AUTORITRATTO IN VESTE DI CANE Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli
Potrebbe essere andata così: piccoli attorno al fuoco che allontana gli spiriti, preistorici e soli, poco più che animali ancora muti, impauriti sapiens, seminudi e braccati da invisibili ostilità; ed a poca distanza dalle fiamme, una sciacalla, dorata di lune, per la prima volta mugugnando mangia i resti del loro pasto, volutamente lasciati per lei. Nella fonda notte dell’uomo farà buona guardia.1
Potrebbe essere andata così: la stanca sciacalla sospettosa scappa di fronte al primitivo che si avvicina; ma l’animale-uomo questa volta non minaccia, getta un pezzo di viscere al suo fianco dalla preda appena cacciata, emettendo un grugnito acquietante. Come aria lei si avventa sul cibo e lo mastica in fretta, guardinga già lontana dove le tenebre possano nasconderla. Ma forse la sua coda quella notte si alza nel vento e comincia a muoversi in piccoli, rapidi gesti di gratitudine.
Potrebbe essere andata così: sulle prime palafitte fluviali, una bimba curiosa scruta il mondo intorno; ode il lamento insistente di un animale conosciuto e ne segue il suono. In una grotta o sotto sterpi spinosi, un cucciolo di sciacallo solo è destinato a morte certa; appena la vede avvicinarsi, le va incontro timoroso e sulle zampe malferme comincia a leccarle le mani.
“Fissando il fuoco che lo riscaldava...appisolandosi, sicuro...nell’accampamento degli animali-uomini, con gli dèi a cui aveva offerto se stesso e da cui ormai dipendeva”.2
Ci scelse, sì, forse un momento, un giorno, un altro e divennero secoli; a separarlo per sempre dal suo simile.
Fu tempo di cibo sicuro, di confini e legami, di brevi cammini sempre uguali. Leale il corpo, accordato l’orecchio, cavillato il chiaro di luna; ma assolto avrebbe amato i suoi piccoli, si sarebbe accoppiato, occupato delle ossa.
Qualunque cosa ora lo attraversi, fra cancelli, quando intona un canto di branco con altri lontani cani unanime; reca un istinto reciso, dall’aria al di fuori annusata, dai naturali corsi ?
Si può credere, se non che ricordi, che perlomeno senta qualcosa originare, in sé un grande arco di tempo inespugnato?
Quali dèi? Come abbiamo potuto sottrarre il totale destino? Lo spazio che unisce una specie dal primo istinto alla vita sino alla finale risposta della morte?
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Da Antología de Maravillas - Tomo III,di Laureano Albán, 1995.
(traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli)
IL CANE
Avevo un cane nero.
Nero e colmo di luna,
come i miraggi dell’infanzia.
Ma giunse la luna, quella di verità e sangue,
e gli disse che nessuno
regna contro la nebbia.
Nemmeno l’enorme
moneta di verità
dei suoi occhi che insidiavano
la luce sotto le porte,
nemmeno gli dèi
vestiti con le pelli
lucide dell’infanzia.
E un giorno, come se qualcuno
disponesse i mondi
in modo concluso
e in un azzurro che avanza,
ineluttabilmente
deciso a cancellarci
fino all’ultima ombra
ed ai suoi sogni di ieri;
un giorno in cui le vecchie
ciliegie si crebbero
campane e volarono,
mia madre lo trovò
che odorava la cenere
della sua morte e della notte,
ai piedi della scala
dove il mandarino
si incendiava con quelle
torri della sua memoria.
Avevo un cane nero.
Nero e colmo di neve,
come i miraggi
orditi dell’infanzia.
Questo lo dico ardendo
di fronte al poema e solo
come un dio che non giunge
ad intendere i destini.
Questo lo dico adesso
con il pianto ancorato
al sangue che passa
incendiando le rosse
finestre della terra.
Avevo un cane azzurro.
- Dissi nero l’altra sera -
Avevo un cane d’oro.
- Dissi nero l’altra notte -
Si chiamava Azabache,
come il nome di un villaggio
bruciato dal tempo,
o dal sogno, o dall’amore.
