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Sagarana COPACABANA


Claire Varin


COPACABANA



 

«Su! Su! Tutti a bordo! Più matti siamo, più ci divertiamo!» urlava ai quattro venti l’incaricato del Bateau Mouche. «Ops! Attenzione al gradino, cara signora», sussurrò a un’elegantona che incespicava sui tacchi a spillo. «Caro mio, mi permetta di dirle che sua moglie è splendida stasera». La compagna del cinquantenne sfoggiava uno sfacciato décolleté. «Venite! Venite! Non siamo come l’ex-presidente del nostro gran Brasile, che preferiva l’odore dei cavalli a quello degli umani. Noi amiamo l’umanità! Imbarcatevi! Imbarcatevi, vi faremo posto!» Intravide una famosa attrice della televisione e non ebbe più occhi che per lei, quando esclamò: «Oh, Yara Adam! Sono uno dei suoi ammiratori. Che piacere averla con noi!»
Davanti all’allegro buontempone sfilavano i clienti dell’agenzia turistica Arc-en-ciel che si apprestavano a festeggiare il capodanno nella famosa baia di Guanabara. Da quando fu «scoperto» da un certo Signor Coniglio, il portoghese Coelho, questo mare interno ha sempre suscitato sogni e sospiri. Avevano battezzato l’insenatura della baia delle meraviglie «Fiume di gennaio» – Rio de Janeiro – per esser balenata nelle pupille di un esploratore europeo in principio d’anno, nel 1502. Gli oh e le ah! affluivano da allora nell’aria salina dinanzi al capolavoro della geologia che, presa da una felice furia preistorica, aveva sputato moltissimi isolotti, scogliere a strapiombo, alture, vette e cocuzzoli dalla lussureggiante chioma smeralda.
            Fra gli ultimi arrivati, accorsi sul molo come fuochi fatui, si riconoscevano gli autoctoni dall’andatura ondeggiante. Quei pochi privilegiati avrebbero realizzato, di lì a poco, un sogno di lunga data: sul mare, davanti alla spiaggia di Copacabana, fare la traversata da un anno all’altro. Copacabana che, a mezzanotte, sarebbe stata illuminata dai bagliori di venticinque tonnellate di fuochi d’artificio lanciati da 10.000 mortai, come un saluto all’anno nuovo. Quell’orgia chimica avrebbe fatto concorrenza all’esibizione più rustica delle migliaia di candele piantate nella sabbia e accese in omaggio alla dea afro-brasiliana delle acque salate, Iemanjá, amante delle rose, dei pesci e dello champagne.
            Ronzante e stipato, il battello si staccò dalla «collana di perle» che formava l’ansa illuminata di Botafogo. Grazie a un costoso programma turistico, una clientela brasiliana e straniera avrebbe ingurgitato dello Château Duvalier, delle bibite gassate, del whisky nazionale e le leccornie di un buffet, in riva alla più incantevole città del mondo, prontissima a proporre i suoi moderni baccanali.
            I vassoi carichi avevano appena cominciato a circolare sopra le teste quando un pattugliatore venne a ispezionare l’imbarcazione. Con uno movimento panoramico, due sergenti della Polizia Marittima fecero un rapido conto dei passeggeri. Facendo una carrellata laterale, li contavano facendo un accenno col mento, e univano al gesto il loro calcolo bisbigliato, poi pretesero che la barca facesse inversione. Troppi terrestri a bordo. Dopo che ebbe accostato, fece salire, nonostante l’eccesso di passeggeri, una ventina di ritardatari rimasti sul molo, prima di riprendere la propria strada con la benedizione ambigua dei sergenti, estorta non si sa bene come dai proprietari del vecchio yacht di lusso Kamaloka ribattezzato Bateau Mouche in omaggio alla dolce Francia. Ci fu un gran sollievo. Gli uomini si allargarono il colletto della camicia peraltro già sbottonato. La festa ci sarebbe stata.
