ricordo che eri piccolo così, e
stirò persino le labbra in un sorrisino senz’occhi: perché quelli erano di maledetto lupo in voratura, con le pupille dilatate, due bottoni neri, e però pieni di spavento, allo stesso tempo era anche lo
sguardo di un bambino che ha paura di essere scoperto – e sempre, almeno finché non ebbe richiuso
la porta dietro di sé e messo il catenaccio, si controllava alle spalle con piccoli scatti della testa. E
poi? Niente... COME NIENTE? Mi ricordo ancora che stringendomi nell’angolino e sempre
caninamente sbavando piagnucolava, «Ti prego Daniele, ti prego, ti prego, ti prego, ti prego», e poi
me lo ritrovo inginocchiato davanti a fare quello che un prete non dovrebbe mai ma proprio mai
fare, quantomeno ai tredicenni del suo oratorio, e che invece quel tristo a forza di minacce fece
diventare una consuetudine di prima di ogni allenamento e di ogni partita (compreso il fatto di
sputare tutto, dopo, nel vaso del basilico). Così, era ovvio, io spompato e oppresso mi strascinavo
per il campo e Juri nella sua malignità orientale mi chiamava il Bradipo, una bestia sonnacchiosa e
impedita che è la vergogna dei mammiferi. E uno poi dice gli amici. Ma tu guarda che roba.
La Rosy.
Sì, la Rosy. Io con lei ero quasi al dunque, e cominciavo già a chiedermi dove avevo messo il
pacco dei fazzolettini di carta (cinquemila lire al semaforo di viale Marconi), quando il GSM nella
tasca del giubbotto si è messo a trillare come un grillo elettronico.
Era Juri, dal bar.
CHE CAZZO VUOI INFAME DI UN OROLOGIAIO CINESE JURI GAGARIN DI MERDA LASCIAMI IN PACE
RESTATENE AL BAR CON GLI SFIGATI TUOI PARI ROMPIBALLE.
«Juri, sì? Ciao, ti ricevo male... ok, va bene, vengo subito, a tra poco, va bene».
Chi aveva parlato? La voce era la mia, ovvio, ma non ero stato io, non proprio, non il vero me
stesso di adesso voglio dire. Era stata l’abitudine, il passato, i vent’anni da che conoscevo il Cinese
che subito si erano inseriti nella linea tra il cervello e la lingua e avevano preso loro la parola al
posto mio. Succede più spesso che non si pensi che uno vuoi dire una cosa e gliene viene fuori
un’altra. E del resto CON CHI avevo parlato? Non certo col Cinese vero che mi aspettava al bar e che non avevo nessuna voglia di vedere, ma con un fantasma, un ritornante cui senza rendermene conto avevo ridato vita un attimo prima di aprir bocca. Insomma, sotto mentite spoglie il passato parlava al passato. Comunque nella risposta qualcosa di vero c’era pur sempre: infatti sono venuto subito – tra le labbra arancioni e manco a dirlo enormi della Rosy che scusandosi ha sputato fuori dal finestrino, «Perché, sai, la sborra ha un tot di calorie».
Dice il saggio: PLACATA LA LUSSURIA, SI PUÒ PARLARE D’ALTRO. E così per quattro chilometri dopo l’imboscatoio la Rosy, fattasi spirituale, pur di non lasciare la bocca nell’ozio che, si sa, è il padre dei vizi, mi sevizia con le proprietà vibrazionali dei cristalli e la bio-danza e le delizie dei fiori di Bach, con i venti percorsi che l’endocrinologo ayurvedico Choopack ci suggerisce per fare della nostra vita un’esperienza meravigliosa, con la tecnica del viaggio astrale di Swaami Salaami e Atlantide, il grande capo Mano Gialla e la fine del mondo fissata secondo certi astrologi Maya per domenica 12 dicembre 2012, e non prende fiato finché letteralmente non le intimo di scendere aprendole la portiera e non la scarico basita e offesa sotto un lampione.
«Se mi lasci qui sei un bastardo».
Sì.
Ma il silenzio, che bello.
E come ci godo a guardarla che diventa piccola nello specchietto e poi scompare – accelerando
apro pure i finestrini così il vento silvano mi riempie l’abitacolo e la testa e mi aiuta a mutare
pensieri, a lasciarmi alle spalle sulla statale non solo la Rosy con i suoi aromi di sandalo e fumo e
piedi sandalati ma anche la larva in sottana del vecchio don Mazza, e assieme l’immagine di mia
madre ciabattante dalla rabbia intorno alla tavola apparecchiata che ogni sette secondi controlla
l’orologio a muro, STAT MATER DOLOROSA, e così sempre accelerando io tiro dritto oltre le villette in ordine chiuso e la piazza già buia dove il bar brilla come un avamposto umano nella terra del niente, oltre il Cinese maligno e aguzzo, oltre la sala del biliardo con le foto di noi calciatori nelle squadrette di una volta appese alle pareti quotidiane per ricordarci la scontata umiliazione della nostra carne, il crollo senza rimedio delle pance, lo sfoglio dei capelli, insomma il tempo serpente velenoso che si morde la coda e tutta la miseria e sfiga cosmica di noi pulverabili. No, stasera, per stasera, io letterariamente parlando tiro innanzi, oltre, più oltre: metto la quarta e sprinto e per niente bradiposo vado a smemorarmi un po’ più in là, fuori di questa notte e verso l’ultimo sole.
Finché dura. Racconto tratto da «Maltese narrazioni», numero 21, ottobre 1997, riprodotto sul sito Libri Liber del progetto Manuzio. Ernesto Aloia (Belluno, 1965), è laureato in lettere, vive a Torino. Il suo primo racconto, dal titolo Nel cortile in un angolo d'ombra, è stato pubblicato nel 1995 su Maltese Narrazioni. Per minimum fax ha pubblicato nel 2003 Chi si ricorda di Peter Szoke?, una raccolta di cinque racconti (Le notti cieche, Pavel, Concentrazione, Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo, Giorni di un uomo sottile); nel 2006, per lo stesso editore, pubblica Sacra fame dell'oro, una raccolta di altri quattro racconti (La situazione, Missilistica per dilettanti, Punto di domanda, Locuste), vincitrice della XX edizione del premio letterario "Montà d'Alba - C. Cocito". Il racconto La situazione è stato pubblicato in precedenza nella raccolta La qualità dell'aria. Storie di questo tempo (2004), a cura di Nicola Lagioia e Christian Raimo. Nel 2007 esce il suo primo romanzo, I compagni del fuoco (Rizzoli).
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