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Sagarana WAPICHANA


Loretta Emiri


WAPICHANA



 

            Le prime notizie che si hanno del popolo indigeno autodenominato wapichana, di lingua aruak, risalgono alla metà del secolo XVIII, quando occupava l’area che si estendeva dal bacino del fiume Uraricoera al fiume Surumu, includendo l’isola di Maracá. L’invasione degli spagnoli indusse i popoli caribe, fra cui i macuxi, a retrocedere. Nel corso di una lunga guerra, che si protrasse fino alla metà del secolo XIX, i macuxi, a loro volta, costrinsero i wapichana a indietreggiare e stabilirsi più a sud, nell’area tuttora occupata. Oggigiorno non esiste una divisione territoriale rigida, tanto che nella stessa regione si trovano insediamenti dei due popoli, alcuni dei quali addirittura misti. Distribuita in ventisei villaggi in Brasile e nove nella Guyana, e includendo le settecento persone che vivono in nuclei famigliari sparsi nella regione, la popolazione wapichana ammonta a dodicimila e cinquecento individui.
            Il lungo contatto con l’uomo bianco, e la vicinanza della città di Boa Vista ai villaggi, hanno fatto sì che, progressivamente, i wapichana perdessero terra, cultura, lingua e sorriso. Quando penso a João, visualizzo un giovane uomo taciturno, impacciato, dallo sguardo mesto. Cresciuto all’ombra della chiesa cattolica, lavora come autista per i missionari. Alla guida di camion e fuoristrada, percorrendo piste che corrono parallele alle più accidentate strade di terra battuta, attraversando rudimentali e precari ponti, guadando corsi d’acqua, calca spesso le orme degli antenati. Mi aveva sentita parlare della passione per la scrittura, e aveva letto alcuni miei testi poetici. Di ritorno da uno dei suoi viaggi, João Wapichana mi fece visita per dirmi che aveva conosciuto una nuova regione. La vista di una natura ancora intatta, di una bellezza primordiale, gli aveva regalato forti emozioni; lo aveva anche indotto a pensare che, se la sorte di intraprendere quel viaggio fosse toccata a me, ne sarebbe scaturito uno scritto; a sua volta il testo avrebbe rivelato ad altri il percorso interiore suggerito dal paesaggio. Le pacate parole di João echeggiano ancora dentro di me come i versi più puri già ascoltati.
            Un mese e mezzo fa ho spedito a un editore la proposta di pubblicazione del libro di racconti Amazzonia portatile. L’attesa della risposta è un labirinto: non so quanto tempo mi ci vorrà per venirne fuori, procedo lentamente per non stancarmi, trasformo la marcia forzata in momento di riflessione. La mia relazione con la scrittura è un labirinto: non ne verrò mai fuori, procedo lentamente, trasformo le soste volute alla scrivania in momenti di vita. Calco oggi le orme della mia scrittura nella speranza che un giorno siano avvistate da João. Se potrà leggermi, insieme avremo deposto e rieducato tempo e spazio dittatori.
       La convivenza con gli indios risale ai primordi della mia vita di adulta. Per spiegare le ragioni che, all’epoca, portarono anche me a scrivere saggi, mi rifaccio al “Mito della Condivisione”. Quanti avevano scelto di coinvolgersi con le sorti dei popoli indigeni, con essi, innanzi tutto, condividevano la propria esistenza. Un atteggiamento di profondo ascolto e rispetto caratterizzava la loro partecipazione alla globalità della vita comunitaria, predisponendoli a prendere decisioni ponderate di fronte alla complessità della situazione. Dopo cinquecento anni di massacro culturale, urgeva far sì che gli indigeni potessero costruire le proprie relazioni con la società nazionale a partire da posizioni di uguaglianza. Cioè, bisognava provare che i popoli indigeni hanno la propria storia, lingua, cultura e, soprattutto, diritto alla sopravvivenza fisica e culturale. Nella maggior parte dei casi gli indigenisti non avevano una formazione accademica specifica, ma la convivenza stessa operava il prodigio di trasformarli in ricercatori.
