GUY DEBORD, LE SUE PROFEZIE SULLA DITTATURA DELLA MERCE Alberto Burgio
Definire Debord un classico della tradizione rivoluzionaria suona ancor oggi provocatorio. Il suo è un pensiero privo dell'imprimatur dell'accademia. Non ha l'"onore" di una pur fugace citazione nei manuali di storia della filosofia ad uso universitario. È fuori dai codici e dai canoni. Debord - «docteur en rien» - non si sarebbe meravigliato né dispiaciuto di questa indifferenza. Possiamo immaginare come commenterebbe la propria esclusione dal pantheon della filosofia ufficiale. Ribadirebbe il fine apologetico della cultura ufficiale, irriderebbe all'autonomia disciplinare della filosofia, cifra della sua irrazionale separatezza, scorgerebbe nella propria esclusione la conferma della portata sovversiva della sua critica [...]. Quella di Debord è una delle più intelligenti letture di Marx lasciate in eredità dal secondo Novecento, tra la più originali e creative. Comprende meglio di chiunque altro negli anni Sessanta come si sia via via trasformata la dittatura della forma-valore . Comprende e analizza in profondità il nuovo totalitarismo della merce, che garantisce e consolida la negazione della vita nelle nostre società. Il capitale e la catena del valore si sono a tal punto sviluppati da avere pressoché sussunto la totalità. La merce è quasi del tutto padrona della totalità sociale (dell'universo dei discorsi e delle idee, non meno che del complesso delle attività riproduttive). La società quindi si riproduce come merce. Il capitale funzionalizza al fine supremo della propria riproduzione allargata pressoché ogni attività e ogni individualità, ogni rappresentazione e ogni frammento del tempo. «Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale», sicché «non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede più che quello: il mondo che si vede è il suo mondo», «è il mondo della merce dominante su tutto ciò che è vissuto». Nella società dello spettacolo «la merce contempla se stessa in un mondo da essa creato» (citazioni da Società dello spettacolo ). Debord si domanda come vi riesca in assenza di dispositivi di coercizione conclamata. Come si realizza la dittatura del valore nello spettacolare diffuso e poi nello spettacolare integrato? Le risposte di Debord a questi interrogativi cruciali lo conducono a intuizioni fondamentali sulla questione per noi decisiva, non più eludibile, della democrazia, del suo svuotamento, del suo tendenziale rovesciamento - in quanto «democrazia spettacolare» - in una struttura dispotica e totalitaria. La Società dello spettacolo e i Commentari costituiscono strumenti preziosi - ancora lungi dall'essere messi pienamente a valore - per un'analisi critica del consenso democratico nell'epoca del capitalismo maturo, e della capacità della merce di produrre bisogni compatibili e forme dell'esistenza funzionali alla riproduzione capitalistica: forme liberate dalla povertà materiale ma sprofondate nell'indigenza morale e nell'espropriazione del senso. Tocca in sorte a Debord - proprio in forza della verità della sua critica - ciò che Debord avrebbe esecrato: di «società dello spettacolo» si discorre ormai come di un'evidenza. Ma proprio per questo non si intende il significato del concetto, si perde di vista il radicamento materialistico della critica (appunto il nesso tra spettacolo e forma-merce) e si precipita il tema critico dello spettacolo (equiparato riduttivamente al terreno «mediale») nella implacabile centrifuga della chiacchiera spettacolare. Forse la nozione di spettacolo in un'epoca dominata dalla pseudo-comunicazione televisiva e segnata dall'esplosione della rete informatica si presta a una lettura semplicistica. Tanto più che ai nostri giorni si legge poco, si riflette ancor meno, e ci si è opportunisticamente congedati dalle grandi fonti della critica debordiana, a cominciare dall'analisi marxiana del feticismo della merce. Non fosse così, si terrebbe a mente l'insistenza di Marx, sin dalle prime righe del Capitale , sulla dimensione spettacolare della merce, protagonista del rapporto sociale capitalistico. Nella società capitalistica - avverte Marx - la ricchezza «si presenta» come massa di merci, e ogni singola merce «si presenta» come forma elementare della merce stessa: appare, come sulla scena di un teatro. A sua volta, la forma-merce, di cui la singola merce è rappresentante, funziona come uno specchio (uno specchio ingannevole e reificante) in virtù del fatto che in questa società la relazione sociale è mediata dallo scambio capitalistico, entro il quale soltanto «appaiono», si danno a vedere i connotati sociali del lavoro individuale. L'oblio che nella nostra epoca avvolge il pensiero critico favorisce i fraintendimenti. Eppure Debord è chiarissimo nel riprendere lo schema analitico del Capitale (al quale rimanda in modo esplicito). È chiarissimo nell'insistere sulla radice strutturale dello spettacolo, saldamente collocata «nel terreno dell'economia divenuta abbondante». «La "nuova potenza