KULINA Capitolo del libro inedito Amazzone in tempo reale Loretta Emiri
Márcio Souza in Amazzonia ci è nato. Reiteratamente ho letto il suo libro O empate contra Chico Mendes, sempre piangendo e ridendo come mi accadde la prima volta. Dal suo lavoro ho estratto gran parte dei dati storici qui inseriti. Le sue affascinanti parole hanno anche alimentato la mia indignazione, e di ciò gli sono profondamente grata.
Non so ancora in che ordine li inserirò nel libro ma, dei ventitré racconti che ne fanno parte, questo è l’ultimo ad essere scritto. Dovendo affrontarvi tempi complessi e variegati, per due ragioni ho preso tempo: un po’ per vigliaccheria, un po’ perché pensavo che la soddisfazione di veder materializzati gli altri brani avrebbe alleggerito il peso che mi sento addosso da quando ho cominciato a pensare a questo. Così non è stato. Vari mesi sono trascorsi dalla stesura del penultimo racconto, e da allora non ho fatto altro che continuare a prendere tempo. Il risultato è che novità prodottesi devono essere aggiunte a quanto avevo in mente di scrivere. Più ardua è divenuta la sfida, lo spirito s’è fatto più greve; la via di scampo è guardare negli occhi me stessa posando lo sguardo sulla pagina bianca in attesa.
Ventitré mesi fa ho inviato proposta di pubblicazione di un libro didattico-fotografico sugli indios yanomami a una casa editrice specializzata in letteratura per ragazzi. Stamattina ho ricevuto la telefonata della direttrice editoriale. Mi ha detto che, la maggior parte delle volte, nemmeno danno riscontro alla corrispondenza che ricevono; nel mio caso, ci teneva a farmi sapere che il lavoro le è piaciuto, anche se non verrà pubblicato perché sarebbe rivolto a un pubblico meno giovane di quello raggiunto dalla casa editrice. Continuo a collezionare apprezzamenti e rifiuti di pubblicazione. In principio l’apprezzamento mi regala una certa euforia; immediatamente dopo, ingoiato il boccone amaro del rifiuto, mi viene da imprecare e vomitare. Più ardua diviene la sfida, lo spirito si fa più greve; la via di scampo è guardare negli occhi la realtà stessa e magari decidere di non soccomberle, di trasformarla prendendo in mano la pagina bianca in attesa.
Non ho ancora deciso, ma credo che non inserirò le date di stesura dei singoli racconti, però conserverò il foglio sul quale le ho annotate. Fra ricerche bibliografiche, scrittura e riletture, molti racconti hanno richiesto più mesi di lavoro, ma le date abbinate loro inducono a pensare che ognuno sia stato scritto nell’arco di un mese. Arbitraria è la scelta operata per datare i brani, eppure risponde a dei criteri: posso aver annotato il mese in cui l’idea portante del testo ha preso consistenza, o quello durante il quale ho scritto di più, oppure quello in cui ho considerato
ultimato il lavoro; influenzati da umori e malumori contingenti, in ciascun racconto i suddetti criteri hanno assunto peso e ruolo differenti, essendo così impossibile determinare quale di essi abbia avuto il sopravvento sugli altri. La manipolazione delle datazioni è dovuta anche al fatto che, durante un buon tempo, avevo sperato di poter elaborare almeno un brano al mese; anche questo desiderio è stato investito dal tram della vita, venendomi a mancare spesso tranquillità interiore o semplicemente tempo per scrivere. Da qui in avanti applicherò date meno atemporali. La responsabilità che mi sento addosso da quando ho cominciato a pensare a questo brano mi pesa quanto il vivere. L’esistenza mi appare ogni giorno più insulsa, tirare avanti è sempre più greve; la via di scampo è prendere in mano la vita stessa e magari decidere di non buttarla via, di riciclarla dandole forma di pagina scritta. Non fu certamente attraverso i mezzi di comunicazione locali che seppi dell’assassinio di Chico Mendes. La notizia mi giunse attraverso la rassegna stampa che, settimanalmente, un’organizzazione non governativa del sud del Brasile faceva pervenire ai suoi collaboratori. Feci subito un giro di telefonate per avvertire amici e conoscenti, sentendomi via via più angosciata perché alla mia si aggiungeva la tristezza degli altri. Umide di pianto o strozzate in gola, le nostre parole non verbalizzarono quanto avremmo potuto dire in memoria di Chico Mendes, e cioè che era stato un solido leader rurale, intrepido fomentatore di azioni denominate empate, incorruttibile consigliere comunale, brillante sindacalista, eccezionale organizzatore del movimento popolare nell’Acre, uno dei fondatori nazionali del PT - Partido dos Trabalhadores. Ed era stato lui, umile lavoratore, a convincere la Banca Interamericana di Sviluppo (BID) a sospendere i finanziamenti per il prolungamento della strada BR-364; da quel momento i progetti brasiliani sarebbero stati subordinati alla valutazione di équipe specializzate nell’analisi dell’impatto socio-ambientale di tali progetti. Chico Mendes si era guadagnato il “Prêmio Global” dell’ONU, ma anche e soprattutto la riconoscenza di seringueiros, indios e loro alleati, che in lui vedevano incarnate le proprie lotte.
