UNA LETTURA "GRAMSCIANA" DEL JAZZ Franco Bergoglio
L'America che si incarna in tema poetico nell'analisi pavesiana o nei romanzi di Soldati è anche parallelamente un terreno di scontro etico sulla società moderna, come risulta limpidamente dalle numerose pagine dedicatele da Antonio Gramsci, giovane emigrato a Torino studente alla facoltà di Lettere, presto assorbito completamente dall'attività politica e giornalistica. Pochi intellettuali si salvarono dai luoghi comuni, nel tentativo di spingersi oltre una lettura superficiale del jazz negli anni venti. Milhaud parlò di "musica che è meccanizzata e precisa come una macchina" usando quasi le stesse parole Lunaciarskij, commissario della cultura nella Russia bolscevica, definì il fox-trot come: "Un ritmo piuttosto complesso, basato su una meccanicità esasperata [...] ispirata proprio al ritmo delle macchine. Questi ritmi hanno la stessa funzione che ha la macchina nelle mani della borghesia: sono disumani, annichiliscono la volontà del singolo". C'era qui, forse per la prima volta, un tentativo di analisi socio-culturale del fenomeno, anche se il ragionamento viene piegato alle esigenze retoriche della politica di partito. La sinistra europea iniziò ad interessarsi al jazz muovendo da una posizione critica, centrando la discussione sul legame tra jazz e borghesia europea. Il jazz, come musica da ballo dei ritrovi alla moda, come fenomeno di costume preoccupava gli intellettuali di sinistra. L'intervento di gran lunga meno ortodosso, datato 27 febbraio 1928 (un anno antecedente quello di Lunaciarskij), è un frammento di una lettera di Antonio Gramsci alla cognata Tania. Trascrivo il frammento per intero; il pericolo cui si fa riferimento è quello proposto a Gramsci, durante una discussione "carceraria" da un interlocutore di fede evangelista che temeva "un innesto dell'idolatria asiatica nel ceppo del cristianesimo europeo". "Da questo punto di vista, se un pericolo c'è, è costituito piuttosto dalla musica e dalla danza importata in Europa dai negri. Questa musica ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, ha creato anzi un vero fanatismo. Ora è impossibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando, che l'avere sempre nelle orecchie il ritmo sincopato degli jazz-bands, rimangano senza risultati ideologici; a) si tratta di un fenomeno enormemente diffuso, che tocca milioni e milioni di persone, specialmente giovani; b) si tratta di impressioni molto energiche e violente, cioè che lasciano tracce profonde e durature; c) si tratta di fenomeni musicali, cioè di manifestazioni che si esprimono nel linguaggio più universale oggi esistente, nel linguaggio che più rapidamente comunica immagini e impressioni totali di una civiltà non solo estranea alla nostra, ma certamente meno complessa di quella asiatica, primitiva ed elementare, cioè facilmente assimilabile e generalizzabile dalla musica e dalla danza a tutto il mondo psichico. Insomma il povero evangelista fu convinto che, mentre aveva paura di diventare un asiatico, in realtà egli, senza accorgersene, stava diventando un negro e che tale processo era terribilmente avanzato, almeno fino alla fase di meticcio". Gramsci ebbe in questa lettera una intuizione eccezionale, considerato l'anno in cui essa fu scritta: il jazz è una forma artistica i cui sviluppi possono mettere in crisi i fondamenti teorici della civiltà occidentale. Nella lettera all'amico Berti dell'8 agosto 1927, di qualche mese precedente quella a Tania, Gramsci, parlando di una sua recente lettura, il libro di stampo fortemente nazionalista ed eurocentrico di Henri Massis "Défense de l'Occident", annotò: "Ciò che mi fa ridere è il fatto che questo egregio Massis, il quale ha una benedetta paura che l'ideologia asiatica di Tagore e Ghandi non distrugga il razionalismo cattolico francese, non s'accorge che Parigi è diventata una mezza colonia dell'intellettualismo senegalese e che in Francia si moltiplica il numero dei meticci. Si potrebbe, per ridere, sostenere che se la Germania è l'estrema propaggine dell'asiatismo ideologico, la Francia è l'inizio dell'Africa tenebrosa e che il jazz-band è la prima molecola di una civiltà eurafricana". Gramsci stava evidentemente proponendo una argomentazione sotto forma di paradosso, e dunque i toni e i contenuti erano estremamente forzati. Il lettore contemporaneo può essere colpito dall'espressione "asiatismo ideologico", riferita alla Germania. La "purezza", concetto cardine del pensiero asiatico, fu poi stravolta dal nazismo e piegata ad un uso aberrante, la creazione di una razza ariana depurata da ogni tipo di contaminazione con quelle considerate inferiori. Naturalmente quando Gramsci scriveva queste parole nulla di tutto ciò si era verificato. Il dualismo Asia-Africa era comunque molto interessante, certamente più di una possibile contrapposizione tra cultura afroamericana e pensiero occidentale, per cui i tempi non erano ancora maturi. Da una parte si trova la popolazione di colore, che non ha ancora cominciato il recupero del suo passato, e viveva in un presente di alienazione, priva di portavoci accreditati ad esprimere il comune sentire dell'intera comunità. Dall'altra si situava il pensiero occidentale, nonostante le menzionate battaglie di retroguardia di alcuni intellettuali ritrosi, aperto alle novità e disposto ad accogliere nuove influenze. Parigi incarnava bene il simbolo di questa voglia di novità. "Pareti rosse laccate, lanterne di colore, globi a specchio, orchestre di tango e jazz, i dancings si riproducono come sciami". A Parigi la musica sincopata piaceva ai viveurs e faceva impazzire gli intellettuali e gli artisti. Il charleston veniva