UN PEDONE SULLE ALTURE Brano tratto dal romanzo Il boccale bulgaro Campos de Carvalho
Ottobre, 31
Il vento sferza le candele, mi accarezza la nuca e i capelli, e torna verso il mare alto.
Quassù, nella parte alta di Gávea, le stelle brillano più da vicino: ci fosse la luna, immergerei le mani nella sua luce, nel suo catino di cristallo – non come Pilato ma come un chirurgo che si prepara per un parto difficile, il più difficile della storia: tirare fuori dalle viscere dello Sconosciuto un mito e la sua verità, secoli e secoli di paure ed equivoci.
Mi sento lirico come un teatro d'opera, ed è bene che sia così, che mi senta così, in questa notte ricca di presagi, così prossima all'abisso dei cieli e agli abissi del mare. Colombo doveva sentirsi così quando per la prima volta si lanciò alla volta delle Indie e fu scoperto da indigeni che chiamò indios, e indios restano ancora oggi; allo stesso modo doveva sentirsi Marco Polo, con le sue veridiche frottole, le sue frottole veritiere, quando scopri che per aver vissuto vent'anni nel paese dei tartari doveva aver attraversato almeno una volta il paese dei bulgari, e si mise allora a scrivere o a dettare il Libro delle meraviglie; e Amundsen, quando conquistò con gran difficoltà il Polo Sud, per depositarvi una lettera diretta al re di Norvegia che gli sarebbe stato molto più facile imbucare o consegnare personalmente; e ancora e finalmente il primo uomo a mettere piede e a pisciare sulla Luna, o il primo selenita a pisciare e a camminare sulla Terra, affascinati entrambi dalla prospettiva di andare a pisciare un giorno su altri pianeti, su altre galassie e in tutto l'universo, trasformando così lo spazio cosmico in quel sogno di tutti che è un pisciatoio universale.
Ma ecco che mi perdo in divagazioni che interessano solo i corsi di storia e non il corso della storia, mentre questa è, e deve essere, per me l'ora degli enunciati (l'ipotenusa è il lato opposto all'angolo retto, nel triangolo rettangolo) e del polso forte – sebbene al momento abbia la pressione così bassa che a stento l'altro giorno sono riuscito a dire 32 e mezzo al mio medico.
Anche questa sirena che ascolto nel cuore della notte, e che pian piano si va avvicinando come se venisse a cercare un morto ai miei piedi, non mi affascina più come una volta e anzi mi tiene in allerta come un pedone qualsiasi, un pedone sulle alture con le sue fragili candele ma che ancora resiste a tutti i venti, in mezzo all'oscurità che lo aspetta là fuori, sotto il cielo azzurro e coperto di stelle.
Nemmeno mi scomodo per andare alla finestra e vedere davanti a quale portone si è fermato il mostro, e con lui il suo allarme e magari il cuore del morto.
Ottobre, 32
Il razionamento della luce mi obbliga a scrivere solo di giorno. La tremula fiammella delle candele mi fa male alla vista, per non parlare della strana sensazione di morte che mi prende ogni volta che mi trovo tra quattro ceri, o anche tra due, o tra uno.
Nella parte alta di Gávea, non so perché, l'oscurità è più spessa che negli altri quartieri; l'altro giorno sono andato a Ipanema e ho notato che là l'oscurità è al massimo una leggera scurita: si
poteva addirittura distinguere la testa del fiammifero prima di sfregarlo. Come faccia il governo a distribuire così male le sue oscurità nessuno lo sa; la stessa cosa fa Dio, ma molto meno. In ogni caso eccomi qui, sotto questa luce solare fin quando non la razionano, cercando di riunire le forze per la grande e misteriosa impresa – così misteriosa che io stesso dimentico quale sia, ricordo solo che è più grande di me e del resto del mondo conosciuto. Questa virtù di ricordare solo ciò che è importante l'ho ereditata da mio padre, che non trascurò di lasciarmi un'eredità favolosa che con il tempo ho scoperto non essere poi così favolosa. Il medesimo illustre cittadino dimenticò di fabbricare altri figli, lasciandomi in questa specie di orfanezza totale e allo stesso tempo abbastanza comoda: gli voglio un bene enorme, che non ho mai saputo dimostrare in vita. A lui e anche a mia madre, che visse e mori saggiamente.
Non so esattamente perché sto qui a rimembrare questi fatti dolorosi, quando ogni cosa alla fine è andata al suo posto o almeno sembra esserci andata. Finanche mia moglie è tornata a coabitare coni suoi parenti di origine, tutte persone perbene secondo le carte, e non mi ha lasciato nessun figlio che assomigliasse a lei o a me – anche a causa di quelle misure che le donne adottano a posteriori e che abbondano negli annali specializzati. È stata una buona moglie fin quando è stata buona, poi i fianchi le sono cresciuti talmente che avevo difficoltà a raggiungere la cucina quando lei si trovava nei paraggi.
