RIEMPIRE TUTTI GLI INTERSTIZI Carla Benedetti
L'intervallo e la pubblicità
Appena quarant'anni fa in televisione esistevano dei tempi morti, sospesi, chiamati “intervalli”. Erano riempiti da immagini di paesaggi, di pascoli, di vulcani, di marine con un sottofondo musicale lieve, riposante. Oggi un simile vuoto sarebbe inconcepibile.
Ogni buco tra le maglie è stato colmato. Gli spot sono penetrati persino nelle partite di calcio sulle reti nazionali, tra un goal e l'altro, spezzando il processo emotivo del tifo. Irrompono proprio in quel momento dì sospensione in cui prima ci si poteva lasciare andare all'esultanza, al piacere di commentare l'azione appena vista, mentre sullo schermo ripassavano le immagini al rallentatore. Ora in quell'istante ti arriva di colpo, e a volume più alto, lo spot di un profumo, con una musica che non c’entra nulla con la tua emozione. In questo caso gli spot sono ancora più disturbanti di quelli che interrompono i film. perché non arrivano a cadenze regolari. ma sfruttano le pause imprevedibili del gioco. Ma la cosa incredibile è che i tifosi non si siano risentiti più di tanto. Solo qualche tiepida protesta, subito finita nel nulla. Eppure il calcio è sacro in Italia!
Così come non si sono risentiti i viaggiatori nelle stazioni stracolme di piramidi rotanti, di stalattiti e stalagmiti pubblicitarie, di schermi in testa ai binari e anche lungo tutta la banchina che proiettano in contemporanea lo stesso spot visivo e sonoro, coprendo indicazioni ferroviarie e orologi. Non si sono risentiti nemmeno i vescovi, e neanche i fedeli, quando gli spot hanno fatto la loro comparsa blasfema sulle fiancate del Duomo di Milano, durante i lavori di restauro. E nemmeno i cittadini che si vedono coprire porzioni sempre più grandi di mura storiche, di monumenti, chiudere gli scorci pittoreschi da tabelloni giganti, monotoni, spesso volgari. Perché tutto questo non viene avvertito come aggressivo?
Passo spesso davanti a un edificio dipinto di giallo, con mura alte, uniformi, privo di immagini, libero da cartelloni pubblicitari. Si fa notare proprio perché insolitamente vuoto. In mezzo campeggia una sola piccola scritta: “Zona militare. Vietata l'affissione”. Perché l'unica resistenza alla pubblicità che si possa rintracciare nello spazio urbano viene dall'arcaica potenza militare?
Ricordo un articolo sulla prima pagina del “Corriere della sera” di qualche anno fa, pieno di indignazione per i graffiti che “sporcano” i muri e i monumenti delle città. Si è mai levata una voce contro l'inquinamento delle strade, delle piazze, delle fiancate dei palazzi e dei mezzi di trasporto da parte di gigantografie pubblicitarie, o degli schermi che trasmettono spot a tutto volume nelle stazioni di metropolitana? Nessuno si chiede nemmeno come mai il cittadino che cammina, usa a pagamento i mezzi pubblici, debba essere costretto a fornire gratuitamente i suoi occhi e le sue orecchie a un business di tali proporzioni.
Persino i graffitari sembrano rispettare la pubblicità. Vanno a dipingere su facciate, muretti, ponti, porte, garage, autobus, treni, e anche sui muri del museo che finalmente li accoglie. Su tutto, tranne che sui cartelloni pubblicitari.
Riempire tutti gli interstizi è il primo imperativo della pubblicità. L'informazione ogni tanto fa sciopero. La pubblicità mai. E sempre al lavoro. Quando i giornalisti si fermano e il tg si accorcia, essa invade lo spazio restante con grande naturalezza. Tiene per sé tutto il campo, che è già suo, assieme al suo alleato, l'intrattenimento. La pubblicità non interrompe i programmi televisivi, sono i programmi che le si dispongono intorno, nei suoi vuoti.
La pubblicità è un liquido amniotico che oggi nutre tutto. Foraggia giornali, televisioni e tante altre attività. Chi ne controlla il flusso può perciò mettere in ginocchio una testata, un'emittente televisiva, condizionarne le posizioni, le informazioni da trasmettere, i servizi, le inchieste, i programmi da cancellare. Perché questa invasione della pubblicità non viene registrata come preoccupante e aggressiva in nessuna delle sue molteplici facce?
