IL “DENARO SPORCO” Enrico Deaglio
Che ci faccio qui?
Le infanzie non sono state certo tutte uguali, in Italia. Gino ha la mia età ed è stato allevato da due zie, perché il padre non c’era. Si ricorda della casa in cui abitava, a Raffadali, e delle zie che esigevano sempre che si tenessero chiuse le imposte della finestra che dava su piazza Castello. “Io ero bambino e non capivo perché. Un giorno aprii le imposte, come si apre la porta della stanza sbarrata. Per rompere il tabù. Ma non vidi niente di speciale, era la solita piazza Castello.” Le zie lo vennero a sapere e si spaventarono moltissimo.
Solo più tardi Gino venne a sapere il motivo del divieto: in piazza Castello si davano appuntamento i mafiosi di Raffadali e lì passeggiavano. Ma non era bene che li si vedesse. Per questo bisognava tenere chiuse le imposte. “Ora che ci ripenso” dice “io ho vissuto sotto la dittatura”.
In questi anni ho visitato molti paesi della Sicilia e della Calabria, definiti “ad alta densità mafiosa”. Ho fatto anche molte amicizie, ho fatto il bagno nelle acque più belle del mondo, sotto le rocce calcaree di Eraclea Minoa, ho ascoltato discorsi fatti di aoristi greci con repentini gerundi inglesi. Ho visto fogne scoperte, vittime dileggiate, cadaveri in campagna con le mosche ronzanti sopra, sindaci pavidi, tonnellate di arance mandate di proposito al macero, ragazzi di paese che si autoassolvevano chissà da che cosa, proclamando: “E’ la televisione che ce l’ha insegnata la violenza! Kojak! Il tenente Kojak!”.
Ho visto Mazzarino con i suoi duemila forestali, tutti nullafacenti, ma pagati meglio dei loro concittadini che erano emigrati per lavorare in fabbrica al nord. Sono stato a Scordìa, in provincia di Catania, dove la mafia locale, per impellente bisogno di liquido, era arrivata a offrire porta porta interessi del trecentosessanta per cento l’anno. E il paese fiduciosamente aveva risposto, raccogliendo in pochi mesi una ventina di miliardi di lire.
Ho sperato più volte di poter assistere a una qualche forma di ribellione contro la sopraffazione. Ma non è successo. Mi dicevano che molti, in specie giovani e giovanissimi, si ribellavano, ma poi imparavano a smorzare i toni, a distinguere, a scegliersi un padrino.
Una volta ho domandato: “Quanto dura la stagione dell’indignazione?”. E mi hanno risposto: “Può durare anche alcuni anni”. Grida di protesta talmente flebili che nessuno le sente. Subentra un realismo che finisce per produrre piccoli impieghi, modeste professioni locali.
Tornavo a Roma pieno di fascicoli, ritagli di giornali, documentazioni di abusi e sprechi, numeri di telefono, promesse di tornare. E a Roma sentivo che tra “mafia” e “antimafia” molti intellettuali preferivano non schierarsi, identificando i termini come due estremi opposti da cui guardarsi. “Professionisti dell’antimafia” era una parolaccia. Strano, in un mondo che ha fatto della professionalità un mito. Non si capiva se Falcone lo volevano meno professionista e più dilettante; o meno antimafia. Si discuteva molto del giudice di Cassazione Corrado Carnevale, che confermava i processi per terrorismo, ma che cassava a raffica i processi per mafia. Un magistrato che, nelle poche dichiarazioni pubbliche, diceva che la mafia non è il problema più grave della Sicilia. Me lo immaginavo così rigoroso che, se avesse potuto, avrebbe cassato il processo di Norimberga per difetto di citazione a Hermann Goring. Lessi il testo di un suo intervento a un seminario di studi ad Agrigento. Diceva: “Quando mi sono insediato a Roma, nel presiedere la prima sezione penale della Corte di Cassazione, ho dato un impulso energico all’attività lavorativa che è stato da tutti recepito. Per questo sono stato persino ringraziato dalle mogli dei miei colleghi, i quali, secondo il loro racconto, avrebbero anche riattivato altre attività che qui non specifico”. Lo cassai, almeno come umorista.
Una mattina presto, nelle nitide campagne intorno a Trapani, mi parve di vedere avanzare le truppe della Cee: c’erano olandesi, scozzesi, danesi, bretoni, catalani. Tracciavano confini, facevano rispettare leggi, controllavano redditi, tenore di vita e denunce fiscali, aprivano scuole, commissariavano municipi. Mi sembrò anche che molta gente fosse contenta di questa invasione. Era un miraggio piccolo, formato torinese. Uno dei tanti miraggi di chi si accorge, con imbarazzo, di non conoscere il paese in cui è nato.