            Il primo passo era lo studio sistematico di documenti e pubblicazioni storiche, etnografiche, linguistiche relative alla società con la quale avevano scelto di vivere e lottare. Se esisteva, questa letteratura non era affatto accessibile. Essenzialmente, si trattava di tesi di laurea e dottorato realizzate per conto di università inglesi e statunitensi, in circolazione nel ristretto ambito degli addetti ai lavori. Il fatto che gli autori non si preoccupassero di spedire in Brasile, a chi di dovere, esemplari dei loro studi denunciava quale concetto avessero della propria scienza: così pura da non applicarla alle sorti dei popoli studiati; unica contaminazione materiale permessale era l’ottenimento di titoli di studio e riconoscimenti accademici. Poteva risultare, inoltre, che varie ricerche ed esperienze fossero già state realizzate, anche con lo stesso popolo indigeno, senza essere state, però, sistematizzate o divulgate: restando squallidamente inutilizzabili, determinavano un perverso, più che sterile, cominciare e ricominciare. Convinti del fatto che solo l’accumulo delle conoscenze avrebbe contribuito a far avanzare le proposte politico-pedagogiche da svolgersi, gli eroi mitologici dell’indigenismo brasiliano si trasformarono quindi in antropologi, linguisti, storiografi e pedagoghi.
            Una ad una, certosinamente, gli indigenisti raccoglievano le informazioni trasmesse dagli indios. Orientati da specialisti delle varie aree, elaboravano i dati trasformandoli in grammatiche, dizionari, abbecedari, libri di lettura, testi etnografici, manuali. I primi beneficiari di questa messe letteraria erano gli indios: rendendo omaggio ai loro mondi culturali, i materiali li stimolavano a prendere coscienza delle rispettive identità etniche e affermarle, a rivendicare i propri diritti e difenderli. Parallelamente, la produzione serviva per sensibilizzare gli uomini bianchi, che si vedevano sbattere in faccia la prova scritta, scientifica, irrefutabile, dei valori culturali insiti in qualsiasi società, sia pure minoritaria. Non ultima, si voleva raggiungere la finalità di stimolare persone sprovviste di formazione adeguata ad avvicinarsi in modo più rispettoso e competente alle società indigene con le quali si trovavano o si sarebbero trovare a lavorare. Il fine ultimo del processo produttivo era la socializzazione del sapere. Attraverso un capillare lavoro di divulgazione, i saggi venivano spediti a gruppi di appoggio, istituti, università, biblioteche, ministeri, segretariati. Gli studiosi interessati comparavano i dati pubblicati ai loro, a quelli di altri, a quelli che si sarebbero aggiunti, così che le conoscenze andarono accumulandosi e trasformandosi in patrimonio collettivo.
            Socializzare esperienze e risultati ottenuti, in quel periodo, era quanto la mia coscienza imponeva; i saggi materializzano la preoccupazione con la dimensione sociale dell’esistenza, sono il mio contributo al tentativo di costruire un mondo più giusto. Con le poesie ho dato corpo fisico a problematiche più legate alla sfera individuale; anche la loro divulgazione era una necessità interiore, ma determinata dal bisogno che avevo di infrangere l’isolamento geografico, di comunicare, dialogare, tessere relazioni. Per qualcuno l’ispirazione è un’urgenza che imprime all’opera una forma iniziale non gratuita e non sostituibile, da non rovinare mettendoci troppo le mani. Se è vero che i contenuti mi sono sempre stati suggeriti dalla cosiddetta ispirazione, solo un lungo processo di lavorazione li ha trasformati in poesie. Ad eccezione di quelle rare volte che masse di metallo si sono staccate dal subcosciente, mentre bevevo qualche bicchiere in più di birra durante profumate serate in Amazzonia. Riproponendomi di levigarle in futuro, rientrando a casa avvolgevo con pezzi di carta le rotolanti emozioni. Anni dopo, estraendole dall’archivio ho avuto la sorpresa di costatare che erano pepite, forme proprie con neanche una virgola da rimaneggiare.