del reciproco inganno"» che si è «concentrata» nello spettacolo «ha la sua base nella produzione» capitalistica della merce, che Debord definisce citando (nella tesi 215 della Società dello spettacolo ) il Marx dei Manoscritti del '44. Di per sé, lo spettacolo è «l'equivalente generale astratto di tutte le merci», in quanto duplica la funzione del denaro esasperando, al tempo stesso, le dinamiche di esclusione sociale a danno di quanti possono soltanto contemplare ma non agire né fruire dell'utilità concreta. In una battuta, lo spettacolo «non è che l'economia sviluppatasi per se stessa», «è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine». Insomma: la società non è «spettacolare» per l'abnorme sviluppo del cosiddetto «mediale», ma per il compiersi della dittatura della merce e per il pieno dispiegarsi della sua potenza feticistica. Il paradosso (che Debord aveva presagito) sta nel fatto che le letture banalizzanti della degenerazione spettacolare prendono piede nel momento in cui il potere feticistico della merce è pienamente squadernato: esploso con ben altra potenza rispetto agli anni Ottanta. Ne è misura l'eclisse della storia, oggi totale, proclamata apertis verbis una ventina di anni fa al fine di confinare nell'assurdo qualsiasi volontà trasformatrice. E ne è altresì misura sconvolgente la soddisfazione melanconica e depressiva delle nostre società passivizzate e privatizzate, incapaci di scuotersi di dosso il giogo della videocrazia e succubi di pseudo-godimenti permessi perché imposti dalla merce [...]. Debord, pur consapevole della potenza pervasiva della merce e della forma-valore, resta nondimeno sino in fondo un rivoluzionario e un dialettico. Non rinuncia, non si rassegna, non diserta - e anche questo è un tratto classico, estraneo alle miserie del nostro tempo. È vero, tra il '67 e gli anni Ottanta e Novanta cambiano i toni. I Commentari registrano una netta regressione del quadro sociale e politico rispetto ai sulfurei anni Sessanta. Lo spettacolo si è espanso e consolidato, è molto più potente in estensione (su tutto il pianeta) e in intensione (sulla quasi totalità dei comportamenti e degli oggetti). Nondimeno [...] la totalità del dominio non è mai perfetta. Il lavoro del negativo non si arresta. Il lato cattivo della realtà rimane all'opera. La realtà spettacolare resta comunque fragile, esposta al mutamento e persino al possibile ritorno della storia «dopo questa eclisse» (così nella tesi XXVII dei Commentaires ), «il che dipende da fattori ancora in conflitto e dunque da un esito che nessuno potrebbe escludere con certezza». In definitiva, proprio nella fase del trionfo dello spettacolo e in virtù di questo trionfo, la situazione è aperta e «condizioni non sono mai state ovunque altrettanto gravemente rivoluzionarie», il che obbliga i governi a una guerra preventiva contro la minaccia della negazione. Il potere capitalistico può dispiegare un'enorme capacità distruttiva, ma non può sradicare la fonte della negazione, il germe della soggettività. Resta il «sogno di una cosa», per dirla con Marx; resta la necessaria aspirazione alla libertà, per ricordare Rousseau e Kant; resta insopprimibile il desiderio di vivere storicamente. E per questo è tanto più grave la responsabilità dell'intellettualità e della politica che questo potenziale lasciano inerte o, peggio, cercano di neutralizzare, scegliendo la complicità con lo spettacolo, piuttosto che l'attività libera e liberatoria della critica e della lotta per la trasformazione. Stralcio dell'intervento "Un classico rivoluzionario" che si tè tenuto il 30 ottobre 2009, a conclusione della settimana dedicata a Debord "Descrizione di una battaglia" a Napoli. Nato a Palermo nel 1955, Alberto Burgio si è laureato in Lettere Moderne a Pavia nel 1978 e in Filosofia alla Statale di Milano nel 1983. Nel 1989 è entrato nei ruoli dell'Università in qualità di ricercatore in Storia della Filosofia presso la Facoltà di Magistero di Urbino. Nel 1993 ha vinto il concorso di professore associato presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Bologna dove, successivamente, è diventato professore ordinario nell’anno accademico 2001-02. È condirettore di «marxismo oggi» e membro dei comitati editoriali di «Studi settecenteschi», «Dianoia. Annali di storia della filosofia del Dipartimento di Filosofia dell'Università di Bologna», «Rivista sperimentale di freniatria», «Studi sulla questione criminale», «Critica marxista». Fa parte del Comitato Scientifico dell'Edizione Nazionale delle Opere di Antonio Labriola. Iscritto al Partito della Rifondazione Comunista dalla nascita del partito, è membro del Comitato Politico Nazionale (dal 1991) e della Direzione Nazionale (dal 2005). Ha ricoperto gli incarichi di Responsabile Giustizia (dal 2002 al 2005) e di Responsabile del Comitato Scientifico (dal 2008). È stato eletto deputato al Parlamento della Repubblica dopo le elezioni politiche del 2006 (XV legislatura).
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