Durante il secondo viaggio in America, Cristoforo Colombo dà notizia dell’esistenza della gomma, avendo osservato che gli abitanti di Haiti fabbricano palle sembrategli miracolose. Visitando l’America del Sud, nel 1736 l’astronomo francese Charles Marie de La Condamine manda un comunicato all’Accademia di Scienze di Parigi in cui descrive il processo di raccolta del caucciù e la preparazione di oggetti in uso tra i portoghesi; questi ultimi, traendo spunto dalla manifattura tradizionale indigena, all’epoca già producono stivali, bottiglie, pompe e siringhe. Nonostante il controllo delle autorità portoghesi, all’inizio del 1800 il commercio clandestino di simili manufatti già è sedimentato. Industrie dell’Inghilterra e Stati Uniti addomesticano la gomma, ne ampliano l’uso e perfezionano la tecnologia; il rapido progresso industriale fa sì che la richiesta internazionale passi dai manufatti alla materia prima. Il commercio amazzonico, che era riuscito a burlare i controlli dei portoghesi, non riesce a contornare le proibizioni imposte all’istallazione di complessi industriali, così l’attività manifatturiera locale retrocede all’extrativismo. Dal 1847 al 1860, la gomma è al primo posto fra le merci esportate. La valorizzazione di questo prodotto coincide con la caduta del regime monarchico, che avviene nel 1889. Nel Brasile repubblicano, però, la ricchezza continua a concentrarsi nelle mani di pochi. I padroni dei seringais, meglio conosciuti come “colonnelli della gomma”, hanno amanti francesi, costruiscono palazzi sontuosi per le mogli, riproducono teatri europei in piena foresta amazzonica, rubano terre ai popoli indigeni e, per ottenere la vasta manodopera di cui hanno bisogno, schiavizzano indios e diseredati.
Aquiri è il nome dato dagli indios al fiume che attraversa un territorio vasto quanto il Portogallo; territorio che, deformando il termine indigeno, i bianchi chiameranno Acre. Incastonato fra Bolivia, Perù e Brasile, e abbondantemente cosparso di seringais e castagneti, a partire dal 1880 l’Acre comincia ad essere penetrato da leve di brasiliani; si tratta soprattutto di nordestinos, cioè di individui procedenti dal nordest che cercano di lasciarsi alle spalle le secche e la crisi economica. I brasiliani incontrano la resistenza di peruviani e boliviani. Dopo scaramucce, battaglie, rivoluzioni e alterne vicende, il 17 novembre del 1903 si arriva al Trattato di Petrópolis: l’Acre comincia a far parte del Brasile, cui vengono assegnati centocinquantaduemila chilometri quadrati di territorio. Oggi il fiume Aquiri demarca la frontiera del Perù con la Bolivia; addentrandosi in territorio brasiliano, non lontano dalla frontiera boliviana, nella sponda sinistra accoglie l’affluente Xapuri che ha dato il nome alla città dove Chico Mendes è stato assassinato.