            Come curatrice di un saggio sull’educazione indigena, incaricata anche di accompagnarne la stampa e realizzare le dovute revisioni tipografiche, conobbi i tre soci di una casa editrice. Simpatici, cordiali, generosi, mi trattarono come fossi una vecchia amica, la donna passando addirittura ad ospitarmi ogni volta che transitavo per São Paulo. Venne il giorno in cui presi coscienza del fatto che le poesie prodotte avrebbero potuto essere trasformate in libro. Fra quelli già pubblicati, la giovane casa editrice ne annoverava molti di poesia, di autori non solo brasiliani ma di vari paesi dell’America Latina. Ero quasi certa che i tre soci avrebbero pubblicato il mio libro, perché riscatta l’originale esperienza di una donna occidentale che, grazie all’immersione nella cultura indigena e latinoamericana, prende coscienza di sé, afferma la propria identità e rivendica libertà di pensiero e azione. La parola finale spettava a uno dei tre soci; quando mi convocò per darmi la risposta, fece un lunghissimo elenco di quelli che sembravano essere elogi del mio lavoro; molto prima che arrivasse a dirmelo esplicitamente, intuii che non avrebbe dato parere favorevole alla pubblicazione del libro. Era il primo dei rifiuti che avrei poi collezionato; ed è quello che più mi ha fatto male, perché non mi sono sentita capita nemmeno da persone con le quali sussisteva un certo dialogo, confronto, che sembravano dar valore alla mia scelta di vita e produzione.
            Malgrado la devastante delusione, qualche mese dopo feci un tentativo più pragmatico. Da loro stessi avevo saputo che quando avevano bisogno di liquidi, e ciò avveniva con frequenza, i tre soci non si facevano scrupolo di far scendere, dal piedistallo su cui li avevano posti, i criteri di selezione per le opere da pubblicare. Accettavano, quindi, i soldi di chi era disposto ad autofinanziare la stampa dei propri libri. Sempre a detta di loro stessi, in alcuni casi si era trattato di lavori mediocri. Credo di aver formulato la proposta con discrezione e tatto squisiti; con discrezione e tatto mi dissero no per la seconda volta. Mi sono scervellata nel tentativo di trovare una spiegazione: posso capire che abbiano discriminato le mie poesie caso non vi abbiano colto originalità e arte; mai capirò perché abbiano discriminato i miei soldi.
            Uno di loro, che chiameremo Paulo, stava nel frattempo allontanandosi dalle sorti della casa editrice. La socia che mi ospitava me ne parlò un giorno sostenendo che una serie di decisioni, prese nel tentativo di far fronte a situazioni in corso, lo allontanavano sempre più dai suoi ideali e desideri. Venne fuori la storia di un uomo separatosi dalla moglie e con un problematico figlio a carico, che conviveva con una donna da lui ingravidata, a sua volta separata e con figlia a carico. La donna, definita invadente, aveva tentato di intrufolarsi nella gestione della casa editrice; non essendoci riuscita aveva almeno convinto Paulo a recuperare la laurea per lavorare con il quasi-suocero avvocato; inoltre aveva ottenuto che il nucleo famigliare in espansione lasciasse l’appartamento in città per istallarsi in campagna. Nelle molteplici vesti di ex marito, compagno, padre, patrigno, editore, avvocato, a salutari passeggiate nel parco di casa Paulo doveva alternare sfibranti corse in macchina nell’avvelenato traffico metropolitano. Presenza e impegni nella casa editrice cominciarono a diradarsi, fino a cessare del tutto. In seguito dovette trovare tempo per recarsi sistematicamente dallo psicanalista, cui aveva affidato il compito di tenere insieme i frammenti in cui si era ridotto. La sua storia, e la teoria secondo cui una decisione sbagliata può generarne tutta una serie di altre ugualmente deleterie per le vere aspirazioni, mi è tornata in mente ogni volta che mi sono sentita insoddisfatta della vita, e cioè molto spesso.