Da queste terre, moltissimi sono emigrati al nord e in mezza Europa. Molte volte, non solo alla ricerca di un lavoro, ma per l’esasperazione nel vedere che niente sarebbe cambiato se non, magari, in peggio. Giunti al nord, hanno cercato di dimenticare.
Si avverte una strana aria da paesi segregati, da Alabama prima dei diritti civili, prima che una persona nera si ribelli e si sieda su un pullman nel posto riservato ai bianchi. Quanti episodi di capimafia che maltrattano i politici, che li insultano in pubblico; nessun episodio di un politico che prenda di petto un mafioso in piazza, negli ultimi vent’anni. Quanti politici che partecipano ai banchetti dei mafiosi. Nessun politico che dica, dopo: non lo farò più.
Ma chissà, tra i tanti morti ammazzati che non conosciamo, quanti si erano ribellati.
Ma due persone vanno ricordate, che credettero che si potesse cambiare.
Il primo si chiamava Giuseppe Impastato e abitava a Cinisi. Era un militante di estrema sinistra e a metà degli anni settanta, come avvenne un po’ dappertutto in Italia, aveva fondato una “radio libera”. Di lì denunciava la mafia. Gaetano Badalamenti, il boss della zona, lo chiamava Tano seduto. Tanti, nel chiuso delle case, lo ascoltavano. Altrettanti gli consigliavano di essere meno esplicito. Impastato continuò a parlare e a scrivere grandi manifesti che appendeva in piazza, fino a quando venne ucciso. Il suo corpo fu trovato vicino alla ferrovia, dilaniato dallo scoppio di una bomba, nel giorno in cui a Roma veniva ritrovato il cadavere di Aldo Moro. Ci vollero anni perché venisse ufficialmente riconosciuto che non era un “terrorista”, ma una vittima della mafia. Contro la quale si era lanciato, con le sole parole e una piccola radio.
Dieci anni dopo, nel 1988, fu assassinato a Trapani Mauro Rostagno che, a differenza di Impastato, veniva da fuori. Veniva dal Sessantotto, dalla facoltà di sociologia di Trento, dalla militanza in Lotta Continua, dall’India. Era l’anima di una comunità che accoglieva ragazzi tossicodipendenti, alcolisti. Parlava ogni giorno da una televisione locale, denunciando la mafia e la corruzione nell’amministrazione, citando dati, nomi di persone, andando a intervistare magistrati e gente comune. Aveva sempre avuto una grande capacità di comunicare e di coinvolgere. E ora la metteva al servizio di Trapani. A Trapani, la sera, erano molti quelli che tornavano a casa per accendere la televisione e sentire il telegiornale di Mauro Rostagno. Quando venne ucciso, moltissime perone andarono a rendere omaggio alla salma e presentandosi dicevano: “Sono un telespettatore”. I suoi funerali raccolsero la più grande folla che si fosse mai vista in città. Ancora l’anno dopo, nel primo anniversario della sua morte, il cinema era stracolmo. Una donna prese il microfono, lo lodò e aggiunse: “Andava troppo in fretta per noi”.
Una radio libera, nell’anno 1978. Una televisione locale, nell’anno 1988.
Una fabbrica di biancheria
“Ripensandoci” mi dice Davide Grassi “il primo fatto che inquietò mio padre fu la sparizione del cane. Eravamo, mi pare, nel 1983. Avevamo un grosso pastore belga, che pesava circa quaranta chili, il cane della fabbrica: il giorno legato alla catena, di notte libero a fare la guardia. Una mattina mio padre non lo trovò più, scomparso. Strano, perché era un cane così abitudinario. Nei giorni successivi, ci aspettavamo che tornasse, ma non tornava. Così, ci mettemmo il cuore in pace. Poi, quasi quaranta giorni dopo, il cane ricomparve. O meglio, il portiere di casa ci disse che era arrivato improvvisamente da lui e ce lo riconsegnò. Era una bestia scheletrica, non pesava più di quindici chili. Un mucchietto d’ossa, umiliato, con la pelle cascante intorno. Evidentemente non aveva mangiato per tutto quel tempo. Mio padre capì, credo confusamente, che era successo qualcosa di malvagio. Nessun cane scappa dal padrone per andare a fare la fame. Nessun cane ritorna dal portiere, invece che dal padrone. Mio padre pensò che qualcuno aveva rapito il cane, lo aveva tenuto alla catena senza mangiare, e poi l’aveva restituito così. Un avvertimento.”