Attraverso un’operazione del tutto legale, nel 1871 il botanico inglese Henry Alexander Wickham invia a Londra settantamila semi di seringueira che, sperimentalmente, sono piantati nel Kew Garden. In seguito le piantine vengono trasferite nel sudest asiatico, dove il clima è simile a quello amazzonico; distribuiti ordinatamente, gli alberelli crescono e si trasformano in piantagioni razionalizzate che cominciano a produrre. Per i fornitori brasiliani la crisi inizia nel 1910; il colpo di grazia li raggiungerà durante la 1ª Guerra Mondiale, quando il caucciù asiatico è preferito a quello amazzonico per i costi operazionali, e relativi prezzi, più bassi. Nel 1920 il capitalismo mondiale vive un momento di frenesia, mentre l’economia della regione amazzonica è arrivata alla fine della frenesia del ciclo della gomma. Il 1941 è l’anno dell’offensiva giapponese alle colonie inglesi, francesi e olandesi in Asia; le piantagioni d’oriente vengono occupate; avendo perso la principale fonte di approvvigionamento del caucciù, gli alleati vedono diminuire rapidamente le scorte accumulate all’inizio della guerra. Decidono quindi di attingere dall’Amazzonia; propagandata come “Battaglia della Gomma”, l’operazione prevede la convocazione di migliaia di lavoratori che, fomentando sentimenti di patriottismo e abnegazione, vengono definiti “soldati della gomma”; uno studio pubblicato nel 1946 rivelerà che di essi ne morirono o scomparvero dai diciassettemila ai ventimila. Al termine della 2ª Guerra Mondiale, l’Amazzonia torna ad essere lasciata in pace.
Nel corso degli anni, il “colonnello della gomma” è stato rimpiazzato dal seringalista che, oltre alla porzione di foresta, è padrone anche del barracão: in questo locale si commercializza il caucciù e gli atri prodotti dell’extrativismo; si vendono strumenti da lavoro, merci varie e quegli alimenti che non possono essere prodotti nei campicelli di sussistenza coltivati da mogli e figli di seringueiros. Poiché se ne vivono più confortevolmente in città, di solito i seringualistas sono rappresentati dai gestori dei suddetti locali; in queste strutture, quantità e quotazioni delle materie prime e prezzi delle merci vengono così manipolati che, automaticamente e cronicamente, i seringueiros sono prigionieri dei debiti e per questo chiamati cativos. Negli anni sessanta la situazione si modifica: molti seringais vengono disattivati ma, continuando a svolgervi il proprio lavoro, i seringueiros ne prendono possesso, li occupano. Per le relazioni commerciali entra in scena la figura del marreteiro, un intermediario che acquista la produzione e vende beni di consumo. Datoche non ha più un padrone, e in contrapposizione al termine cativo, questo seringueiro è chiamato liberto; in realtà dipende in tutto dagli intermediari e da essi è sfruttato. È corretto dire che l’abbandono dei seringais è dovuto all’accentuarsi della crisi dell’extrattivismo, ma bisogna aggiungere che la crisi è conseguenza di tutta una serie di scelte politiche fatte.
Nato il 15 dicembre del 1944 in un seringal del comune di Xapuri, dal 1962 al 1965 Chico Mendes è in contatto con l’attivista politico Euclides Fernando Távora, che vive in Acre semiclandestino, e che gli fornisce gli strumenti per alfabetizzarsi; curioso e intelligente Chico apprende in fretta anche a leggere il mondo che lo circonda. Nel 1966, il governo della dittatura militare vara il progetto chiamato “Operazione Amazzonia”; sognando di trasformare rapidamente il Brasile in una grande potenza, e senza preoccuparsi con le conseguenze delle loro scelte, i militari seducono grandi investitori affinché impieghino i loro capitali nella regione amazzonica. In un primo momento, per creare un mercato di terre, speculatori venuti dal sud comprano a prezzi ridicoli estesi seringais dell’Acre, o se ne impossessano esibendo documenti falsi; contemporaneamente, per “ripulire” l’area dagli abitanti, offrono indennizzi irrisori, o usano metodi violenti. A conferma del fatto che la storia non insegna, ma si ripete, i seringueiros debbono lasciare la foresta e dirigersi verso le città, così come i nonni erano stati costretti ad abbandonare il Nordest quasi cent’anni prima. Di nuovo, per far posto alle bestie, gli uomini vengono scacciati dalle terre e l’habitat distrutto. Insieme alla foresta è tutta una civiltà che brucia, con valori e conoscenze accumulate; è un modo di vivere che scompare, e non semplicemente un sistema economico. Questa angosciante consapevolezza contribuirà a far prendere a Chico Mendes l’unica decisione possibile per un uomo con la sua personalità e sensibilità: mettersi a capo del movimento dei lavoratori dell’Acre, lottare per garantire migliori condizioni di sussistenza alla collettività cui appartiene, rischiare la vita per difendere il proprio mondo minacciato.