            Qualcuno dedicò l’ora successiva ad abbuffarsi, abbeverarsi, flirtare nel giardino del vicino e ad augurarsi giorni migliori per l’anno in embrione. I più romantici si erano raggruppati sul ponte sperando di riempirsi gli occhi con lo sfavillante abito da sera che Rio indossava per ogni crepuscolo e che, alle porte del primo gennaio, li avrebbe sorpresi con mille paillettes. Tra loro si nascondevano alcuni seguaci di Iemanjá che avevano rubato degli stuzzichini al merluzzo e ai gamberetti per offrirli alla loro divinità protettrice; li avrebbero buttati in mare nei primi secondi dell’anno nuovo.
            La gente si agitava sulla stiva dov’era stata allestita una discoteca animata da un gruppo di pagodeiros che infilava un samba e una lambada dopo l’altra. Sulla pista da ballo si formò un ingorgo da quando tutti i viveri del tavolino di sopra erano stati già divorati, con dispiacere dei più golosi. Dopo aver oltrepassato il tranquillo Cara de Cão, Faccia di Cane, il vento da sud-ovest che soffiava sull’Atlantico fece ballare la bagnarola della festa e fremere i fifoni. Divenne impossibile fare anche un solo passo di danza e tutti si precipitarono sui divani beige del locale, occipiti pesanti si appoggiarono, tutti volevano soprattutto che finisse quel rollio, vomitarono.
            La cresta delle onde s’infilava dai boccaporti e i camerieri ora pestavano alluci dalle unghie smaltate. I bicchieri facevano fuochi d’artificio che andavano a finire per terra o sui vestiti che, in quella notte in cui nessuna speranza era proibita, erano, secondo la tradizione brasiliana, bianchi e nuovi. I piatti scivolarono dai tavoli, le coppe di champagne cantarano prima del tempo rotolando giù dal carrello, una bottiglia di birra vide la sua fine sulla schiena nuda dell’elegantona che aveva perso l’equilibrio all’imbarco. Poi gli oggetti stessi beccheggiarono davanti agli occhi sgranati dei passeggeri che contemplavano, pietrificati e in preda al terrore, lo spettacolo della mobilità delle cose. I più prudenti si accaparrarono i troppo pochi giubbotti di salvataggio, mentre sulla prua un trio di furboni scommetteva, mezzo scherzando, sul momento in cui la barca sarebbe sprofondata, sballottata dalle onde che raggiungevano due metri d’altezza. Sarebbe stato dopo essere arrivati davanti a Copacabana o prima? Prima o dopo aver visto «chilometri di felicità» dell’Avenida Atlantica?
            Una buona parte dei centoquaranta passeggeri si era agglutinata a tribordo per godersi, di lì a poco, la vista impareggiabile sui fuochi. Potevano seguire sulla loro destra il percorso luminoso della teleferica che portava in alto alcuni villeggianti fino al Pan di Zucchero, il signore delle cartoline ai cui piedi nacque Rio. Più lontano, più in alto, sulla loro sinistra, la statua illuminata del Redentore: mille tonnellate di cemento. Era dagli anni Trenta che, in cima al Corcovado, il Cristo dalle braccia aperte inamovibili, dall’apertura di ventotto metri, dominava la città, ricordando ogni giorno ai suoi abitanti che, con la Sua morte, Lui li aveva salvati. Ma i più nervosi sorvegliavano piuttosto il mare intento a leccare il vascello che ancheggiava smodatamente. Degli inguaribili buontemponi intonarono una famosa marcia carnevalesca:
 
