MAIOLICHE A ARABESCHI VERDI Brano tratto dal libro Caro Michele Natalia Ginzburg
9 aprile ‘71
Caro Michele,
Angelica mi ha detto che non verrai per le vacanze di pasqua. Pazienza. Ormai le volte che ho detto “pazienza” pensando a te sono infinite. È vero che più passano gli anni e più si accrescono le risorse della nostra pazienza. Sono le sole nostre risorse che si accrescono. Tutte le altre tendono a prosciugarsi.
Avevo messo in ordine le due stanze all’ultimo piano. Avevo preparato i letti e appeso gli asciugamani nel bagno. Il bagno all’ultimo piano è il più bello della casa, con le maioliche a arabeschi verdi, e nel guardarlo ero contenta che lo vedesse tua moglie. Le stanze sono ancora là in perfetto ordine, con i letti pronti. Io non ci sono più entrata. Dirò a Cloti di tornare a disfare i letti.
Mentre preparavo quelle due stanze, pensavo che tua moglie si sarebbe sentita a suo agio e anche pensavo che avrebbe trovato che io tengo bene la casa. Erano però due pensieri stupidi, perché io non conosco tua moglie, non so quando e dove si sente a suo agio e non so se è di quelli a cui piacciono le case tenute in ordine e le persone che tengono in ordine le case.
Angelica mi ha detto che invece te ne vai a Bruges. Io non mi chiedo cosa vai a fare a Bruges, perché ormai ho smesso di chiedermi cosa vai a fare in un luogo o nell’altro. Io cerco di immaginarmi in un luogo o nell’altro la tua vita, però nello stesso tempo sento che la tua vita è diversa da come immagino, e così la mia fantasia è sempre più sfiduciata e più fiacca nell’intrecciare i suoi arabeschi sopra di te.
Quando starò meglio di salute, vorrei venire a trovarti con Angelica, se questo ti fa piacere. Non verremmo a stare a casa vostra, perché non voglio dare fastidio a tua moglie, che penso abbia sempre molto da fare. Andremmo in albergo. Io non amo i viaggi, e non amo nemmeno gli alberghi. Però preferisco ancora gli alberghi alla sensazione di dare fastidio, occupando spazio in una casa piccola, perché una delle pochissime cose che so di voi è che avete una casa piccola. Non posso partire adesso, perché non sono ancora guarita bene da quella pleurite, cioè non ho più la pleurite ma il medico dice che devo ancora usarmi dei riguardi. Ha anche trovato che ho il cuore in disordine. Tu spiega a tua moglie che io sono una che ha la casa in ordine e il cuore in disordine. Spiegale come sono, perché così quando mi vedrà potrà confrontare la mia vera immagine con le tue descrizioni. È uno dei rari piaceri che ci offre la vita, confrontare le descrizioni degli altri con le nostre fantasie e poi con la realtà.
A tua moglie io penso spesso, e cerco di immaginarla, anche se tu non ti sei curato di descriverla, e quella fotografia di lei che mi hai mandato quando hai scritto che ti sposavi, è piccola e confusa. La guardo spesso, ma non riesco a vedere niente salvo un lungo impermeabile nero e una testa avvolta in un foulard.
A me non scrivi mai, ma sono contenta che scrivi a Angelica. Penso che ti viene più naturale di scrivere a lei, perché con lei hai più confidenza che con me. Forse sono ottimista, ma penso che rivolgendoti a lei ti rivolgi segretamente anche a me. Angelica è molto intelligente, e io credo che sia la più intelligente di tutti voi, benché giudicare dell’intelligenza dei propri figli sia una cosa difficile.
In qualche momento, ho la sensazione che non sia felice. Ma Angelica è molto chiusa con me. Credo che sia chiusa con me non per debolezza d’affetto, ma per il desiderio di evitarmi preoccupazioni. Strano a dirsi, Angelica ha un sentimento materno verso di me. Quando la interrogo su lei stessa, le sue risposte sono sempre improntate a una fredda serenità. In conclusione, io di Angelica so ben poco. Quando siamo insieme, parliamo non di lei ma invece di me. Io di me parlo sempre volentieri perché sono molto sola, ma essendo sola non ho molte cose da raccontare su di me. Intendo dire che non ho molto da raccontare sui miei giorni presenti. Più che mai da quando non sto bene, le mie giornate si svolgono in una grande monotonia. Esco poco, poche volte prendo la macchina, lunghe ore me ne sto in poltrona e guardo Matilde che fa la ginnastica yoga, Matilde che fa il solitario, Matilde che batte a macchina il suo nuovo libro, Matilde che si fa un berretto con degli avanzi di lana.