Davide Grassi è il figlio di Libero Grassi, l’industriale tessile ucciso a Palermo la mattina del 29 agosto 1991. Era diventato noto perché pubblicamente – sui giornali e alla televisione – aveva denunciato minacce e tentativi di estorsione ed espresso la propria intenzione di non pagare. “Per principio.” (Questo avveniva un anno prima che scoppiasse “Tangentopoli” e si scoprisse come fosse una regola il viluppo italiano di concussi e corrotti.)
Dopo la morte di Libero, Davide e sua sorella Alice mandano avanti il negozio – tessuti, stoffe da parati, tappeti – che i Grassi hanno “da sempre” in via Cavour. Si danno i turni a servire i clienti insieme alla madre, Pina Maisano Grassi, militante storica del Partito Radicale, eletta nel 1991 senatore per i Verdi a Torino.
Il negozio è immerso in una fresca quiete. C’è tempo per parlare. Entrano clienti che cercano uno scampolo di quella stoffa che comprarono dieci anni fa. E bisogna tirare giù dagli scaffali decine di “matapolli” prima di trovare quello giusto.
Davanti al negozio sosta la macchina della polizia. I Grassi sono scortati, tutto il giorno. Prima di andare da qualche parte devono avvertire la scorta. Se vanno a trovare gli amici, devono dire fino a quando – presumibilmente – si fermeranno. All’ora indicata, la scorta bussa. Con discrezione, ma invita a rispettare gli orari.
“Dunque, la prima cosa fu il cane. L’anno dopo arrivarono in ditta e in negozio delle telefonate di un certo zu Stefano. Chiedeva cinque milioni, per i carcerati; le telefonate continuarono per sei mesi … Ah, poi … La rapina: fu nell’84, il giorno prima della chiusura per ferie …”
Libero Grassi era nato a Catania, ma le prime esperienze di lavoro le fece al nord, dopo la guerra. Ramo tessile, in società con dei lombardi. Imparò a conoscere il mercato dei tessuti, i fornitori, la produzione. Tornato a Palermo, avviò la produzione di biancheria, una tradizione della città: prima della guerra, Palermo aveva dieci fabbriche di camicie. Con il cognato fondò la Mima, biancheria intima da donna, duecentocinquanta operaie. “Fu all’inizio degli anni sessanta, anni di boom” ricorda Davide. “Avevano inventato il pret-à-porter, i vestiti di carta. Chiamarono Giorgio Gaber al Teatro Biondo. Aprirono una catena di dieci negozi in tutta la Sicilia, si chiamavano Vanità.”
Poi, da solo, Libero Grassi fondò la Sigma, biancheria da uomo : pigiami, boxer, vestaglie di qualità. “La fabbrica allora” continua a raccontarmi Davide “l’avevamo in via Serra di Falco, proprio sopra la vetreria dei Buscetta; poi ci siamo spostati in via Thaon de Revel. Andavamo bene, con alti e bassi. Avevamo un po’ tutti i problemi degli industriali. Per esempio, quando passammo dal contratto aziendale a quello collettivo, l’assenteismo arrivò al trenta per cento. Ma ce la facevamo, anche ad ammodernarci. Comprammo il plotter, differenziammo l’inventario. E tutto senza mai chiedere un finanziamento, un’agevolazione dalla Cassa del Mezzogiorno. Mio padre era contrario. Diceva: se abbiamo i soldi, facciamo; altrimenti aspettiamo.”
Gli estorsori si facevano vivi a periodi, con telefonate. Ma nel 1991 un tale che si qualificò come il “geometra Anzalone”, si presentò di persona negli uffici. Chiedeva soldi per i carcerati. Poi, sempre con la stessa qualifica, si fece vivo per telefono. E questa volta minacciava: i soldi o mettiamo una bomba. Fu così che Libero Grassi decise di non stare zitto. Prese la penna e scrisse un articolo per il Giornale di Sicilia. Cominciava così: “Carissimo estorsore …”
Libero Grassi divenne così una “persona pubblica”. Lo intervistarono un po’ tutti, persino la Washington Post gli dedicò un articolo: Sicilian Businessman Does the Unthinkable. He Says No to the Mafia. Venne intervistato da Samarcanda e lì, seduto in poltrona nello studio televisivo, vedemmo un uomo colto, interessato più a ragionare che a denunciare. Disse che ci teneva al suo ruolo di imprenditore e di mercante. Spiegò come le estorsioni togliessero qualsiasi dignità alla produzione e al commercio. Interrogato sulla politica, parlò della “qualità del consenso”, molto più importante, secondo lui, della “quantità”. Parlava con una bella voce dalla erre fragile, non comune in Sicilia. Gli chiedevano spesso se aveva paura e lui rispondeva, un po’ contrariato: “Paura … paura. Sì, certo che ho paura. Però ero spaventato anche prima, e quindi …”.