             Il sogno di rivelarmi scrittrice mi insegue da quando ero adolescente. Per scappare di casa mi sono sposata, finendo in una prigione ancor più opprimente. Evasa in Amazzonia, ho potuto scrivere solo saggi e poesie. Rientrata in Italia, ho cercato di iscrivermi all’università; per fortuna il tentativo è fallito, diversamente avrei sottratto almeno altri quattro anni alla scrittura. Poi mi sono risposata; altrui esigenze e ritmi mi obbligano spesso a percorrere viottoli. Mi chiedo quante decisioni non abbiano fatto altro che allontanarmi dalla strada maestra dei desideri. Posso definire scelte le mie, o esse sono solo apparenti perché in realtà indotte da fatti contingenti? La paura del fallimento potrebbe essere, inconsciamente, alla base di tutte quelle decisioni che impediscono, procrastinano o limitano la realizzazione delle aspirazioni più ambiziose? Scruto oltre le apparenze. Mi tranquillizza costatare che non ho mai pensato di rinunciare, mai smesso di camminare. Nonostante i giri a vuoto, sono arrivata vicino a quel che realmente voglio. Debbo insistere, insistere in qualunque modo possibile. Il viaggio può avere per ognuno una lunghezza differente, ma solo chi è ancora per strada lo porta a termine.
            Al momento, necessità interiore è scrivere racconti. Metterne insieme a sufficienza per un libro ha richiesto un anno e mezzo di lavoro. Un’idea fissa, che potremmo definire ispirazione, determina in che direzione scavare. Dapprima eccitante, pian piano il lavoro diventa faticoso. Il processo di estrazione è complesso. Spesso avanza con lentezza esasperante. A volte è così arduo da costringermi a lunghe interruzioni, durante le quali la sensazione di non star facendo il mio dovere mi sfibra più del lavoro stesso. Raggiungere livelli profondi è rischioso. Non di rado, sconfitte o ipotesi mai realizzate mi franano addosso con lo stesso devastante peso. Esplosioni interiori mettono in comunicazione il filone principale ai restanti. Prodigiosamente, la narrazione recupera anche particolari che sembravano finiti nell’oblio. Un consistente numero di varianti e correzioni finisce nel mucchio dei detriti. Abbandono la miniera solo dopo averla esaurita. Quanto bello sia il materiale estratto lo si scopre quando la versione è ormai definitiva, e a questo punto nessuna parola può essere sostituita, né una virgola spostata. Riesaminando il testo a distanza di tempo si può avvertire la tentazione di modificare qualcosa, per rimettere tutto al suo posto, invariabilmente, a lettura ultimata.
            Prima che finissi di scrivere questo brano è giunta la risposta dell’editore. Il libro Amazzonia portatile “non potrà entrare nel programma editoriale”. È il secondo rifiuto per la mia prima opera di narrativa. Meno laconicamente, l’altra casa editrice aveva scritto che “la collana è nata per dare voce a scrittori latinoamericani e non per opere che abbiano l’America Latina come oggetto”. Lavori mediocri diventano libri. Si editano errori grammaticali e discrepanze. Novelle vengono definite romanzi. Paragrafi sono spacciati per racconti. Di chi ha un nome si pubblicano persino i detriti. Se il lettore si accontenta di mediocrità è perché non ha scelta, e non è certo continuando a stamparne che lo si rispetta. Penso a cosa sarebbe la mia relazione con la scrittura se alla fatica e ai tempi lunghi di lavorazione non si aggiungessero gli interminabili mesi che gli editori lasciano passare prima di degnarsi di rispondere, e se fossi raggiunta da qualche risposta positiva invece che dai soliti rifiuti dal peso schiacciante. Ho riposato sufficientemente. Riprendo a camminare nel labirinto pensando a Paulo, l’editore. Il subcosciente mi segnala che sono di nuovo sopra a una miniera. Avvio il processo di estrazione pensando a João, il mio amico lettore.




Il brano “Wapichana” è uno dei capitoli del libro inedito Amazzone in tempo reale.




Loretta Emiri
Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português e il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. In italiano ha scritto Amazzonia portatile, e gli inediti Amazzone in tempo reale, Quando le amazzoni diventano nonne. È membro del CISAI - Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena dell’Università di Siena.




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