LATTE PER I SERPENTI Brano tratto dal romanzo Sulle scogliere di marmo Ernst Jünger
(…) Di solito però vivevamo giorno per giorno nella severa ritiratezza del nostro Eremo. Esso era edificato ai margini delle Scogliere di Marmo, nel mezzo di una delle isole pietrose che interrompono qui e là la terra fertile dei vigneti. Il suo giardino era costruito su strette banchine sottratte al pietrame; e ai margini dei rialzi di mura eretti senza calce le erbe selvatiche che prosperavano nella terra succosa dei vigneti s'erano insediate. All'inizio di primavera vi fioriva l'azzurro grappoletto del giacinto muscoso e in autunno il corniolo ci rallegrava col suo frutto luminoso come un rosso lampione. Ma in ogni tempo casa e giardino erano adorni di cespugli di ruta dal color verde argenteo, dai quali, quando il sole era alto, si spandevano onde odorose.
A mezzodì, allorché il gran caldo maturava l'uva, nell'Eremo vi era invece una frescura ristoratrice, poiché non solo i pavimenti vi erano a mosaico, secondo il costume dei paesi del Sud, ma inoltre più di una fra le stanze si addentrava nella roccia. Nondimeno in quelle ore io rimanevo anche volentieri sdraiato sulla terrazza e ascoltavo nel dormiveglia lo stridente frinire delle cicale. Le farfalle svolazzavano per il caldo giardino, sfiorando i fiori selvatici, e le lucertole si scaldavano al sole sulle rocce. Infine, quando la bianca sabbia del viale sinuoso ardeva infiammata, lentamente le lachesi lanceolate vi strisciavano, e il viale n'era presto coperto come un papiro lo è dì geroglifici.
Non avevamo timore di codeste bestie, che dimoravano in buon numero nei valloni e nelle incrinature rocciose dell'Eremo della Ruta e piuttosto ci dilettava, durante il giorno, lo splendore dei loro colori e durante la notte il sottile e scoppiettante sibilo con il quale esse accompagnavano i loro giochi amorosi. Dì frequente, e un poco sollevando le vesti, noi passavamo tra di loro, e se ricevevamo visitatori, che ne paventavano, scostavamo coi piedi le serpi dal viale. Sempre a ogni modo guidavamo gli ospiti per mano in quel tratto del viale, che noi dicevamo dei serpenti; e di frequente io notai come lo stesso sentimento di libertà e dì gioiosa sicurezza, che ivi ci coglieva, sembrasse comunicarsi ai nostri ospiti.
Molte cose avevano concorso a rendere domestici i serpenti, ma senza Lampusa, la nostra vecchia cuoca, noi a mala pena ce ne saremmo accorti. Lampusa, per quanto durava l'estate, deponeva ogni sera per loro una argentea ciotola piena di latte dinanzi alle rocce nelle quali era scavata la cucina, e con un suo grido gutturale chiamava i serpenti. Agli ultimi raggi di sole si vedevano le auree volute luccicare nel giardino strisciando sopra la scura terra delle aiuole di gigli e di tra le siepi di ruta, di un verde argenteo, e su per nocciuoli e sambuchi. Di poi i serpenti si disponevano attorno alla ciotola formando un disegno come di fiammea mota e ricevevano il loro cibo.
Lampusa, durante queste distribuzioni, tenne ben presto in braccio il piccolo Erio, che accompagnava il grido di lei con la sua vocina. E io stupii una sera, quando vidi il bimbo, che appena sapeva camminare, mentre trascinava la ciotola all'aperto; e quivi egli batté con un cucchiaio di legno di pero sul margine della ciotola ed ì serpenti dalla pelle a bagliori rossastri strisciarono fuori dalle cavità della roccia. Quasi allucinato io udivo il piccolo Erio ridere, mentre se ne stava fra di loro sul pavimento argilloso del portico della cucina. Le bestie lo circondavano, a mezzo erette, come per gioco, dondolando sopra il suo capo, in un veloce moto di pendolo, le teste triangolari. Mi trovavo sull'altana e non osavo chiamare il mio Erio, come non si chiama colui che si veda nottambulo camminare sulla gronda di un tetto. Ma scorsi la vecchia Lampusa, che dinanzi alle rocce della cucina, a braccia conserte, sorrideva, e m'invase il meraviglioso sentimento della sicurezza pur nel più aspro pericolo.
Da quella sera fu Erio che in tal guisa suonò per noi la campanella del vespero. Quando noi udivamo risuonare la ciotola argentea tralasciavamo il lavoro per rallegrarci dello spettacolo di quella refezione. Fratello Ottone si affrettava a uscire dalla sua biblioteca ed io dall'erbario sull'altana interna e anche Lampusa usciva dalla sua caverna e osservava il bimbo con tenero orgoglio. Noi usavamo quindi rallietarci allo spettacolo del suo zelo nel tenere in ordine quelle bestie. Ben presto Erio ne conobbe ciascuna per nome, e con la sua vestina di velluto ceruleo orlata di seta aurea zampettava nel cerchio ch'esse gli formavano attorno. Egli badava assai a che tutte ricevessero la loro parte del latte e faceva spazio presso la ciotola alle ritardatarie. Perciò batteva il cucchiaio sul capo di questa o quella delle serpi, che si abbeveravano, e quando non davano spazio con sufficiente sveltezza le prendeva all'attaccatura della nuca e le strascicava via con tutta la sua forza. Ma per quanto egli fosse rude nella presa, sempre le bisce erano mansuete e domestiche con lui, anche al tempo della muta, quando sono più sensibili. In quel tempo infatti i pastori non lasciano il bestiame pascolare presso le Scogliere di Marmo, poiché una morsicatura ben data può abbattere fulmineamente anche il toro più robusto.
Erio preferiva fra tutti i serpenti quello più bello e più grande, che fratello Ottone e io chiamavamo il Grifone e che dai tempi antichi, come noi concludemmo dalle saghe dei vignaioli, dimorava quivi nelle caverne. Il corpo della lachesi lanceolata è di un rosso metallico e di frequente scaglie di un chiaro bagliore di ottone sono mescolate al rosso. Ma sulla pelle di questo Grifone un puro bagliore aureo senza macchie era diffuso, e sul capo si coloriva in verde, come in un gioiello, e ne aumentava il bagliore. Quando era in collera, poteva gonfiare il collo a formare una specie di scudo, che lampeggiava come uno specchio aureo. Sembrava che gli altri serpenti gli dimostrassero rispetto, poiché nessuno toccava alla ciotola prima che l'aurea serpe vi avesse placata la propria sete. E noi vedevamo Erio scherzare con lei, mentr’essa, come a volte i gatti usano fare, strofinava il suo capo aguzzo contro la veste del bimbo.
Di poi Lampusa ci portava, al vespero, due boccali di vino leggero e due fette di pane nero e salato. Brano tratto dal romanzo Sulle scogliere di marmo, Le Fenici tascabili, Guanda edizioni, Parma, 1988. Traduzione di Alessandro Pellegrini. Ernst Jünger, scrittore tedesco (1895-1998) ha scritto, tra l’altro, Il contemplatore solitario, Irradiazioni, Diario 1941-1945, Nelle tempeste d’acciaio, La forbice. L’operaio, Cacce sottili, Ludi africani, Il cuore avventuroso, Rivarol, massime di un conservatore, La pace, Le api di vetro, Due volte la cometa, Lo Stato mondiale, Boschetto 125, Il tenente Sturm e Eumeswil.
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