                                                                       Se a canoa não virar,
                                                                       Olê olê olê olá. Eu chego lá.
 
            Alle 23 e 47, un’onda forte abbatté il Bateau Mouche sulla destra. Un’altra subito dopo lo ributtò sul fianco sinistro. A bordo le luci si spensero. A gambe all’aria, disarticolati, i festaioli urlavano in coro mentre l’imbarcazione si rovesciava, esibendo la sua modesta chiglia progettata per le acque tranquille. Iemanjá rapiva decine di creature mentre il battello iniziava la discesa nelle calde acque mosse, a 700 metri dalla spiaggia Vermelha e a qualche chilometro da Copacabana. S’impigliarono nei veli della morte tutti quelli che, verso mezzanotte meno dieci, erano murati al piano inferiore che venne inondato per primo; scossi da correnti marittime contrarie e presi dal panico, in quache secondo affogarono. Quanto ai burloni e ai romantici ispirati dall’idea salvifica di fare la veglia sul ponte, dovettero armarsi di coraggio per immergersi nel nero dell’oceano e nuotare attorno allo scafo dell’imbarcazione che, qualche minuto più tardi, sarebbe del tutto affondato.
            Un inferno acquatico s’incendiò non lontano da molte barche dirette verso il posto dei fuochi. Le urla di terrore nel buio paralizzarono i passeggeri del Raimundo che passava di lì. Il comandante della nave da diporto accese i riflettori per scoprire, oltre ai corpi alla deriva tutt’intorno, dei superstiti che perseveravano nella lotta per la sopravvivenza, aggrappati alla parte ancora emersa della barca o ai suoi rottami galleggianti. Il marinaio del Raimundo buttò in mare un canotto gonfiabile. Su ordine del comandante trascurava i moribondi per concentrarsi sui più forti. «Lo lasci, altrimenti non riesco a salvarla» urlò a una donna in lacrime che portava il figlio morto appeso al collo come un fiume di diamanti, macabra linea di galleggiamento. Passando raccolsero uno dei camerieri (in calzoncini, vestito soltanto con il suo papillon), poi una ballerina che faceva delle evoluzioni sull’acqua grazie a una lastra di ghiaccio di polistirolo. Si videro gli ospiti del Raimundo strapparsi le camicie per medicare ferite o fasciare arti.
            Fra vacanzieri motorizzati e corpi svenuti si scambiarono dei “bocca a bocca” pudici ma frenetici, mentre Iemanjá si gustava bolinhos de bacalhau e empanadas de camarão rubati durante la cena fredda del capodanno dai suoi adepti in preda ai vapori etilici. I bagni del Bateau Mouche si trasformarono in camera mortuaria per Yara Adam. La vincitrice di tre premi Molière si rivide salutare il pubblico e crollare sotto gli applausi prima di spegnersi prigioniera di quell’ultima scena. Condivideva la sorte con degli antidivi in servizio nella stiva, gli operai prigionieri nella stanza dei macchinari.
            Il padrone di Paulo & Maria all’inizio credette di assistere a un film horror, ma dinanzi all’evidenza della realtà, il pescatore e gli aiutanti si sbarazzarono delle pesanti casse di birra e il peschereccio fece rotta verso l’incubo. Mentre, insieme a tutte le miserie del mondo, issavano a bordo un ex ministro del lavoro tutto incravattato, cominciò, per il gioioso mare umano sulla riva, il conto alla rovescia annuale al termine del quale i concupiscenti avrebbero potuto abbracciare, senza farsi rimproverare, una fiamma segreta o l’oggetto imprevisto di un desiderio fugace. 10... 9... 8... 7... 6... 5... 4... 3... 2... 1... Feliz Ano Novo! Urlarono in coro gli altoparlanti sparsi lungo l’Avenida Atlantica. Una cascata di luce iniziò la sua discesa, sfavillante, dalla cima dell’hotel Méridien. Una bomba grandiosa esplose davanti all’Othon Palace a un’estremità della «curva perfetta» di Copacabana Beach. Il Méridien replicò con gioia, bissato a sua volta dal vicino Plaza, mentre galleggiavano sulle onde indaffarate i primi cadaveri dell’anno, in deambulazione orizzontale verso la spiaggia Vermelha. Brasiliani in bianco, americani in bermuda, italiani dandy, tedeschi corpulenti, ingegnere svizzero di 120 chili rimorchiato dal Paulo & Maria... In senso inverso, dalla spiaggia di Copacabana, circolavano mazzi di rose bianche destinate a Iemanjá dai suoi seguaci accatastati sul bagnasciuga e ben lontani anche solo dal sospettare il dramma in corso sulla superficie scura dell’oceano. (L’elegantona dalla schiena nuda e tacchi a spillo sarebbe stata trovata più tardi, tutta truccata d’alghe, incagliata in una roccia. Questa volta, senza scalpitare per l’impazienza, il marito disperato l’avrebbe aspettata per ore. Lei avrebbe lasciato che si struggesse per più tempo del solito...)
            Oh! Ah! Oh! Ah! Nell’ora in cui il cielo di Rio scoppiettavano i fuochi a forma di corolle d’oro disseminate di fiocchi lilla, le eliche di due o tre barche avevano effettuato un’immolazione notturna: avevano appena ucciso, all’insaputa del loro conducente, che passava per un salvatore, qualcuno dei naufraghi impigliati nel buio alle rovine sparse della barca, per confondere così il bene e il male all’opera in questo mondo fatto di avidità, orrori e incantesimi.
 






Traduzione dal Francese di Serena Cacchioli.




Claire Varin
Claire Varin, dottoressa (Ph.D.) in francesistica, ha pubblicato sette libri, tra i quali Rencontres brésiliennes (Triptyque, 2007), il saggio Langues de feu (Línguas de Fogo, Limiar, Sᾶo Paulo, 2002) sulla scrittrice Clarice Lispector e il romanzo La Mort de Peter Pan (Québec Amérique, 2009). Ha ricevuto nel 2002 un premio della "Société des écrivains canadiens" per il suo romanzo Désert désir e un premio per la creazione artistica offerto dal "Conseil des arts et des lettres" del Québec.




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