In base alla sua denuncia, il “geometra Anzalone” nell’aprile del 1991 venne intercettato e poi arrestato. Si trattava in realtà di due gemelli, a capo di una banda di estorsori di otto persone. Grassi diceva: “Io con le mie denunce ho fatto arrestare da solo otto persone. Se duecento imprenditori parlassero, milleseicento mafiosi finirebbero in galera. Non le sembra che avremmo vinto noi?”.
Pina Grassi ora ricorda: “Ma non creda che abbiamo ricevuto molta solidarietà, a Palermo. Libero era un “alieno” in città”.
Si chiamava Libero in ricordo di uno zio anarchico. Da giovane era stato obiettore di coscienza, anche uno sportivo, serie A di basket; e per tutta la vita un velista. A casa Grassi tutti erano macinatori del Mondo e dell’Espresso; ammiratori di Adriano Olivetti. Ma la vera passione di Libero Grassi era il mondo dei borghesi protestanti del nord Europa: Amburgo, Lubecca, la Lega Anseatica, i Buddenbrook. Pina, militante radicale, andava a fare propaganda elettorale per i referendum sull’aborto e sul divorzio nel centro storico, al Capo o all’Alberghiera e insieme ai volantini distribuiva rose. “Regalavamo rose a donne stupite che qualcuno regalasse loro qualcosa.”
Libero Grassi non divenne una bandiera per nessuno. Col senno di poi, quello strano uomo non poteva essere assunto come modello dagli industriali del nord, allora così impegnati a pagare tangenti in cambio di appalti, in uno scambio di routine, senza bisogno di bombe o di minacce.
A Palermo, invece, da almeno quattro anni si contavano vittime tra imprenditori, un fenomeno nuovo in città. Nella zona industriale di Brancaccio si susseguivano attentati dinamitardi ed erano stati uccisi piccoli costruttori, ma anche grossi personaggi degli appalti pubblici. Tra piccoli e grossi, una ventina.
Ma le associazioni degli industriali preferivano tacere. E quando divenne pubblico il caso di Libero Grassi storsero il naso. “È uno che vuol farsi pubblicità.” “I nostri associati non hanno questi problemi.” “Se paghiamo tutti, paghiamo meno”.
Due anni prima, in un appartamento del capomafia Francesco Madonia, la polizia aveva trovato un quaderno di contabilità delle estorsioni. Ottocento nomi, e la cifra pagata indicata a fianco. Ma quando i magistrati avevano interrogato i ricattati, erano tutti caduti dalle nuvole. E che fosse lecito pagare, venne a dirlo anche la legge. Il 4 aprile 1991, il giudice istruttore Luigi Russo di Catania, trovatosi a giudicare il comportamento dei costruttori Costanzo (la più grossa impresa edile della Sicilia) accusati di pagare boss mafiosi per il buon andamento dei loro cantieri, di ospitarli nei loro uffici e di proteggerne la latitanza, dichiarò che il fatto non costituiva reato, agendo gli imprenditori in stato di necessità.
La fabbrica Sigma venne presidiata, vi entrò la televisione e riprese il dottor Libero Grassi, esigente padrone all’antica, mentre girava per l’officina controllando il lavoro di cento operaie che cucivano su vecchie Singer. Le scatole con i boxer e i pigiami pronte per essere spedite nei negozi di mezza Italia, in Germania, in Austria. Sette miliardi di fatturato, una buona fetta per l’esportazione.
Libero Grassi fu ucciso una mattina di fine agosto, mentre andava, a piedi, dalla casa alla fabbrica. Ci fu naturalmente una polemica per il fatto che non avesse una scorta. I funerali non furono imponenti, ma erano aperti dalle operaie della Sigma con grossi mazzi di fiori.
Davide Grassi stupì tutti perché, portando la bara, teneva alto il braccio con indice e medio tesi, la V della vittoria. Ostentatamente. E aveva quello sguardo, quasi felice, che aveva avuto suo padre, per non essere stato costretto a subire.
Quella sorta di sicurezza, mista a una leggera ebbrezza, che qualche volta si nota in Sicilia in chi ha scoperto che si può dunque denunciare, fare. (Brano tratto dal libro Il raccolto rosso, Il Saggiatore editrice, Milano, 2010.) Enrico Deaglio è nato a Torino nel 1947. Ha diretto i quotidiani "Lotta Continua" e "Reporter". Conduttore dell'ultimo ciclo del talk show televisivo Milano Italia, attualmente dirige il settimanale "Diario della settimana". Ha scritto le opere di narrativa Cinque storie quasi vere e Il figlio della professoressa Colomba, i libri-inchiesta La banalità del bene e Raccolto rosso, i "diari giornalistici" Besame mucho e Bella ciao.
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