BATTAGLIA Brano tratto dal romanzo Germinal Émile Zola
(…) Di ritorno, trovarono Gianlino e Berto ch'erano arrivati allora col loro treno di berline e aspettavano di caricarle. Nell'attesa, Caterina si avvicinò ad accarezzare il cavallo di traino e intanto lo presentava al compagno. Era Battaglia, quello lì, il più anziano della miniera; un cavallo bianco con dieci anni di servizio a quella profondità. Da dieci anni, Battaglia viveva in quel buco, senza aver rivisto il sole; occupando nella scuderia sempre lo stesso posto, percorrendo, nell'adempimento del suo dovere, sempre le stesse gallerie. Ben pasciuto, lustro di pelo, bonario, vi conduceva una vita di saggio, al riparo dai rischi di lassù. Del resto, a vivere al buio, s'era fatto malizioso. La galleria in cui lavorava aveva finito per diventargli così familiare, che spingeva da sé col muso gli sportelli d'aerazione e chinava la testa, per non urtarci contro, nei punti in cui la volta s'abbassava troppo. Senza dubbio aveva contato i viaggi che gli spettavano, perché, raggiunto quel numero, non c'era verso di fargliene fare uno di più: bisognava ricondurlo alla mangiatoia. Ormai invecchiava e la limpidità del suo sguardo si velava a volte di malinconia. Chi sa che nel suo testone confuso non rivedesse vagamente il mulino dov'era nato; un mulino nei pressi di Marchiennes, affacciato sulla Scarpe, circondato di venuta, battuto sempre dal vento. Un mulino sul quale, altissima, ardeva una lampada; immensa; che la sua memoria di bestia stentava ormai a ricordar bene. E la testa ciondolante, le vecchie zampe prese da un tremito, Battaglia si sforzava, senza riuscirvi, di ricordare il sole.
Quattro colpi di martello annunziavano che si calava il nuovo cavallo: momento emozionante, perché non era raro che nel tragitto la bestia morisse di spavento. Già nella rete in cui lo imbracavano, l'animale si dibatteva atterrito; quando poi, sollevato, si sentiva mancar la terra di sotto, s'impietriva e senza un fremito sotto il corto pelo spariva nel pozzo, l'occhio fisso e dilatato dallo spavento.
Questo qui era troppo grosso per passare tra i panconi di guida; e, nell'agganciarlo sotto la gabbia, gli si era dovuto piegare e fermare la testa sul fianco. La gabbia, calata per precauzione con più lentezza del solito, mise tre minuti a compiere il tragitto. Ritardo che acuì l'impazienza dell'attesa: che si faceva? si lasciava l'animale sospeso in aria a mezza strada, nel buio? Finalmente, il cavallo comparve, nella sua immobilità di macigno, l'occhio fisso, dilatato di stupore. Era un cavallo baio, d'appena tre anni, e si chiamava Trombetta.
Babbo Mouque, incaricato di riceverlo, si fece avanti:
– Attenzione! Tiratelo giù, ma senza ancora slegarlo.
Poco dopo Trombetta era coricato sul pavimento di ghisa. Seguitava a non muoversi, come fosse ancora sotto l'incubo dell'interminabile budello nero che lo aveva ingoiato; e adesso, di questo piano di carico pieno di frastuono.
Si cominciava a slegarlo, quando Battaglia, staccato in quel momento dal traino, allungò, ad annusarlo, il collo. Quindi s'accostò al nuovo compagno piovutogli in quel modo dal cielo.
I presenti, divertiti, fecero cerchio intorno. Ebbene, sa di buono eh, vecchio Battaglia, il nuovo collega? Sordo ai frizzi, Battaglia si animava. Certo avvertiva nel compagno il buon odore dell'aria aperta, l'odore, che lui aveva scordato, dell'erba al sole. Ed eccolo tutto a un tratto partire in un sonoro nitrito, in una specie di fanfara di gioia, che si sarebbe detto velasse, come un singhiozzo, un sentimento di pietà. C'era in quel nitrito il benvenuto al nuovo compagno, il rimpianto dell'aperto e del sole, ma anche della commiserazione per il nuovo prigioniero che non risalirebbe alla luce che morto.
– Ah che bel tipo, Battaglia! – gridavano gli operai, messi in allegria dalle prodezze del loro beniamino. – Eccolo li a discorrere coll'amico. (…) (Brano tratto dal romanzo “Germinal”, Einaudi editrice, 1951, Torino. Traduzione di Camillo Sbarbaro.) Émile Zola
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