“Indios dell’Acre” è la definizione comunemente usata per i popoli indigeni dell’area; popoli che, in alcun modo, possono essere visti come elementi esterni alla storia e alla società regionale. Le varie fasi dell’occupazione economica, gli indios dell’Acre le hanno vissute tutte sulla propria pelle, e questa non è un’affermazione solo metaforica: fino a qualche anno fa, tra i più vecchi, c’erano individui che portavano marchiate nel braccio le iniziali del seringualista che li aveva sottomessi. All’avanzare degli incendi, del latifondo, dell’agricoltura intensiva, della monocultura e degli allevamenti di bestiame, fa riscontro la presa di coscienza di indios e seringueiros. Dall’unione dei loro sforzi per difendere la foresta e il proprio peculiare modo di viverci scaturisce la forma di resistenza pacifica chiamata empate: quando, cioè, si profila la minaccia dell’insediamento di una nuova fattoria, uomini, donne, vecchi e bambini si recano sul posto per impedire l’abbattimento della foresta. A livello nazionale, in questi anni sorgono i sindacati e la CONTAG - Confederazione dei Lavoratori in Agricoltura; la chiesa cattolica opera evangelicamente attraverso le CEB - Comunità Ecclesiali di Base, la CPT - Commissione Pastorale della Terra, il CIMI - Consiglio Indigenista Missionario; segmenti della società civile danno vita a gruppi di appoggio; con le loro cognizioni, gli intellettuali illuminano il percorso del movimento indigeno e popolare brasiliano; comincia ad essere strutturato il PT - Partido dos Trabalhadores. Gli indigeni dell’Acre trovano alleati coraggiosi e competenti persino nella FUNAI - Fondazione Nazionale dell’Indio. L’inizio della resistenza organizzata contro l’abbattimento della foresta amazzonica coincide con l’assassinio di Wilson Pinheiro, all’epoca il più importante leader sindacale dell’Acre: è il luglio del 1980. Alla manifestazione organizzata subito dopo la sua morte, fra le millecinquecento persone convenute per protestare contro la violenza dei latifondisti e la connivenza della giustizia, c’è Luiz Inácio Lula da Silva. Nel novembre del 2002 Lula verrà eletto presidente della Repubblica Federativa del Brasile ed io comincerò a scrivere questo brano.
Per seringueiros e indios dello stato di Rondônia, l’asfaltatura della strada BR-364 era stata una catastrofe. Chico Mendes sapeva molto bene che, se la strada fosse stata in quel momento prolungata fino all’Acre, la sua lotta era persa. Simili preoccupazioni ispirarono le sue parole durante la riunione della Banca Interamericana di Sviluppo cui partecipò a Miami nel marzo del 1987. Sostenne che bisognava riconoscere e consolidare il diritto di occupazione dei territori da parte di seringueiros e indios e che loro stessi avrebbero dovuto amministrarne le risorse. Chico non difese l’inviolabilità della foresta, ma il suo sfruttamento razionale a beneficio della popolazione locale, ed è questo il principio ispiratore delle reservas extrativistas. Vado matta per il caffè: durante i diciotto anni trascorsi in Brasile, ho provato molte marche e sperimentato fantasiose miscele, ma tutte mi hanno lasciato in bocca il sapore della paglia, perché il caffè buono è quello esportato; una volta mi divertii a riunire un gruppo di amici cui offrii un delizioso caffè brasiliano appena giunto dall’Italia con mia madre. In una bottiglia dalle belle forme conservo semi di cumaru, prodotto da cui si ricava un’essenza per profumi e cosmetici; permaso intatto a distanza di tanti anni dalla racconta, a volte ne inspiro a fondo l’odore per sentire l’Amazzonia nei polmoni. In un’altra boccetta ho dell’óleo-de-copaíba, portentoso cicatrizzante; avendo anch’esso un odore molto evocante, lo annuso quando più profonde si fanno le ferite che la nostalgia mi provoca. Costretto a vendere l’intera produzione per comprare beni di prima necessità, non di rado il raccoglitore nemmeno fa uso di prodotti esotici e materie prime; o non ha soldi per acquistarne i derivati. I consumatori, invece, potere economico ne hanno sempre. Un circuito commerciale, ritenuto equo e solidale, elimina l’azione degli intermediari e immette direttamente nelle tasche dei produttori quanto pagato dai consumatori; consumatori così sensibili da essere disposti persino a pagare di più per i già cari prodotti importati, pur di tacitarsi la coscienza e sentirsi bravi e giusti. Riserve forestali per garantire materie prime, legni pregiati, stupendo artigianato, medicinali, profumi, cosmetici, frutti esotici per la vorace comunità internazionale; oppure, come Chico Mendes avrebbe voluto, sfruttamento razionale a beneficio della popolazione locale?
