LA FINE DELLA FUGA W. Somerset Maugham
Il capitano mi strinse la mano e mi augurò buona fortuna. Io scesi sottocoperta, mi feci largo nella ressa di passeggeri malesi, cinesi, daiacchi, e raggiunsi la scaletta. Guardando oltre il parapetto vidi che i miei bagagli erano già nella scialuppa: un’imbarcazione grande e rozza, con un’ampia vela squadrata in stuoia di bambù, piena zeppa di indigeni gesticolanti. Quando in qualche modo riuscii a salirci, mi fecero posto. Eravamo a circa cinque chilometri dalla riva e soffiava una brezza insistente. Man mano che ci avvicinavamo alla costa vidi che il verde rigoglioso delle palme da cocco arrivava fino a riva, e tra le palme scorsi i tetti bruni del villaggio. Un cinese che parlava inglese indicò il bungalow bianco dove risiedeva l’ufficiale distrettuale. Costui non lo sapeva, ma sarei stato suo ospite; in tasca avevo una lettera di raccomandazione.
Una volta sbarcato, lì sulla spiaggia luccicante con i bagagli in mano, mi sentii un po’ derelitto. Era un angolo davvero sperduto quello, un paesino della costa settentrionale del Borneo, e sentii un pizzico di timidezza all’idea di comparire di fronte a un perfetto sconosciuto annunciando che avrei dormito sotto il suo tetto, mangiato il suo cibo e bevuto il suo whisky finché non fosse arrivata un’altra nave a condurmi al porto dov’ero diretto.
Ma avrei potuto risparmiarmi questi timori: appena raggiunsi il bungalow e consegnai la lettera, l’ufficiale – un uomo robusto, rubicondo e gioviale sui trentacinque – mi venne incontro di persona e mi diede un caloroso benvenuto. Mentre mi stringeva la mano gridò a un boy di portarci da bere e a un altro di occuparsi dei miei bagagli. Tagliò corto con le mie scuse.
“Buon Dio, amico mio, non ha idea della gioia che provo nel vederla. Non creda che sia io a farle un piacere dandole ospitalità: semmai è il contrario. E può rimanere quanto diavolo vuole. Per me, si fermi pure un anno intero”.
Risi. Egli mise il lavoro da parte, assicurandomi che ogni cosa poteva aspettare fino all’indomani, e si spaparanzò sulla sedia a sdraio. Parlammo e bevemmo e parlammo. Quando la calura diurna diminuì andammo a fare una lunga camminata nella giungla e ritornammo bagnati fradici. Dopo esserci lavati e cambiati d’abito, ci mettemmo a tavola. Io però ero esausto, e sebbene il padrone di casa fosse seriamente intenzionato a trascorrere l’intera notte in chiacchiere, a un certo punto dovetti pregarlo di permettermi di ritirarmi.
“Ma certo, la accompagno per controllare che la sua camera sia a posto”.
Era una stanza ampia con delle verande sui due lati, pochi mobili, ma un grande letto protetto da una zanzariera.
“Il materasso è un po’ duro, le fa niente?”.
“Andrà benissimo: finalmente dormirò senza ondeggiare”.
Il padrone di casa osservò il letto con aria pensosa.
“L’ultimo che ci ha dormito era un olandese. La vuole sentire una storia buffa?”
Io volevo solo andarmene a letto, ma lui era il padrone di casa, ed essendo anch’io talvolta un umorista so bene come sia duro avere una storiella da raccontare e non trovare un ascoltatore.
“L’olandese arrivò con la sua stessa nave, l’ultima volta che è passata di qui; venne nel mio ufficio e chiese dov’era il bungalow d’accoglienza. Gli risposi che non c’era, ma se non aveva un posto dove andare gli avrei dato volentieri ospitalità. Colse l’occasione al volo. Gli dissi di far portare le sue valigie.
“Il mio bagaglio è tutto qui”.
“Mi mostrò una borsetta nera e lucida. Sembrava un po’ poco, ma non erano affari miei, quindi gli dissi di sistemarsi nel mio bungalow e che l’avrei raggiunto una volta finito di lavorare. Mentre parlavo si aprì la porta ed entrò il mio impiegato. L’olandese dava la schiena alla porta, e può darsi che l’impiegato l’avesse aperta di scatto; fatto sta che l’olandese lanciò un urlo, fece un salto di mezzo metro e tirò fuori una pistola.
“Ma che diavolo fa?” chiesi.