goliardicamente definito la danza cubista, o anche "un compromesso fra il jazz-band e la marcia militare". Così era la Parigi del 1925, quella che probabilmente Gramsci immaginava, nella descrizione dello scrittore parigino Armand Lanoux. Non c'è dunque vero e proprio scontro ideologico in profondità: l'evangelista "sta diventando negro" e il jazz-band "è la prima molecola di una nuova civiltà eurafricana". Gramsci, che intuiva queste mutazioni profonde sotto la banalità dei piccoli avvenimenti che fornirono lo spunto per queste riflessioni, sembra temesse il meticciato culturale, non pare cogliere le possibilità positive di cambiamento da esso offerte. Questo tema era nell'aria, la paura della diversità razziale correva sotterranea, pronta ad esplodere. Negli anni trenta infuriò addirittura una polemica di natura politica tra Francia e Italia su questo tema: la prima infatti si riteneva essersi macchiata dell'infamante reato di "lassismo razziale", avendo tenuto una politica troppo aperta alla mescolanza con le popolazioni di colore. "L'ombra del meticciato faceva incombere su tutta l'Europa la minaccia concreta di un declassamento della razza bianca". Questa era, in merito, l'opinione del governo fascista. Luigi Spina che ha analizzato in un articolo dal titolo "Gramsci e il jazz" questi due brani, nota come sia possibile "cogliere nelle argomentazioni gramsciane quello che forse fu storicamente, negli intellettuali di una certa formazione politica ed ideologica, l'impatto con nuove forme artistiche, in questo caso la musica nera americana, colta soprattutto nella sua ascendenza africana; forme artistiche che, mentre si presentavano come prodotti rispettabili di una cultura altra, estranea, da non censurare razzisticamente, pur tuttavia, proprio per la loro ampia, e forse inaspettata, diffusione tra vari strati, specialmente di borghesia colta, mostravano l'aspetto pericoloso della 'evasione', della 'irrazionalità', terreni sui quali abbastanza tardi il movimento operaio avrebbe espresso una posizione equilibrata e aperta". Sfiorato di un soffio il pericolo di una critica basata sui pregiudizi razziali, Gramsci comunque cadde negli errori comuni alle fonti giornalistiche e storiografiche a lui coeve,di cui probabilmente si servì per le sue osservazioni. Interessato a mettere in luce la pericolosità del fenomeno, analizzò con particolare acutezza l'intreccio tra musica e danza e i riflessi che potevano implicare sull'atteggiamento mentale e sull'ideologia. Anche Rimondi ha analizzato questo brano, commentandolo nel seguente modo: "Gramsci collega correttamente musica e danza, preoccupandosi non della musica in sé ma dei risvolti psicologici e di costume. In questo egli si mostra all'altezza del problema, mentre certamente discutibile e datato appare il discorso sull'oggetto specifico e la società che l'ha prodotto. [...] All'interno di una Weltanschauung fortemente strutturata e ideologizzata, un fenomeno complesso come il jazz fatica a trovare una soddisfacente collocazione". Si ritorna a parlare di fanatismo, di ripetitività, di delirio, di preoccupazione per il coinvolgimento di massa che il jazz riesce a provocare. Le coordinate concettuali utilizzate per il jazz sono le stesse impiegate da Gramsci nel trattare in termini generali il problema America. Un Paese che l'intellettuale sardo vedeva come "immenso laboratorio di una trasformazione che tende a standardizzare il modo di pensare e operare". Era la massificazione delle forme artistiche a preoccupare l'autore; veniva messa in luce la funzione sociale e culturale del jazz, però era completamente ignorata la genesi americana di questa musica; l'interesse evidente era per i suoi sviluppi europei. In fondo il jazz era ancora una moda e la critica si evolverà e affinerà di pari passo con la crescita della musica stessa; inoltre, come dice giustamente Spina, Gramsci era condizionato dai "sospetti che un dirigente comunista nutriva costituzionalmente di fronte a espressioni e comportamenti non immediatamente inquadrabili attraverso la griglia conoscitiva e valutativa della sua ideologia". In Gramsci questo atteggiamento criticato da Spina può essere considerato alla stregua di un peccato veniale, purtroppo i pregiudizi ideologici "di sinistra" contro il jazz ebbero negli anni trenta ben altro peso in Urss. La posizione di Lunaciarskij, citata in apertura di paragrafo, non è che una prima avvisaglia: con il concentrarsi nelle mani di Stalin del potere assoluto si verificò una recrudescenza degli attacchi alla musica intera, non solo al jazz. Proprio il periodo delle dittature mostrò come i risultati ideologici del jazz non fossero assolutamente negativi; anzi, essendo questa musica completamente antitetica allo spirito delle dittature nazista e fascista, in aggiunta al già citato comunismo russo, rappresentò per molti jazz-fans europei l'unico baluardo all'oppressione di un mondo chiuso, privo di libertà, impregnato di pregiudizi xenofobi, e di disciplina marziale. (Brano tratto dal saggio Pavese, Mila, Gramsci - Letteratura, jazz e antifascismo nella Torino degli anni trenta, sul sito: http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/bergoglio200.html) Franco Bergoglio (1973). Laureato con una tesi su Jazz e politica, si occupa degli aspetti storici, sociali e culturali legati a questa musica, con sporadiche incursioni nella storia contemporanea e nell’americanistica. È stato il curatore della pubblicazione di una serie di articoli per il sito Jazzitalia su questi temi e ha collaborato con articoli di musica su svariate riviste: Alternativeonline, Left/Avvenimenti,
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