RADICI Daniela Karewicz
I frequenti incubi di papà ci svegliavano a volte dai nostri sonni fantasiosi e puerili.
Allora io e i miei due fratelli uscivamo spaventati dalle nostre camerette e salivamo sul suo enorme letto. Avvinghiati a lui, accarezzavamo il suo viso bagnato dal sudore.
Con mani tremanti si accendeva una sigaretta e il fumo tracciava con cineree nuvolette un silenzioso racconto. Le sue peripezie da reduce di Auschwitz ci mostravano mondi sconosciuti e svelavano la maschera dell’olocausto, spaventoso e oscuro.
Queste erano le nostre fiabe.
Non eravamo mai così uniti come in quei momenti. Ci addormentavamo tutti insieme fortemente abbracciati e la mattina dopo andavamo a scuola come se niente fosse accaduto.
A volte, però, in pausa, con il panino in mano, dopo i giochi o le corse, mi assaliva una tristezza indicibile. Mi scorrevano davanti le immagini di un film mai visto. Vedevo le grigie baracche dei lager, strane costruzioni a ciminiera. Sentivo il rumore secco delle ossa di migliaia di morti, mi perseguitavano i volti ormai trasfigurati e violacei.
Dopo simili attacchi di angoscia le mie interrogazioni finivano con un disastro totale.
Mi ricordo bene un giorno quando, rimproverata dalla maestra, stavo in piedi davanti a tutti con la testa bassa e le mani intrecciate. Anche quella volta non sapevo rispondere alle domande. Immobile, intrappolata nel chiuso dell’aula, mi sentivo schiacciata e incapace di agire. Avevo voglia di spalancare una finestra, aprire le braccia e volare, volare, volare...
Al ritorno da scuola camminai lentamente e osservai a lungo il posto dove ero cresciuta e con orrore constatai che la mia piccola esistenza di dodici anni era recintata dall’infinito grigio dei grattacieli. Mi domandavo frequentemente, perché sono nata proprio lì, in Polonia, e non in un'altra parte del mondo!
Sul pianerottolo mi aspettava papà. - Come mai rientri così tardi ? Ora vai a casa e chiudi bene la porta. Il tuo fratellino ti aspetta. -
E poi si affrettava per andare in ospedale dalla mamma.
Mi ricordo quando in casa c’era ancora la mia mamma.
Sempre a letto, mi chiese una volta di passarle un vasetto di pomata. La sua pancia, nuda e nera, gemeva di dolore.
- È bruciata dai raggi X - mi disse, sorridendo con gli occhi febbrili sulla faccia secca e pallida.
Entrata in casa, mi accostai subito alla finestra che dava sull’enorme cortile racchiuso tra le mura scrostate di vecchi casamenti a cinque piani. Nell’angolo sorgeva timidamente un misero albero di lillà, l’unica pianta sul luogo dei miei giochi.
Osservai il cortile cullando con una gamba la carrozzina con il piccolo che non riusciva ad addormentarsi. I miei amici costruivano il pupazzo di neve. Sognavo di essere insieme a loro, ma non potevo lasciare da solo il mio fratellino di sedici mesi appena.
Il pupazzo era quasi finito, buffo con il suo capello storto e lo scialle rosso intorno al collo.
- Mettetegli dei ciottoli come bottoni e bastoncini come braccia – gridavo dall’alto.
La sua faccia tonda con occhi e labbra di carbone mi sorrideva da lontano.
- Trallalla! Trallalla! – affacciata alla finestra cantavo e saltavo insieme ai ragazzi. Il biberon era ancora troppo bollente, potevo quindi guardarli ancora per qualche minuto... Come avrei voluto giocare nel cortile insieme a tutti.
Due silenziosi rivoli scendevano lungo le mie guance.
Diversi anni passati all’accademia sperimentale per infermieri militari hanno sviluppato in me l’istinto di sopravvivenza. In questa scuola, pur molto severa, cominciai a fiorire. Non credevo di essere tagliata per gli studi, invece... all’esame finale presi dieci e lode in tutte le materie. Ero pronta ad affrontare il mondo intero. L’unico esame dove presi appena sufficiente, era il tiro con le armi da fuoco... Odiavo le armi.
Dopo aver finito gli studi, decisi di fare un viaggio.
Andai a Berlino Est, soprattutto con l’intenzione di vedere il muro.
Entrai in un vasto parco che aveva zone e climi diversi; da un lato era aperto e dispiegava al cielo il verde più tenero, dall’altro, man mano che si addentrava in una delle sue lunghe ramificazioni, sprofondava nell’ombra oscura.
Ed il muro era lì, simbolo vergognoso della tirannia.
Con il muto desiderio di scavalcarlo stavo fissando quella “striscia della morte” che divideva in due la terra e il corpo stesso.
Non potevo fermarmi lì. Avevo bisogno di sentirmi libera e viva, tuttavia non sapevo cosa fare. Se mi fermavo in qualche angolo di terra, subito mi assaliva un pensiero. Dove è la mia vecchia patria?
E di nuovo mi ritrovavo in viaggio senza sapere dove stessi andando.
Come un seme turbinante nell’aria, il vento mi scaraventò sul lembo di un sentiero ignoto.
Inerme e avvizzita mi abbandonai in attesa degli sterili giorni invernali.
Prevalse, però, la forza di esistere.
Decisi di mettere le radici. Daniela Karewicz: Nasce in Polonia. Il suo amore per l’arte risale all’infanzia quando, rispetto ai suoi compagni, si sentiva già un’estasiata “artista”. Dal suo arrivo in Italia per dedicarsi ad organizzare una nova vita, trascura l’arte, ma l’improvvisa morte del fratello, la porta a tradurre i suoi testi poetici, per poi, pian piano, cominciare a creare cose proprie. Spesso si diletta ad illustrare le proprie composizioni. Segue anche i laboratori di scrittura creativa interculturale pressi il “Dipartimento di Italianistica”, all’università di Bologna, organizzato dall’Associazione Eks&Tra, e fa parte delle associazioni artistici “Essere” e ”Delle terre di Giotto e del Beato Angelico”. Suoi lavori sono stati presentati durante vari incontri culturali, ed alcuni pubblicati. Partecipa a concorsi e rassegne letterarie con apprezzabili riconoscimenti.
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