Nell’agosto del 1991 trascorsi una settimana nell’Acre. Mi invitarono per coordinare un “Incontro Regionale di Educazione Indigena” delle équipe del CIMI che operavano in tale ambito; e anche per realizzare una verifica dell’esperienza portata avanti con i maestri kulina in vista della preparazione del loro “VI Corso di Formazione”. Anni prima, ascoltando un indigenista parlare dei kulina, ero rimasta colpita da aspetti culturali che li accumunano agli yanomami, con i quali lavoravo: il mito spiega che furono due uomini i primi kulina, esattamente come furono due uomini i primi yanomami; quando un ospite arriva nel villaggio kulina, nessuno lo guarda, viene lasciato riposare, poi gli si offre qualcosa con cui ristorarsi e solo dopo ciò comincia a parlare, proprio come avviene tra gli yanomami. L’informazione più preziosa che detenevo dei kulina risaliva alla fine del 1984 e aveva a che fare con la lotta per la terra; insieme a due comunità kaxinawá, i kulina dell’Alto Purus avevano autodemarcato il proprio territorio, senza aspettare o delegare nessuno e, con una grande festa, avevano celebrato la fine della posa in opera di targhe e picchetti disseminati su un’area di duecentosessantacinquemila ettari di territorio; la notizia mi aveva molto impressionata, perché rappresentava un formidabile passo avanti nel processo di organizzazione dei popoli indigeni. A caratterizzare la mia permanenza a Rio Branco furono il caldo soffocante e il fumo così denso da impedire più volte il funzionamento dell’aeroporto; l’Acre bruciava, esattamente come quando Chico Mendes veniva sepolto, quasi tre anni prima. Fra l’incontro di educazione indigena e la verifica dei corsi kulina, ci concedemmo un giorno di riposo. Mi proposero di visitare un insediamento di confine tra Brasile e Bolivia. A bordo di una camionetta, lungo il percorso di svariati chilometri, il contesto fu lo stesso: foresta in fiamme, denso fumo che faceva lacrimare, odore acre di bruciato che faceva tossire. Ma la scena veramente apocalittica fu quella che mi si presentò davanti arrivando nel piccolo insediamento: sbilenche baracche di legno, costruite su palafitte, erano collegate fra loro da corridoi e verande fino e formare un’unica costruzione a forma di ferro di cavallo; le casupole erano adibite a bettole, negozietti di cianfrusaglie, postriboli. Il tutto volume di un incredibile numero di radio e mangianastri sconquassava i timpani. Guardando sotto le casupole, si scorgevano melma, un torbido acquitrino e rifiuti sparsi ovunque. Molti abitanti del lurido villaggio avevano tratti indigeni, con ogni probabilità essendo gli antichi padroni di quella che era stata una porzione di lussureggiante foresta amazzonica: proprio come la foresta era divenuta un immondezzaio, loro erano stati trasformati in rifiuti umani. Appoggiata a una balaustra, vomitai anche l’anima.
