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Sagarana MIA MADRE


Brano tratto dal libro Il bianco inizio


Emmanuel Carnevali


MIA MADRE



 

Mai una volta ho visto mia madre che non fosse ammalata. Era morfinomane: aveva iniziato a far uso di quella droga terribile dopo le fatiche del parto di questo misero campione: Mister Me. Mio padre, che ho visto per la prima volta quando avevo undici anni, viveva separato da lei. (E questo era logico e perfettamente com­prensibile). Quando erano insieme lui era solito maltrattarla e picchiarla, bastava il più piccolo pretesto. Mia zia mi raccontava della gelosia feroce di mio padre. Una volta colpì mia madre solo perché aveva i capelli spettinati dopo che aveva passato mezza giornata a stirare. Un'altra volta la colpì con un bastone da passeggio, per strada, perché si era fermata ad allacciarsi una scarpa. Picchiò la mia povera piccola madre quasi a morte, certo per disperazione... Una volta la poveretta cercò di suicidarsi gettandosi dalla finestra. Lui la riprese in tempo. Mio padre è sempre stato ed è tuttora il più ignobile tra gli uomini.
Questo libro contiene tutto di mia madre, o almeno dovrebbe, dato che io sono suo figlio. II romanzo è la vita proiettata in forma scritta, e io amo il romanzo. Mia madre era innamorata del dolore e della pena, come tutti i santi prima di lei. Ricordo la sua sofferenza, e questo ricordo è una spada, una spada rovente che mi brucia la mente. Ricordo che era meravigliosa e questa meraviglia resta con me.
Aveva un cuore grande, vasto come il mare le cui vene sono la moltitudine dei fiumi che vi si gettano. Ascoltando il silenzio che fu la vita di mia madre, sento le parole della mia poesia, parole con le quali potrei intrecciare una ghirlanda per la sua testa. Mia madre dormiva per la maggior parte del tempo e io avrei dovuto dare a quel sonno una voce, parole a quell'immobilità. Ma sono stato interrotto da una malattia tremenda, la più irreale e la più reale tra le malattie, chiamata encefalite, e ora non sono nient'altro che un vaso pieno di gigli, un rumore, vento, nient'altro.
La morfina teneva mia madre costantemente addormentata o almeno per tre quarti della giornata. Ma non era un sonno felice. Madre, madre dolorosa. Piangerei pensando a te, ma il mio cuore è freddo come una pietra. Madre, vorrei darti adesso tutto l'affetto che la tua infelicità reclamava, ma sono troppo malato, comple­tamente sprofondato nella mia malattia. La tua vita fu una lunga agonia, e il premio che guadagnasti fu la morte. Fisso il volto del destino ed è come uno specchio che rifiuta la mia vita. Ma la vita di mia madre, che non scriverò mai, è come uno specchio che non rifiuta niente. Da qualche parte stai ancora soffrendo, madre mia. Pensi alla tua meravigliosa giovinezza sprecata vivendo con un bruto. Io penso alla tua bocca morta.
Madre, per il tuo aspetto nobile ti chiamavano "la Signora" nella piccola città piemontese dove ci trasferimmo con la zia, che lavorava per tutti noi. Era costretta a farlo perché tu eri immobilizzata dagli enormi ascessi dovuti all'uso di aghi sporchi per le tue iniezioni. Camminavi per le strade del paese, invalida e dolorante, e il dolore è l'invalidità del cuore. Ma il tuo viso splende ancora nei miei ricordi, perché tu lo portavi come una benedizione; il tuo viso era come una torcia tenuta in alto. Madre, non contano adesso le preghiere, né l'amore, né il candore del mio cuore stretto al tuo cuore scolorito, distrutto, estinto. Rimarrei per sempre presso la tua gloriosa tomba con questo antico e tremendo dolore causato dal dono che ti portai. La tua testa, nel piccolo cimitero di quella cittadina, giace contro il muro. Oltre il muro c'è un prato di erba alta, trascurato, dove mugugnano insetti grandi e piccoli di ogni genere. Ti vidi morta, ed eri bellissima, il tuo viso colore della terra. Ispiravi tranquillità. Un dottore imbecille ti aveva diagnosticato un semplice raffreddore, e invece era tetano, e glielo dicesti tu come stavano le cose.
Madre, ti ricordi il tuo bambino che non ti lasciava mai sola, che ti seguiva ovunque con un'insistenza che chissà quante volte ti ha fatto perdere la pazienza? C'è un'usanza atroce in certe piccole città del Piemonte: quando una persona entra in agonia le campane rintoccano in un modo speciale, per quella circostanza, così che spesso l'ammalato si accorge che le campane suonano per lui, anticipandogli la notizia della propria morte. Mia madre, che non poteva più parlare, mi carezzò la testa e mi affidò a sua sorella. Poi fece un gesto alludendo alle campane che suonavano, e si batté il petto, come a dire: "suonano per me".
Non so se ho mai visto una bocca più bella di quella di mia madre. Era sinuosa, dalle labbra piene e sensuali, grande ma bellissima, e ricordo bene la stupenda purezza della sua fronte. Dovete sapere che avevo solo nove anni quando morì. Quando stava per morire arrivò in casa un gatto nero senza nemmeno una macchia con il quale fece subito amicizia. Lo nutriva, lo coccolava e lui le faceva le fusa. Si dice che i gatti neri portino sfortuna, e che io ci creda o no, il fatto è che mentre la bara era ancora nel cortile, si vedeva il gatto nero che girava intorno al feretro, facendo le fusa in modo strano.
Che posso dirti di me stesso, Madre, eccetto che ho sprecato nella malattia una buona metà della mia vita vera e che questa malattia picchia duro chi già è balbuziente? Che posso dirti per darti un'idea delle sofferenze che ho patito? Madre, oh, potessi premere la mia guancia contro la tua! Eppure mi picchiavi fino a far uscire il sangue dal naso e dalla bocca, mia piccola stella, povera e ammalata madre mia, mi picchiavi a causa del veleno che ti scorreva nelle vene. Non ho nulla da perdonarti.
Mater dolorosa, hai sofferto abbastanza da esserti guadagnata una mezza dozzina di paradisi. Madre, se la terra potesse essere spremuta come un limone, ne uscirebbe dolore e dolore e dolore. Da tanto tempo ormai la terra è così avara con i suoi figli e le sue figlie. Solo i morti accoglie nel suo seno; gli altri sono costretti ad andare avanti portando il fardello di tutte le loro pene, e la loro rab­bia, e le loro inutili vite. Mater dolorosa, tu appartieni alla cerchia dei sofferenti, grande quanto il mondo intero.






(Brano tratto dall’opuscolo autobiografico “Il bianco inizio” e altre prose memoriali”, Via del Vento edizioni, Pistoia, 2010. Traduzione dall’Inglese di Francesco Capellini.)




Emmanuel Carnevali

Emanuel Carnevali (1897-1942) è stato un giovane poeta italiano che in otto di vita da bohémien a New York e Chicago (scrivendo sempre nell’inglese appreso leggendo di notte le insegne luminose nelle strade che spazzava) influenzò la letteratura americana e anticipò di oltre trent’anni gli stilemi della “beat generation”.





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