La mia relazione con lui
fu da lampada a lampada.
E ci bastava vedere
la sera, segretissimi,
per sapere che Dio
era un nome del mondo.
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Da Attilio Bertolucci, Le Poesie, 1990 Garzanti.
I CANI
Se non erano i due cani e la cagna
nell’ora torbida delle dieci
lavorative tra fine inverno e primavera
se non era il loro ingombro del marciapiede –
quando più si scontrava per le vie cittadine
senza riconoscersi la folla degli anni
cui è assegnato il volgere inevitabile
della mia vita sotto ferme tempeste –
e il loro muoversi allegro poi che una voce
di donna una passante in faccende e suo
monologante scandalo aveva sciolto il rapporto
a tre chissà quanto prima in che viva
aria di mattina presto rugiada e sole nascente
intrecciato – qui soltanto momentaneamente
impedito – andavano divisi e uniti aprendosi
agli occhi marrone alle gambe in disordine
terreni vaghi su cui il sole già forte
profondeva luce e calore esaltando mucchi
d’immondizie e muri abbandonati
così da trasparire il mattone poroso –
sarebbe la speranza morta che ora in me ride.
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Da Pablo Neruda, Obras Completas, Editorial Losada, Buenos Aires 1973.
(traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli)
ODE AL CANE
Il cane m’interroga
e non rispondo.
Salta, corre nella campagna e m’interroga
senza parlare
ed i suoi occhi
sono due umide chieste, due fiamme
liquide che interrogano
e non rispondo,
non rispondo perché
non so, non posso nulla.
Nella piena campagna andiamo
uomo e cane.
Brillano le foglie come
se qualcuno
le avesse baciate
una ad una,
s’alzano dal suolo
tutte le arance
a stabilire
piccoli planetari
in alberi rotondi
come la notte, e verdi,
e cane e uomo andiamo
annusando il mondo, scrollando il trifoglio,
attraverso la campagna del Cile,
tra le chiare dita di settembre.
Il cane si trattiene,
persegue le api,
salta l’acqua inquieta,
ascolta lontanissimi
latrati,
orina su una pietra
e mi porta la punta del suo muso,
a me, come un dono.
È la sua frescura tenera,
la comunicazione della sua dolcezza,
e lì mi domandò
con i suoi due occhi,
perché è giorno, perché verrà la notte,
perché la primavera
non portò nel suo canestro
nulla
per i cani erranti,
se non inutili fiori,
fiori, fiori e fiori.
E così interroga
il cane
e non rispondo.
Andiamo
uomo e cane riuniti
dalla mattina verde,
dall’incitante solitudine vuota
in cui solo noi
esistiamo,
questa unità di cane con rugiada
e il poeta del bosco,
perché non esiste l’occulto uccello,
né il fiore segreto,
ma trillo e aroma
per due compagni,
per due compagni cacciatori:
un mondo inumidito
dalle distillazioni della notte,
un tunnel verde e dopo
una prateria,
una raffica d’aria aranciata,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina,
respirando, crescendo,
e l’antica amicizia,
la sorte
d’essere cane ed essere uomo
convertita
in un solo animale
che cammina movendo
sei zampe
ed una coda
con rugiada.
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Da Pablo Neruda, Obras Completas, Editorial Losada, Buenos Aires 1973.
(traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli)
Dichiaro quattro cani:
uno è ormai sepolto nel giardino,
altri due mi sorprendono,
minuscoli selvaggi
distruttori,
con zampe grosse e zanne dure
come aghi di roccia.
E una cagna spettinata,
distante,
aurea nella sua cortesia.
Non si sentono i suoi passi d’oro soave,
né la sua remota presenza.
Solo latra molto tardi nella notte
per certi fantasmi,
perché solo certi assenti scelti
la odano nei cammini
o in altri spazi oscuri.
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Da Pablo Neruda, Obras Completas, Editorial Losada, Buenos Aires 1973.
(traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli)
UN CANE È MORTO
Il mio cane è morto.