Ero da poco rientrata in Italia, pensando allora che fosse “definitivamente”. Venni a sapere che nella vicina Ancona sarebbe stata tenuta una conferenza su Chico Mendes. Mi organizzai per non perdermela. La conferenza era inserita nell’ambito di quelle fresche iniziative estive durante le quali, nel corso di tre o quattro giorni, i soliti tre o quattro gatti si surriscaldano il cervello pensando alle sorti del mondo; fresche iniziative pseudopolitiche, all’ombra delle quali si realizzano grandi abbuffate. Il conferenziere era uno studente universitario, al quale la lettura di tanti testi aveva conferito l’atteggiamento di chi sa di possedere la verità. Compiaciuto di sé stesso e di quanto diceva, parlò a lungo; più parlava più io sbigottivo; quando ebbe vomitate tutte le sue verità, chiesi la parola per precisazioni che, secondo me, dovevano essere fatte prima di procedere al dibattito. Affermai che parlare di Chico Mendes senza dire che era stato leader rurale, consigliere comunale, sindacalista, organizzatore del movimento popolare, fondatore di partito politico, era come asportargli parti di personalità, ciò equivalendo ad ammazzarlo per la seconda volta; definire Chico Mendes un “grande ecologista”, lasciando intendere che dovesse la sua formazione al movimento ecologico internazionale, era negare che civiltà minoritarie, come ad esempio quelle amazzoniche, possano generare menti brillanti; mettere a Chico Mendes una striminzita maglietta verde, con su scritte scialbe parole alla moda, per divulgare un movimento prettamente post-industriale, era un’impostura, un modo come un altro per far dimenticare che rosso era stato il sangue versato da Chico per difendere il modo di vivere suo, degli indios e dei seringueiros. Mi dicono che sono concisa ed incisiva nell’esprimermi e credo ci riuscissi anche quella sera, ma non servì a niente: i tre o quattro ascoltatori della conferenza se la squagliarono immediatamente alla volta dell’area adibita a ristorante; mancando il pubblico, se la svignò pure il conferenziere, lui sospinto anche dalla convinzione morale che le mie argomentazioni non avrebbero certamente fatto vacillare le sue certezze. Conclusi il mio intervento guardando negli occhi l’unica persona rimasta ad ascoltarmi, l’amico che mi aveva gentilmente accompagnato in auto ad Ancona. Mi ci vollero svariati giorni per smaltire la mia sbornia da indignazione.
Più volte ho pensato che non sarei riuscita a portare a termine questo brano, prendendo in considerazione l’ipotesi di inserirlo mutilato nel libro o di non inserirlo affatto; l’ho ultimato dopo che un verso qui contenuto è stato pubblicato nel catalogo della collettiva di pittura intitolata “il BIANCO”, realizzata a Fermo; l’ho ultimato dopo aver subito l’asportazione chirurgica dell’appendice e, con essa, dei residui di umiliazione e dolore provocati da un abbandono sentimentale; l’ho ultimato dopo essermi presa l’influenza di turno, abbinata ad una tosse che mi ha sconquassato la ferita, i polmoni, le costole e lo spirito. Ho finito il racconto mentre la neve scendeva abbondante su tutt’Italia: nei primi giorni neve soffice e bianca, poi trasformata in neri, luridi mucchi di ghiaccio che stentano a sciogliersi. In questi giorni, gli amministratori pubblici si dicono molto preoccupati e decretano blocchi della circolazione, traffico a giorni alterni, “ecologici” spostamenti a piedi o in bicicletta nei centri storici. Giornali e televisione non fanno che parlare di polveri sottili. Questo mio tribolatissimo racconto finisce qui, finalmente, con parole, almeno per me, liberatorie: quando smetteranno di ripetere, come pappagalli, la storiella secondo cui l’Amazzonia è il polmone del mondo, quando smetteranno di dirsi difensori della foresta amazzonica, quando smetteranno di inquinare l’Alaska, quando non permetteranno più che piogge acide corrodano le foreste europee, quando smetteranno di saccheggiare risorse naturali e prodotti esotici, quando saranno guariti dalla bulimia, allora, e solo allora, gli occidentali avranno qualcosa da dire sull’Amazzonia e il suo sfruttamento razionale; allora e solo allora gli occidentali avranno qualcosa da dire su quell’Amazzonia che gli indios hanno preservata intatta fino ai nostri giorni, anche se per loro “ecologia” non è mai stata una parola alla moda ma uno stile di vita. Ha ripreso a fioccare, mi hanno tolto i punti, quasi non tossisco più, mi sento decisamente meglio; i gesti di un amico scendono come cristalli di neve e mie convalescenze interiori tornano ad essere bianche tele di nuovo pronte per forme che abbelliscano il vivere.
GLOSSARIO
(Il brano “Kulina” č uno dei capitoli del libro inedito Amazzone in tempo reale.) Loretta Emiri č nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si č stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yănomamč-Portuguęs e il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. In italiano ha scritto Amazzonia portatile, e gli inediti Amazzone in tempo reale, Quando le amazzoni diventano nonne. Č membro del CISAI - Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena dell’Universitŕ di Siena.
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