“Quando vide che si trattava del mio impiegato, si accasciò. Si appoggiò alla scrivania ansimando e, parola mia, tremava come se avesse avuto la febbre a quaranta.
“Le chiedo perdono” disse. “Sono i nervi. Ho i nervi a pezzi”.
“Direi proprio” risposi.
“Fui abbastanza brusco con lui. A dire il vero, mi ero pentito di averlo invitato a stare da me. Non sembrava un ubriacone, e mi chiesi se non fosse ricercato dalla polizia. Ma se così era, mi dissi, non sarebbe stato tanto sciocco da venir dritto nella tana del lupo.
“Farebbe bene ad andare a riposarsi” gli dissi.
Se ne andò, e quando rientrai al bungalow lo trovai seduto nella veranda, abbastanza tranquillo, ma dritto come un fuso. Si era fatto un bagno, si era rasato, si era cambiato, ed era piuttosto presentabile.
“Perché sta seduto lì in mezzo?” gli chiesi. “Starà molto più comodo sulla sedia a sdraio”.
“Preferisco stare qui” rispose.
“Bizzarro, pensai. Ma se con questo caldo uno preferisce star seduto invece che sdraiato, è affar suo. Non era un granché a vedersi, abbastanza alto e di costituzione pesante, con la testa squadrata e i capelli corti e ispidi. Sarà stato sulla quarantina. La cosa che più mi colpì era la sua espressione. C’era uno sguardo nei suoi occhi, occhietti piccoli e azzurri, che trovavo indecifrabile; e il viso era come afflosciato; sembrava che stesse per piangere. Aveva un modo strano di guardarsi in fretta dietro le spalle, a sinistra, come se avesse udito qualcosa. Dio buono, com’era nervoso. Ma dopo un paio di bicchieri iniziammo a parlare. Il suo inglese era eccellente e, a parte un lieve accento, quasi non ti accorgevi che era straniero; devo ammettere che era un amabile conversatore. Era stato ovunque e aveva letto di tutto. Era un piacere ascoltarlo.
“Bevemmo tre o quattro whisky al pomeriggio, e un bel po’ di gin pahit più tardi; quando arrivò l’ora di cena eravamo alquanto ilari e giunsi alla conclusione che fosse un gran bel tipo. Chiaramente a cena bevemmo ancora del whisky e io avevo in casa una bottiglia di Bénédictine, così in seguito non disdegnammo qualche bicchierino di liquore. Difficile pensare che non fossimo ubriachi.
“Alla fine mi disse perché era venuto qui. Una storia strana”.
Il mio ospite si arrestò, guardandomi con la bocca leggermente aperta come se, ricordandosene ora, fosse nuovamente turbato da quella stranezza.
“Veniva da Sumatra, l’olandese, ne aveva combinata una a un acehnese e l’acehnese aveva giurato di ucciderlo. Lui sulle prime non si era preoccupato, ma il tizio ci provò due o tre volte e la cosa iniziava a diventare importuna, quindi decise di cambiare aria. Se ne andò a Batavia, con l’idea di spassarsela un po’. Ma tempo una settimana vede il tizio che sgattaiola via rasente un muro. Porco Giuda, l’aveva seguito. Sembrava fare sul serio. L’olandese si rese conto che c’era poco da ridere, e decise che la cosa migliore era filarsela a Surabaya. Bene, un giorno era lì che passeggiava, sa come sono affollate quelle strade, quando girandosi scorse l’acehnese che lo seguiva quatto quatto. Si prese un colpo. Chiunque si prenderebbe un colpo.
“L’olandese se ne tornò dritto in hotel, fece la valigia e prese il primo battello per Singapore. Ovviamente andò al Van Wyck, tutti gli olandesi alloggiano lì, e un giorno mentre beveva qualcosa nel cortile di fronte all’hotel ecco che entra l’acehnese! Con un bel pelo sullo stomaco lo fissa per un minuto e poi se ne va. L’olandese disse di esser rimasto come paralizzato: il tizio avrebbe potuto piantargli un kriss nel petto e lui non sarebbe neanche riuscito a muovere la mano per proteggersi. L’olandese sapeva che l’altro stava solo prendendo tempo, quell’indigeno della malora l’avrebbe fatto secco, glielo vedeva negli occhi; ed ebbe un crollo”.
“Ma perché non è andato alla polizia?”
“Non lo so. Immagino che preferisse non immischiarla”.
“E cosa aveva fatto a quel tipo?”.
“Non so neanche questo. Non ha voluto dirmelo. Ma da come mi ha guardato quando gliel’ho chiesto, dev’essere stata una bella carognata. Ho idea che sapesse di meritare quello che l’acehnese voleva fargli”.