Ma queste sono acque passate e a me interessano le acque future, che mi porteranno dove voglio, anche se al momento non riesco a ricordare quello che voglio né dove sia. So solo che si tratta di qualcosa di straordinario, tanto straordinario che mi sfugge; è per questo, esattamente per questo, che sono qui, perché dal fango del mio pensiero venga fuori il petrolio della sapienza. L'immagine può sembrare non molto felice, e in verità non potrebbe essere altrimenti, ché questa è appunto la fase esplorativa e quel che cerco, ed è ancora di là da venire, è proprio l'insondabile. Deve trattarsi di qualcosa in relazione con i viaggi, perché ho parlato molto di Colombo e di altri buontemponi in quel che ho scritto ieri notte; adesso che ho Colombo, mi manca solo l'uovo. Nemmeno questo c'entra granché.
So solo che da più di due anni mi perseguita quest'idea, e adesso sono io a inseguirla. Se è davvero un'idea così importante, e deve esserlo, finirò per scoprirla o lei scoprirà me – in questo sono proprio figlio di mio padre, come ho già detto, e posseggo una memoria incredibile per le cose più incredibili. Sempre che non lo siano in eccesso, evidentemente.
4 di novembre
Sono uscito per ammazzare il tempo e l'ho ammazzato.
Quando sono arrivato a casa il mio orologio da polso si era fermato, e a un'ora che non aveva niente a che vedere con il tempo passato per strada.
A quanto sembra, il mio orologio da polso del polso possiede solo il nome – o è il mio polso che è debole, e di fatto lo è, e a stento dà conto di me e dei miei problemi. In ogni caso è un orologio la cui lancetta si muove con il movimento del corpo, il che non lo rende molto raccomandabile per i defunti. Ma sto delirando, finora non ho mai visto defunti caricare l'orologio, forse per non mettersi a cronometrare l'eternità e finire per perdere la pazienza.
Preferisco credere di aver ucciso il tempo semplicemente uccidendolo, il che rappresenta una prodezza inedita e purtroppo senza senso: una specie di eroismo senza eroe, nessuno in salvo né da salvare. A cosa servirebbe che il tempo, per colpa mia, si fermasse all'improvviso in un punto, mezzogiorno del 4 novembre per esempio, non un minuto di più né un minuto di meno? Al contrario di quel che sta accadendo, le cose sarebbero sempre le stesse, ferme nello spazio e nel tempo come un film bloccato, senza futuro e con un peso del passato tremendo: lo stesso peso del cielo diverrebbe insopportabile, come la goccia d'acqua diviene insopportabile al suppliziato, sebbene non sia sempre la stessa. Chi stesse copulando, dopo vent'anni di copula comincerebbe ad annoiarsi. E il moribondo tenterebbe il suicidio, stanco del cucchiaio con la medicina infilato in bocca e del dolorino sul fianco.
O magari è proprio questo quello che sta succedendo, quello che è sempre successo, le stesse cose sempre le stesse, solo che passano da un giorno all'altro come se fossero altre. La stessa faccia nello specchio per esempio, e il paesaggio incorniciato nella finestra, e gli amici che chiamano al telefono, l'obbligo di fare o non fare, l'ora di defecare, Dio nell'alto dei cieli, le tasse, la risata sempre uguale, la demagogia del governo, la minaccia della guerra, la guerra, le parole di ogni giorno e di tutti i giorni — che ne so? e cosa non so?
A quanto sembra ho ucciso un morto, ho scoperto la polvere, sono piovuto sul bagnato, finirò a insegnare il padre nostro al vicario. Non esattamente così ma in qualche modo simile. Per omnia saecula saeculorum, come diceva quell'altro, e quello dopo, e quello dopo ancora.
L'immoto continuo. (…) (Tratto dal romanzo Il boccale búlgaro, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua, 2010. Traduzione di Luca Rossomando.) Campos de Carvalho (1916-1995) è considerato uno dei massimi scrittori brasiliani, tanto che la sua influenza nel suo paese è stata paragonata a quella di Henry Miller per gli Stati Uniti. Dopo gli studi in legge divenne procuratore dello Stato. Nel frattempo, però, la sua grande passione per la letteratura lo portò a frequentare intellettuali come Mario de Andrade e a scrivere i primi saggi umoristici. I suoi romanzi, tra i quali lI boccale bulgaro, sono ritenuti dei veri e propri classici della narrativa brasiliana, apprezzati anche da Jorge Amado. Per il suo stile torrenziale e sconcertante, è spesso accomunato al surrealismo, con cui condivide la visione lucida e dissacratoria, ma anche la sofferenza e la ricerca della verità.
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