IL GRILLOTALPA Laura Bosio
UN'ALTRA STORIA
Il grillotalpa è un insetto che si trova in natura, ma si direbbe uscito dalla mente magnifica di uno schizofrenico (da noi - strano, è la prima volta che mi accorgo di dire noi parlando di queste zone - l'esaltazione, l'eccesso, l'entusiasmo, la generosità estrema dei sentimenti e delle reazioni si esprimono con una parola, manifisià). Un essere che salta e scava, si slancia verso l'alto facendo vibrare e frinire le lunghe zampe anteriori e poi si sprofonda e si acceca dentro il terreno aprendo freneticamente gallerie sotterranee, fino a distruggere tutto quello che incontra, e a non riemergere più. Nel suo movimento buio, che non ha paura dell'ignoto, e che in un certo senso è la sua casa, la sua oscurità familiare, trova il tempo di accoppiarsi e riprodursi a velocità vertiginosa, deponendo in soffici cavità laterali un'infinità di uova giallognole, grosse poco più di un seme di riso, circa trecento alla volta, migliaia di nidiate da cui stanno già per esplodere milioni di piccoli grillotalpa programmati a saltare e scavare, a slanciarsi verso l'alto e sprofondarsi.
Agli inizi del Novecento, per oltre vent'anni, il grillotalpa è stato una maledizione per la risaia, l'invasione biblica delle cavallette (ma un secolo dopo le proliferazioni degli animali nemici non sono ancora finite). Le riviste di settore, nei loro vaporosi linguaggi tecnici che si gonfiavano su se stessi come bolle di sapone soffiate da una cannuccia, riservavano al flagello pagine accorate. Durante la prima guerra mondiale, quando le risaie si spopolavano perché gli uomini andavano al fronte e le donne venivano occupate in massa nelle fabbriche, i risicoltori pagavano tasse per i maggiori profitti incassati dalle vendite all'esercito, ma nessuno li risarciva dei danni subiti nella lotta che li sfiancava. Più che la battaglia contro gli austriaci la loro preoccupazione era la battaglia contro il grillotalpa. Per la gente di queste campagne gli austriaci non erano un vero pericolo, da loro sapevano come difendersi. L’avevano già fatto una volta, nella seconda guerra d'Indipendenza, quando erano state allagate le risaie per fermare l'avanzata del generale Gyulai contro i francesi (“e il Gyulai l'è turnà in dré con la pauta tacà i pé “). A Palestro, il 31 maggio del 1859, avevano affogato un battaglione di austriaci in un fosso, e nessuno gli aveva dato medaglie. Anzi, lo Stato italiano, appena si era formato, aveva fatto costruire un ossario in memoria di tutti i caduti, austriaci compresi, affidando il progetto nientemeno che all'architetto Giuseppe Sommaruga, il vate del liberty. Ma i grillotalpa non erano gli austriaci, nemici amici che si frequentavano e si scontravano da centinaia di anni. Erano avversari astuti, insidiosi, annegarli non bastava.
Sul Giornale di risicoltura in ogni numero c'erano bollettini di guerra: «La grillotalpa (il nome era indifferentemente maschile o femminile a sottolineare il carattere ambiguo e polimorfo dell'avversario) è un animale ben noto alla maggior parte dei nostri agricoltori, e nella sua forma esterna e per i danni che essa arreca alle coltivazioni. Più che il gran numero, la stessa voracità di questi animali è la causa prima del male che arrecano, e se pure il riso, come pianta, non ne risente gran disturbo tuttavia restano compromessi gli argini e le ripe dove il grillotalpa vive, con grave danno per la loro stabilità. Si impone adunque di condurre una lotta assidua contro questi animali che, lasciati tranquilli, minacciano di moltiplicarsi a dismisura e unire ai danni arrecati dalla loro voracità quelli derivanti dal loro gran numero».
Il grillotalpa trovava nelle zone alluvionali di risaia condizioni favorevoli. La natura sciolta del terreno gli offriva un ambiente adatto a muoversi e a circolare con facilità.
Scriveva il Giornale di risicoltura: «La larga estensione che si dà al prato è più particolarmente favorevole a ospitarlo in un luogo fresco, fornito ad esuberanza di minute radici che il grillotalpa predilige, nonché di piccoli insetti dei quali, secondo alcuni, esso pure si ciba; in una parola, trova in queste zone il suo paradiso terrestre. Una contrarietà è la sommersione del terreno, non tanto quella momentanea, ma quella continua che vien fatta al riso. È certo però che l'istinto naturale gli ha insegnato a riparare queste periodiche sventure; e infatti ha imparato anch'esso a emigrare e a porsi in qualche modo in salvo, ad esempio nuotando verso le ripe. Gli agricoltori che finora si sono accontentati solo di lamentazioni dei danni cagionati da questo insetto (la riduzione del nemico da animale a insetto qui è strategica), sopportandoli con una rassegnazione fatalistica, devono convincersi che in tal modo questa piaga della nostra agricoltura non può che sempre più aggravarsi ».