Il padrone di casa si accese una sigaretta.
“E quindi?” chiesi.
“Tra un viaggio e l’altro il capitano del battello che va da Singapore a Kuching risiede al Van Wych, e sarebbe ripartito la mattina seguente all’alba. L’olandese credette che fosse la sua occasione per liberarsi del tizio una volta per tutte; lasciò il bagaglio in albergo e scese al porto con il capitano, lo accompagnò sulla nave come per salutarlo e invece quando questa partì rimase a bordo. A quel punto i suoi nervi erano già andati. Non gli importava più di niente se non di sbarazzarsi dell’acehnese. A Kuching si sentì abbastanza al sicuro; prese una stanza alla pensione e si comprò un paio di completi e di camicie nei negozi cinesi. Ma a dormire non ci riusciva. Sognava quell’uomo, cinque o sei volte si era svegliato proprio mentre un kriss gli tagliava la gola. Dio buono, mi faceva pena. Mentre parlava tremava, la voce era roca dal terrore. Ecco cos’era lo sguardo che avevo colto nei suoi occhi, si ricorda? Le dicevo che aveva un’espressione strana e non capivo cosa fosse. Era questo, era la paura.
“E un giorno, mentre si trovava al club di Kuching, guardò fuori dalla finestra e lì seduto vide l’acehnese. I loro sguardi si incrociarono. L’olandese ebbe uno spasmo, poi svenne. Appena si riprese pensò solo a fuggire. Be’, sa, non c’è un gran traffico a Kuching, e il battello che l’ha portata qui era l’unico che gli permettesse di andarsene alla svelta. Si imbarcò. Era sicuro che l’uomo non si trovasse a bordo”.
“Ma per che ragione scese qui?”.
“E’ che quel vecchio cargo fa una dozzina di fermate lungo la costa, e l’acehnese non poteva immaginare che lui fosse sbarcato qui, perché lui lo decise solo quando vide che c’era un’unica imbarcazione che portava i passeggeri a riva, e che erano al massimo dieci persone.
“Almeno per un po’, qui sarò senz’altro al sicuro,” mi disse “e se posso starmene tranquillo un momento mi rimetterò in sesto i nervi”.
“Si fermi pure quanto le pare” gli risposi. “Qui non si deve preoccupare, almeno finché non torna il battello il mese prossimo, e se vorrà sorveglieremo le persone che sbarcano”.
“Stava quasi per abbracciarmi. Si vedeva che sollievo fosse per lui.
“Era tardi, e dissi che mi sembrava l’ora di coricarci. Lo accompagnai nella sua stanza per controllare che fosse tutto in ordine. Chiuse a chiave la porta della cabina da bagno e sprangò le imposte, sebbene gli avessi detto che non correva alcun rischio, e andandomene udii che chiudeva anche la porta da cui ero uscito.
“La mattina seguente, quando il boy mi portò il tè, gli chiesi se era andato a chiamare l’olandese. Rispose che stava per farlo. Lo udii bussare ripetutamente. Strano, pensai. Il boy martellava sulla porta, ma non arrivava risposta. Iniziai a sentirmi un po’ a disagio, così andai a vedere. Bussai a mia volta. Facevamo un baccano da svegliare i morti, ma l’olandese continuava a dormire. Allora sfondai la porta. La zanzariera era rimboccata con cura tutto attorno al letto. La scostai. Lui giaceva sul dorso con gli occhi sbarrati. Era morto stecchito. Aveva un kriss appoggiato sulla gola, e mi dia del bugiardo se vuole, ma glielo giuro su Dio, non aveva un graffio. La stanza era vuota.
“Buffo, eh?”
“Be’, dipende dall’idea che uno ha dell’umorismo”.
Il mio ospite mi lanciò un’occhiata.
“Non le fa niente dormire in quel letto, vero?”.
“N-no. Ma la storia me la poteva raccontare anche domani mattina”. (Racconto tratto dalla raccolta Honolulu. Adelphi editrice, Milano, 2010. Traduzione di Vanni Bianconi .) William Somerset Maugham (Parigi, 25 gennaio 1874 – Nizza, 16 dicembre 1965) è stato uno scrittore e commediografo britannico, famoso per il pessimismo acre e freddo, l'ironia crudele e cinica, con cui flagellava inesorabilmente i vizi e la follia degli uomini, e soprattutto delle donne, in una visione del mondo piuttosto cupa, ma dotata anche di senso d'umanità.
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