Viola mi ha detto che è arrabbiata con te, perché non le hai mai scritto nemmeno una cartolina. Per il tuo matrimonio, ha comperato un bel vassoio d’argento, e pensava di darvelo quando venivate. Ti prego di scrivere a Viola, e ringraziarla, perché il vassoio è bellissimo. Scrivi anche alle gemelle, che ti aspettavano e avevano preparato dei regali per i bambini di Eileen, cioè un coltello a serramanico e una tenda per giocare agli indiani. E naturalmente ti prego di scrivere anche a me.
Ieri Osvaldo è partito per l’Umbria con Elisabetta e Ada. Così per una settimana non avremo la sera le sue visite. Io mi sono abituata a vederlo comparire qui la sera. Mi sono abituata a trovarmi davanti, per qualche ora, la sua faccia colorita e la sua testa larga e quadrata dai capelli radi e ravviati. Anche lui deve essersi abituato a passare le sue serate in questa casa, giocando a ping-pong con le gemelle e leggendo Proust ad alta voce a Matilde e a me. Quando non viene qui va invece da Angelica e Oreste, dove fa cose simili ma lievemente diverse, per esempio legge Paperino alla bambina e gioca a tombola con Oreste e i Bettoia. Oreste lo trova piacevole ma futile. I Bettoia lo trovano futile ma simpatico. Infatti non si può dire che sia antipatico. Non mi sembra esatto definirlo futile, perché dalla futilità non ci si aspetta niente, e invece da lui ci si aspetta che di colpo scopra e riveli agli altri la sua ragione di esistere sulla terra. Io lo credo molto intelligente, ma sembra che la sua intelligenza la tenga custodita nel suo torace, nel suo pullover e nel suo sorriso, trattenendosi dall’usarla per motivi che restano nascosti. Nonostante il suo sorriso, lo trovo un uomo tristissimo. Forse è per questo che mi sono abituata alla sua compagnia. Perché amo la tristezza. Amo la tristezza ancora di più dell’intelligenza.
Tu e Osvaldo eravate amici, e io molto raramente ho avuto il bene di conoscere un tuo amico. Perciò a volte lo interrogo su di te. Ma le sue risposte alle mie domande su di te, sono piene di una fredda serenità, che rassomiglia a quella di Angelica quando le chiedo se le cose le vanno bene e se è felice. Ho l’impressione che anche Osvaldo voglia risparmiarmi delle preoccupazioni. In sua assenza, mi capita di detestarlo, ricordando la sua voce calma e le sue risposte così serene e sfuggenti. Ma quando lui è qui, me ne sto quieta e accetto i suoi silenzi e le sue sfuggenti risposte. Mi è venuta, con gli anni, una sorta di mansuetudine e rassegnazione.
L’altro giorno mi sono ricordata di una volta che sei venuto qui e appena venuto ti sei messo a frugare in tutti gli armadi alla ricerca di un tappeto sardo, che volevi appendere al muro nel tuo scantinato. Doveva essere l’ultima volta che ti ho visto. Io ero in questa casa da pochi giorni. Era novembre. Gironzolavi nelle stanze e frugavi in tutti gli armadi, che erano appena stati messi a posto, e io ti andavo dietro lamentandomi perché portavi sempre via i miei oggetti. Quel tappeto sardo devi averlo poi trovato e preso perché qui non c’è. Non c’era nemmeno nello scantinato. A me comunque di quel tappeto non me ne importa niente, e non me ne importava niente allora. Lo ricordo perché è forse legato all’ultima volta che io ti ho visto. Ricordo che provavo, nell’arrabbiarmi e nel protestare con te, una grande allegria. Sapevo che le mie proteste avrebbero suscitato in te allegria e noia mescolate. Penso ora che quello era un giorno felice. Ma purtroppo è raro riconoscere i momenti felici mentre li stiamo vivendo. Noi li riconosciamo, di solito, solo a distanza di tempo. La felicità era per me protestare e per te frugare nei miei armadi. Ma devo anche dire che abbiamo perduto quel giorno un tempo prezioso. Avremmo potuto metterci seduti e interrogarci vicendevolmente su cose essenziali. Saremmo stati probabilmente meno felici, anzi saremmo stati forse infelicissimi. Però io adesso mi ricorderei quel giorno non come un vago giorno felice ma come un giorno veritiero e essenziale per me e per te, destinato a illuminare la tua e la mia persona, che sempre si sono scambiate parole di natura deteriore, non mai parole chiare e necessarie ma invece parole grigie, bonarie, fluttuanti e inutili.
Ti abbraccio.
Tua madre
Brano tratto dal libro Caro Michele, Einaudi “Supercoralli”, Torino, 1995. Natalía Ginzburg, nata Levi (Palermo, 14 luglio 1916 – Roma, 7 ottobre 1991), è stata una scrittrice italiana di primo piano della letteratura italiana del Novecento.
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