I rimedi proposti erano da genocidio: « a) Aratura estiva accompagnata da caccia diretta alle nidiate, con avvertenza agli uomini o ai ragazzi che seguono l'aratro di scrutare il terreno e di munirsi di pertiche con all'estremità tamponi di legno per schiacciare quanti più grillotalpa è possibile; b) Caccia diretta durante l'irrigazione dei prati per scovare negli arginelli i nidi con le piccole larve appena nate ed eliminarle interamente con decisi colpi di tallone; c) Caccia diretta con innaffiamento di un'emulsione di petrolio e acqua al 20%, favorendo la fuoriuscita degli insetti in superficie per poi procedere allo sterminio con bastoni o piede, oppure con iniezione di solfuro di carbonio in fori profondi circa 20 cm e distanti l'uno dall'altro circa 80 cm, il metodo a tutt'oggi più pratico e letale ».
Lo scopo era l'eliminazione totale con ogni metodo adatto a rompere il ciclo vitale.
I bollettini di guerra proseguono, con frequenza e toni via via meno allarmati, fino al 1918, quando lo sterminio, insieme a quello dei contadini carne da cannone mandati allo sbaraglio sulle montagne di Caporetto, viene considerato concluso. Non erano stati necessari trattati di pace. I grillotalpa superstiti sono diventati insetti domestici, come le cicale, le zanzare, o le mosche dei pescatori. […]
Siamo più di sei miliardi e mezzo di persone. Quasi quattro miliardi vivono in Asia, oltre un miliardo e trecento milioni solo in Cina. Più di un essere umano su cinque oggi è cinese e il mandarino è di gran lunga la lingua più parlata nel mondo. Secondo la CIA avrebbero già superato il miliardo e mezzo. Nelle campagne molte coppie non rispettano la regola del figlio unico imposta dallo Stato e mentono sulla dimensione delle famiglie. Le multinazionali li corteggiano perché in Cina il lavoro costa pochissimo, gli operai li temono come dei rivali pericolosi. Fanno paura anche ai contadini delle risaie.
Esasperata dai veleni, la natura ha escogitato una vendetta. Da una decina d’anni le risaie sono invase da un riso matto, il crodo, su cui la chimica non può nulla, perché colpendolo si colpirebbe anche il riso sano. Il crodo è alto, ma debole di fusto; un po’ di pioggia o di vento lo gettano a terra e non si rialza più. Così toglie spazio alle piantine nuove. Non solo: cadendo perde i chicchi e si infiltra nel terreno, con il risultato di moltiplicarsi come i pani e i pesci (in una parabola infernale, però). Non c’era che ricorrere alle vecchie mondine. Per un po’ le donne esperte avevano rimesso i piedi nell’acqua, alcune per necessità e la maggior parte per nostalgia, non del lavoro, ma degli anni giovani. Avevano riesumato i canti di battaglia,
«Stamattina appena alzata in risaia mi tocca andar e tra gli insetti e le zanzare un duro lavoro mi tocca far », si erano sbizzarrite a gridarli al vento, «bellezze con bellezze il ciel non ama la dona sensa l’om la par ‘na dama l’om sensa la dona al par in boia la dona sensa l’om la par ‘na gioia») e poi erano tornate dai loro mariti a fare le massaie in pensione. Gli studenti avevano gettato la spugna dopo qualche ora di lavoro, più suonati dei pugili che fanno incontri clandestini senza i guantoni. Le cooperative agricole allora avevano sparso la voce e sui giornali locali erano apparsi annunci per la ricerca di manodopera qualificata. Così tra le piantine di riso già alto, insieme agli aironi che se ne stanno immobili come stiliti su una gamba sola, avevano cominciato a comparire i cappelli di cocco che in risaia ormai non si vedevano più. Sotto c’erano uomini che camminavano in sincrono con la schiena curva. Cinesi, mondariso cinesi, quasi tutti maschi. Sei euro e cinquanta centesimi all’ora per dieci ore al giorno, dalla mattina alla sera, con una sosta alle undici per una ciotola di riso bollito. Forse sognavano di aprire un ristorante e intanto strappavano crodo sotto l’occhio cattivo di un caporale (la storia si assomiglia). Alla Torricella c'erano ancora, perché non avevano concorrenti, a parte qualche latino come il marito di Felice che però recalcitrava, anche se i chimici minacciavano di prendersi una rivincita: stavano studiando un diserbante capace di colpire soltanto il crodo e avevano in mente di chiamarlo Libero. […]
ALL'OMBRA DELLE PALUDI
Anche il riso è un diverso. I semi, per crescere, hanno bisogno di essere dispersi nell' acqua e le radici, nonostante si attacchino al terreno, rimangono in qualche modo mobili, fluttuanti, mai capaci di radicarsi veramente. Come me?, cominciavo a chiedermi sfogliando i libri di Bianca e alzavo ogni tanto la testa per guardare dalla veranda di prua i campi intorno alla Torricella ancora bianchi di neve.