Lo sotterrai nel giardino
insieme ad una vecchia macchina ossidata.
Lì, non più sotto,
ne più sopra,
si unirà con me un giorno.
Ora ormai se ne è andato col suo pelame,
la sua maleducazione, il suo naso freddo.
Ed io, materialista che non crede
nel celeste cielo promesso
per nessun umano,
per questo cane o per ogni cane
credo nel cielo, sì, credo in un cielo
dove io non entrerò, però lui mi attende
ondulando la sua coda di ventaglio
perché io al giungere abbia amicizie.
Ahi, non dirò la tristezza sulla terra
di non averlo più per compagno
perché mai fu per me un servitore.
Ebbe verso me l’amicizia di un riccio
che conservava la sua sovranità,
l’amicizia di una stella indipendente
senza più intimità dell’essenziale,
senza esagerazioni:
non si arrampicava al mio vestiario
coprendomi di peli o di acari,
non strofinava contro il mio ginocchio
come altri cani ossessivi.
No, il mio cane mi guardava
dandomi l’attenzione necessaria,
l’attenzione necessaria
a far comprendere a un vanitoso
che essendo cane lui,
con quegli occhi, più puri dei miei,
perdeva il tempo, ma mi guardava
con lo sguardo che mi riservò
tutta la sua dolce, la sua pelosa vita,
la sua silenziosa vita,
vicino a me, senza mai importunarmi,
e senza chiedermi nulla.
Ahi quante volte volli avere coda
andando unito a lui per le rive
del mare, nell’Inverno di Isla Negra,
nella grande solitudine: in alto l’aria
trapassata di uccelli glaciali
e il mio cane che saltava, irsuto, colmo
di voltaggio marino in movimento:
il mio cane vagabondo e fiutante
inalberando la sua coda dorata
fronte a fronte all’Oceano e alla sua spuma.
Allegro, allegro, allegro
come i cani sanno essere felici,
senza nient’altro, con la tirannia
della natura sfrontata.
Non c’é addio al mio cane che è morto.
E non c’é né ci fu menzogna tra di noi.
Già se ne andò e lo interrai, e questo era tutto.
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Da Vicente Aleixandre, Antología Poética, 1977 Alianza Editorial.
(traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli)
AL MIO CANE
Oh, sì, lo so, buon “Sirio”, quando mi guardi con i tuoi grandi occhi profondi.
Io discendo dove tu sei, o ascendo dove tu sei
e nel tuo regno a te mi mescolo, buon “Sirio”, buon cane mio, e con te mi salvo.
Qui nel tuo regno di serenità e silenzio, dove la voce umana mai si ode,
converso nello scurire ed entro profondamente nel tuo mezzogiorno.
Tu mi hai condotto alla tua casa, dove esiste il tempo che mai si pone.
Un presente continuo presiede il nostro dialogo, in quel parlare che solamente è il tuo.
Io finisco e muto ti contemplo, e mi ergo e ti guardo. Oh, che profondi occhi consapevoli.
Ma non posso dirti nulla, benché tu mi comprenda... Oh, io ti ascolto.
Lì odo il tuo rauco dire e il sapere dallo stesso centro infinito del tuo presente.
Le tue lunghe orecchie soavissime, il tuo corpo di sovranità e di forza,
la tua rude zampa irsuta che tocca la materia del mondo,
l’arco della tua apparizione e quei fondi occhi pacificati
dove mai la Creazione irruppe come una sorpresa.
Lì, nel tuo rifugio, nel tuo inferno dove tutto è zenit, ti intesi, anche se non potei parlarti.
Tutto era giubilo nel mio cuore, che sussultava nel tuo intorno, mentre tu eri uno sguardo
che m’intendeva.
Dal mio succedere e dal mio consumarmi ti vedo, un istante rimasto alla tua riva,
reclamando di fermarmi e riconoscermi.
Ma io passai, trascorsi e tu, oh grande cane mio, persisti.
Abitato nella tua luce, immobile nella tua certezza, non potesti fare altro che intendermi.