Ai suoi albori la pubblicità destò stupore e sgomento in molti critici della cultura del secolo scorso. Oggi quasi non viene più nemmeno rilevata, tanto appare naturale. E infatti penetra indisturbata, raggiungendo livelli di saturazione che i primi suoi critici forse non avrebbero neppure saputo immaginare. Essi guardavano soprattutto ai contenuti e alle forme della persuasione dentro ai “messaggi” pubblicitari. Non avevano ancora esperito la forza di penetrazione anche fisica di questo “mezzo” (che è del resto una logica vuota, che può applicarsi a qualsiasi contenuto). Ma dopo gli anni Settanta nessuno l'ha più guardata con sospetto. L'atteggiamento critico, di stampo francofortese, che per molto tempo aveva circolato tra gli intellettuali, è stato considerato «vetero». Nel 2000, alla festa dell'Unità di Bologna fu allestita una mostra dedicata agli slogan pubblicitari più famosi degli ultimi 50 anni. Si intitolava L'undicesima mura. Sui pannelli c'erano didascalie come questa: “la pubblicità, vera forza vitale dell'uomo contemporaneo”, “la pubblicità, show senza confini”. La pubblicità è stata, come si suol dire, “sdoganata” anche dalla sinistra. E i suoi “intellettuali” si sono familiarizzati con quella logica micidiale, in quel modo un po' buffo con cui un bambino impara ad avvicinarsi senza paura a un cavallo o a qualche altra bestia mansueta ma enorme.
Le parti di società che la pubblicità ha progressivamente invaso con la sua logica peculiare e perversa (politica, giornalismo, religione, arte, sport, cultura, oltre che ovviamente gli spazi comuni e la vita quotidiana di milioni e milioni di individui) sembrano ormai non avvertirla più come un corpo estraneo, tanto si è incuneata nei modi di ragionare, di esperire e persino di vivere il tempo. Essa ha infatti modificato anche le forme della durata. Tutti i tempi della cultura, dell'informazione, delle recensioni, dello stazionamento di un libro nelle librerie, della proiezione di un film nelle sale, sono condizionati dai ritmi della pubblicità, che impone uno smercio veloce dei prodotti e non lascia tempo per la sedimentazione.
Ovunque penetri, la pubblicità va nel profondo, si impone come una superlogica che subordina ai propri vincoli ogni tipo di azione, di scambio e di comunicazione tra uomini, persino nella rete e nei social network. Ma la sua azione è stata resa invisibile, quasi avesse una sostanza aerea, impalpabile. E come una grande potenza colonizzatrice che invade e distrugge forme di vita precedenti, ma senza bisogno di usare le armi, perché i nativi la credono una divinità. Dissimulati sotto l'apparenza di una giocosità colorata, scambiati per intrattenimento, gli spot sono in realtà un corpo contundente, che penetra e esercita violenza. Non sono affatto riposanti. Sono il luogo drammatico di uno scontro.
La pubblicità si è imposta senza incontrare resistenze, usando l'arma del concedere e del godimento. Mentre la Chiesa aveva fondato il suo potere sull'interdetto, rendendo peccato il sesso, cioè colpevolizzando e poi gestendo la possibilità di liberare il peccatore dalla colpa, la pubblicità si fonda sulla concessione del godimento, sulla promessa della realizzazione di desideri, che però in realtà non si possono realizzare, e quindi sull'infantilizzazione degli individui e sulla frustrazione.
Il Papa vede il diavolo dappertutto tranne che nella pubblicità. Eppure su quegli schermi invasivi e ripetitivi si fa un continuo inno alla gola, alla lussuria, all'invidia, alla superbia (“io valgo di più perché ho questo tipo di auto, di occhiali...”). E una grandiosa celebrazione delle “sette maialerie capitali”, come Gadda chiamava i sette peccati in un impeto di indignazione contro l'ipocrisia dei suoi e di tutti i tempi. Ma anche restando su di un piano laico, ci si può domandare quali proiezioni dell'umano costruisca e metta ripetitivamente in circolo la pubblicità se non educazione all'ipocrisia e alla menzogna, indifferenza ai contenuti, distruzione dell'empatia. E tutto questo proprio mentre l'umanità sembra avviata verso un possibile suicidio di specie. Come è stata possibile una simile invasione tacita e un simile, inavvertito spossessamento? Brano tratto dal libro Disumane lettere: Indagine sulla cultura della nostra epoca, Editori Laterza, Bari, 2011. Carla Benedetti, saggista e critica letteraria, insegna Letteratura Italiana moderna e contemporanea all’Università di Pisa. Ha studiato in Francia, è stata fellow dell’Italian Academy alla Columbia University e ha insegnato Teoria della letteratura alla New York University e alla University of Chicago.
|