Per i medici greci che nei primi secoli dopo Cristo emigravano a Roma, la terra dei vincitori, dei nuovi potenti, il riso non era un cibo ma una medicina, e i romani, che conoscevano anche l'arte di non stravincere, a quel sapere si erano assoggettati. Il De materia medica di Dioscuride di Anazarbo, libro fondamentale della scienza farmacologica dall'Occidente cristiano all'Oriente arabo, citava il riso tre volte: come cereale, come ingrediente in una pozione contro i vermi intestinali e come becchime per gli storni dal quale ottenere uno sterco idoneo ai prodotti di bellezza. Secondo Sorano placava le turbe digestive durante la gravidanza, mentre Galeno di Pergamo, archiatra alla corte di Marco Aurelio, lo consigliava come astringente. Areteo di Cappadocia suggeriva di usarlo per curare la pleurite e frenare le emorragie, Paolo di Egina lo raccomandava contro le emorroidi e il prurito. Alcuni davano ricette per preparare una crema depilatoria nei casi di gotta. Come alimento era considerato poco nutriente, difficile da digerire e inferiore al grano, e soprattutto costoso. In una satira di Orazio un avaro, ammalato, si lamenta con il medico per il prezzo troppo alto di un decotto di riso. È vero che con gli avari, per vedere i prezzi nel modo in cui li vedono loro, bisogna moltiplicare per tre, ma la cattiva fama di cibo per ricchi era rimasta inamidata al riso fino al 1200.
L’introduzione nell'Europa del Medioevo è controversa. Secondo alcuni il riso arrivò in Spagna verso l'VIII secolo tramite l'invasione dei Mori. Di certo, nel 1250 i conti di Savoia ne avevano acquistato qualche ettogrammo per fare dei dolci, secondo l'annotazione riportata sui registri dell'ospedale Sant'Andrea di Vercelli. Quasi un secolo dopo, nel 1336, il Tribunale di Provvisione di Milano aveva emanato un' ordinanza che ingiungeva agli speziali di non venderlo a più di dodici imperiali la libbra: il prezzo del miele non superava gli otto imperiali. Qualcosa però era cambiato: l'approvvigionamento non passava più per la Porta del Pepe di Alessandria d'Egitto. Con le truppe spagnole di Federico di Aragona il riso era arrivato in Europa e aveva cominciato a essere coltivato. In due lettere scritte da Galeazzo Sforza nel 1475 si concedevano dodici sacchi di « risone» raccolto nel milanese al duca di Ferrara perché potesse sperimentarlo nelle sue terre.
C'è un nome che circola in quel periodo, Colto de' Colti, vissuto sotto la signoria dei Medici: un nome inventato? Un alchimista? Un letterato con manie naturalistiche? Non ci sono quasi tracce della sua esistenza, ma al suo nome, oltre che a quello dei monaci cistercensi dell' abbazia di Lucedio, sono legati i primi esperimenti di coltivazione.
Nel milanese erano così gelosi del riso da emanare una grida che proibiva a chiunque di esportarlo fuori del ducato. Ma la frenesia era cominciata e la grida era rimasta lettera morta. In pochi decenni la risicoltura si era estesa nei contadi di Pavia, Mantova, Cremona, Brescia, Novara, Vercelli, Saluzzo, Bologna, Ravenna, Padova, Treviso, nel Polesine e in Toscana, con una resa in campo pari a dieci, dodici volte il seme impiegato, contro le quattro, cinque volte del grano. Ma la disponibilità non aveva calmierato i prezzi: il riso stava gradatamente diventando di uso comune. Ovviamente, gusti e teorie non sono troppo affidabili, e nel giro di qualche secolo da cibo difficile il riso si era trasformato in un alimento completo e di preparazione facile. Con il riso si cucinavano minestre con le verze, con i fagioli, con le rane; risotti con le cotenne, le salsicce e i funghi. Ingolosiva anche gli eserciti mercenari d'oltralpe, che d'abitudine lo requisivano.