Ed io uscii dal tuo rifugio e discesi al mio alveolo viaggiatore, e, al voltare la testa, sul confine
vidi, non so, qualcosa come due occhi misericordiosi.
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Da Odissea di Omero, 2007 I Classici Mondadori, traduzione di G. Aurelio Privitera.
Essi dunque facevano questi discorsi tra loro.
E un cane, che era sdraiato, sollevò il capo e le orecchie,
Argo, il cane dell’intrepido Odisseo, che egli stesso
s’era allevato, ma non goduto: andò prima
alla sacra Ilio. Con lui i giovani un tempo cacciavano
capre selvatiche, daini e lepri:
ma ora, partito il padrone, giaceva in disparte
sul molto letame di muli e di buoi
che stava ammucchiato davanti alle porte, finché lo toglievano
i servi di Odisseo, per concimare il grande podere.
Giaceva il cane su di esso, Argo, pieno di zecche.
Allorché vide Odisseo accanto,
scodinzolò e piegò entrambe le orecchie,
ma al proprio padrone non poté
avvicinarsi. Questi distolse lo sguardo e si terse una lacrima,
facilmente eludendo Eumeo; poi domandò:
“Eumeo, che meraviglia, questo cane sopra il letame!
È bello il suo aspetto, ma non so chiaramente
se era anche celere con questa figura,
o se era come sono i cani da mensa
degli uomini: li allevano per lusso i padroni”.
E tu rispondendo, o porcaro Eumeo, gli dicesti:
“Oh sì, questo è il cane di un uomo che è morto lontano:
se per l’aspetto e l’azione fosse così
come quando Odisseo, partendo per Troia, lo lasciò,
subito ne ammireresti la celerità e la forza.
Nei recessi della selva profonda non gli sfuggiva
una fiera che egli inseguisse: eccelleva nel seguire le peste.
Ma ora è in miseria: il padrone gli è morto lontano
da casa e le donne, incuranti, non l’accudiscono.”
...
E subito il fato della nera morte colse Argo,
quando ebbe visto Odisseo dopo venti anni.
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Da Giuseppe Ungaretti, Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, 1996 I meridiani Mondadori.
CON FUOCO
Con fuoco d’occhi un nostalgico lupo
Scorre la quiete nuda.
Non trova che ombre di cielo sul ghiaccio,
Fondono serpi fatue e brevi viole.
Note:
1 - (liberamente ispirato a Lorenz Konrad “E l’uomo incontrò il cane” , Adelphi, 1973)
2 - (tratto da Jack London “Zanna Bianca”, Newton 1992)
Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da vent’anni vive tra Italia e Costa Rica. La casa editrice Passigli di Firenze ha da poco pubblicato il suo ultimo libro, il poema “nuovomondo”, finalista al Premio Palmi. Fra le sue precedenti pubblicazioni: “Il silenzio del cuore” (1985), “La lunga notte” (1987, Premio Giovani Città di Palermo), “Lettere lungo la strada” (2002, premiato al Città di Marineo e finalista al Guido Gozzano), “L’oceano e altri giorni” (2005, finalista ai Premi Libero de Libero, Guido Gozzano e Ultima Frontiera e vincitore del Premio Minturnae Giovani). Una sua selezione di poesie scelte è stata pubblicata in spagnolo dalla Editorial de la Universidad de Costa Rica e dalla Fundación Casa de Poesía (“Poesía escogida”, 2009). La sua attività di traduttore di poesia latinoamericana si svolge in collaborazione con la rivista Sagarana, nella quale dal 2007 propone principalmente autori del Costa Rica, mai tradotti in Italia; ha curato la pubblicazione di Eunice Odio “Questo è il bosco e altre poesie”, (2009, Menzione Speciale Camaiore per la traduzione) e di Laureano Albán“Gli infimi crepuscoli”, (2010). Rosa Gallitelli è nata a Pisticci (Matera) nel 1969 e da vent’anni vive tra Italia e Costa Rica. Moglie del poeta Tomaso Pieragnolo, studiosa di poesia ispanoamericana, dal 2002 collabora alla ricerca e alla scelta di autori per pubblicazioni e riviste.
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