Un rendiconto dell'epoca mostra la ripartizione dei guadagni ottenuti dalla coltivazione del riso. Quattro pertiche seminate (la pertica lombarda, unità di misura della risaia, corrisponde a circa 654 metri quadrati, mentre la giornata piemontese a circa 3800) rendevano cinque sacchi di risone: la metà andava alla «colonica», cioè a chi lavorava il terreno, seminava il riso, lo mondava, lo tagliava, lo batteva e finiva di stagionarlo; altri due sacchi andavano al «padrone dell'acqua, quando non abbia sua propria, il che è di pochissimi». Al proprietario dei campi rimaneva all'incirca un sacco. Dal ricavato della vendita bisognava dedurre il costo delle sementi, la manutenzione degli acquedotti, i transiti sugli altri fondi e gli « infortunij delle staggioni, come a dire siccità, falanze, tempeste, nebbie, che da sé sole distruggono tal raccolto, sorci acquatici, e altri pur troppo frequenti». C'erano poi le decime pagate agli ecclesiastici, «almeno il cinque per cento», e le «spese che si fanno per far derrogare le gride», cioè le tangenti per evitare l'accusa di attentare alla salute pubblica mediante la produzione di «miasmi».
Nel Cinquecento il riso veniva coltivato negli acquitrini, senza acqua corrente: cresceva e insieme marciva, e l'acqua stagnante favoriva la malaria. I medici erano indaffaratissimi a firmare ordinanze per allontanare le risaie dalle città e dalle strade di maggior traffico usate dai « cittadini». Della salute dei «villani» nessuno si preoccupava. Il 24 settembre 1575 il viceré spagnolo di Milano, marchese de Ayamonte, diffidava «qualunque persona di qualsivoglia grado, e stato ancora privilegiato, che non ardisca seminare, né far seminare riso intorno alla città per sei miglia... sotto la pena a chi contravverrà alli presenti Capitoli, per la prima volta della perdita delli frutti e di scudi uno per pertica, la seconda volta della perdita delli frutti e di tre scudi per pertica, e la terza, se sarà fittavolo, massaro o brazzante, delle galere per tre anni, se sarà padrone, di scudi sei per pertica e del bando per tre anni dallo Stato». Per i padroni l'esilio, per gli altri la galera. E a quei tempi tre anni di galera significavano tre anni in catene ai remi delle navi da guerra. I sudditi laici cercavano di prestare orecchio alle leggi, almeno in parte, ma gli ecclesiastici, che erano proprietari di terre vastissime, si rifiutavano di farlo.
Ostentando la propria indipendenza dalle autorità civili, un privilegio che all'occorrenza rispolverano, dichiaravano tranquillamente il falso. In una bolla del 1576 Carlo Borromeo richiamava all'ordine il clero latifondista, dicendosi però convinto che tra risaia e malaria non ci fossero relazioni pericolose.
Ma la piana vercellese non era stremata soltanto dalla malaria. Le lotte di potere tra le famiglie locali, le lunghe e sanguinarie guerre di conquista dei francesi e degli spagnoli, le eterne incertezze, o peggio, dei Savoia, i saccheggi, le devastazioni, le carestie, gli stupri, i roghi dell'Inquisizione avevano ridotto terra e gente in uno stato miserando. Gli uomini, le donne e i bambini che lavoravano nei campi erano la feccia dell'umanità, inguardabili, inavvicinabili, inaffidabili, ma gli unici che accettassero di fare quel lavoro malsano. Al principio del Seicento le coltivazioni cominciarono a essere abbandonate e le industrie disertate. I fiumi, non trattenuti, inondarono quasi ventimila ettari di pianura. I lavori per il naviglio di Ivrea languivano e «gli opifizii che ne traevano vita erano iti in fascio». A desolare ulteriormente la zona nel 1630 si era aggiunta la peste, portata in Italia, secondo il Dionisotti, dagli imperiali scesi dalla Germania attraverso la Valtellina per l'assedio di Mantova. In quattro mesi, da marzo a giugno, erano morte milletrecento persone. Il diario di un viaggiatore riporta un racconto infernale. Ovunque si vedevano paludi, nugoli di zanzare enormi, forche da cui pendevano corpi impiccati, mucchi di cadaveri in decomposizione, orde di banditi su cavalli magri. Alle carrozze che erano costrette ad attraversare la piana non restava che spingere i cavalli al galoppo e correre via senza fermarsi. (Brano tratto dal romanzo Le Stagioni Dell’acqua, Longanesi, Milano, 2007 .) Laura Bosio, nata a Vercelli, vive e lavora a Milano. Ha pubblicato I dimenticati (Feltrinelli 1993, Premio Bagutta Opera prima), Le ali ai piedi (Mondadori 2002), Annunciazione (Mondadori 1997, Premio Moravia), La ricerca dell’impossibile (Leonardo 1999), Teresina, Storie di un’anima (Mondadori 2004). Le stagioni dell’acqua è stato finalista al Premio Strega nel 2007.
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