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Sagarana I PRIGIONIERI DI GUERRA


Roberta Catalano


 

La seconda guerra mondiale sconvolge il mondo intero. Sotto Vichy, diverse categorie della popolazione subiscono misure discriminatorie: centinaia di repubblicani spagnoli si rifugiano in Marocco a partire dal 1939, dopo la vittoria di Franco e del fascismo, al termine di una terribile guerra civile. Molti di quei rifugiati si insediano a Casablanca (rappresentano il 15% della popolazione del quartiere del Maârif) e vengono posti sotto la sorveglianza delle autorità del Protettorato per i loro ideali politici di sinistra o di estrema sinistra, esecrati da Vichy. Alcuni di loro sono persino arrestati e rinchiusi nei campi di prigionia, come quelli di Azemmur o di Oued Zem.
I massoni e i pochi resistenti gollisti subiscono lo stesso trattamento dalle autorità francesi, a volte con il concorso della Gestapo e dei servizi segreti tedeschi. Dopo lo sbarco americano in Marocco nel novembre del 1942, il Protettorato, che è passato nel campo degli Alleati, libera i repubblicani spagnoli, i massoni e i resistenti francesi. Ora è la comunità italiana a essere sospettata, l’Italia fascista di Mussolini è del resto l’alleata della Germania nazista. A Casablanca, ad esempio, molti italiani subiscono i famigerati sequestri di guerra, che li privano di tutti i loro beni, e vengono rinchiusi nei campi di prigionia: accampamenti di legno e filo spinato. Il campo di Casablanca, tuttavia, è per lo più riservato a prigionieri militari, mentre quelli civili sono dislocati su tutto il territorio marocchino, in particolare a sud.
Centinaia di ebrei francesi e stranieri, soprattutto provenienti dall’Europa centrale, vengono rinchiusi nei «campi di soggiorno sorvegliati», veri e propri campi di lavoro che costellano il territorio marocchino, come a El Jadida, Ain Leuh, Beni Mellal, Bou Arfa, Tadla, Mrirt, Tazmamart, Agdz, e Ghbila. Lì si trovano in compagnia di altri detenuti, francesi e marocchini, socialisti, comunisti e massoni.
Esistono raccolte di poesie di prigionieri di guerra italiani, rinchiusi in quegli anni in Marocco; tra tutte, ricordiamo la raccolta Prigionieri di guerra, pubblicata a Torino e presentata da Giuseppe Ungaretti, le liriche di Francesco Bronda Croce di Ferro  e quelle riunite in Toppa Rossa: fra i reticolati del Marocco francese  di Don Franco Giacomo.
Un lavoro eccezionale è Nord Africa 1943: pubblicato nel 1961 a Milano, raccoglie le testimonianze di prigionieri di guerra italiani, tra militari, medici, civili comuni e religiosi. Esso comprende anche le fotografie delle carceri che i prigionieri erano costretti a costruire, per poi esservi rinchiusi. Così recita la dedica: «Alla memoria dei militari italiani sparsi nei numerosi cimiteri di Tunisia, Algeria, Marocco ed Africa Equatoriale, che la morte affrontarono non nella gloria sanguinosa della battaglia, ma – inermi e stremati – nell’umiliante degradazione dei campi di prigionia francesi». Il comitato promotore che si è occupato della pubblicazione e della ristrutturazione delle tombe dei prigionieri di guerra è costituito dal Toppa Club e dall’Associazione Ex prigionieri di Guerra dei Campi Francesi. Tra le numerose testimonianze, spuntano i versi di una poesia scritta da Marcello Stenti durante la sua detenzione:
… E quanno un giorno guardi a tramontana
E piagni dietro a un fir de fero e spini…
Quer pianto lì sei tu, Patria lontana!
Spicca anche la cronaca di Don Franco Giacomo che, figura assai nota e popolare tra i reduci dai campi marocchini, dà alle stampe il racconto dell’esperienza estrema vissuta in quegli anni. Nell’antologia è riportato un capitolo in cui il reverendo narra dell’ennesimo omicidio di un prigioniero «vilmente assassinato mentre si apprestava a tornare libero in Italia. L’esecrando delitto, che per poco non provocava un’ancor più grande tragedia, ha chiuso in Casablanca il 26 maggio 1946, con un orrendo sigillo di sangue, il doloroso dramma dei prigionieri italiani in mano francese, iniziatosi nella piana di Pont-du-Fahs il 13 maggio 1943».
Dal campo XXIX di Casablanca giunge la testimonianza del sergente Traversa che, con l’aiuto dei caporali Gianni Zuanich e Vincenzo Chiapperini, fonda il 22 maggio 1944 la prima Scuola Italiana per prigionieri, che prende il nome di «Giovane Ventitreenne» in onore di una ragazza, Antonietta Frasca, che ha corso grandi rischi per aiutarli. Trasferito al campo XXVI di Marrakesh, Traversa vi istituisce la Scuola Giuseppe Parini. Grazie a questa meritevole iniziativa, numerosi soldati italiani vengono alfabetizzati e conseguono il diploma di terza elementare. Dopo la guerra, i diplomi saranno riconosciuti sia dalle autorità francesi che in Italia, in virtù del decreto ministeriale del 15 gennaio 1948.
Ma la testimonianza più rappresentativa è forse quella dal sergente maggiore Ernesto Buttura. Si tratta di un testo molto forte, le cui parole sono pugni violenti nello stomaco, ed è spesso difficile sostenerne la lettura. Alcune immagini ne evocano altre, più note, quelle dei campi di sterminio nazisti. Feroci e inumane. Ecco come viene presentato il campo di Mechra Benabbou: «Su di una gavetta italiana schiacciata è stato un giorno trovato inciso un nome, una data e più sotto una scritta: “Mechra-Benabbou, il cimitero dei vivi”. Quanto ci sia di vero in questa espressione, coniata da un soldato che oggi riposa laggiù, lo può comprendere soltanto chi è stato in quel campo maledetto dal giugno al settembre del ’43. L’Autore di queste pagine, allora sergente maggiore, ha personalmente vissuto, ora per ora, giorno per giorno, il travaglio dei militari italiani che ebbero la sventra di passare attraverso quel campo, e ci fa rivivere in una incisiva documentazione l’incombente tragedia che li sovrastò in quei terribili mesi. Pagine tempestose nelle quali si rivela il calvario inumano di tremila combattenti italiani d’Africa, di ogni arma ed età, costretti sotto il giogo infamante di un criminale di guerra che nessun Tribunale ha condannato».
Il sergente racconta la sua terribile esperienza sin dall’inizio, quando scende dal treno merci intorpidito dalla nottata trascorsa accalcato in un vagone con altri quaranta compagni. E con ai piedi due scarpe destre. Sì, perché i soldati francesi e marocchini spogliano i prigionieri di tutto, persino degli occhiali da vista, per poi ridare loro solo delle scarpe vecchie e logore, e spesso due dello stesso piede. Il campo di Mechra Benabbou è un terreno deserto circondato da un filo spinato dentro il quale lavorano i prigionieri italiani. Il suo contingente è stato catturato, al momento della resa generale, dai reparti inglesi e ha trascorso il primo mese di cattività prima nei pressi di Tunisi e poi nei campi di Medjez-el-Bab. Fino al mattino in cui le forze golliste e le truppe marocchine lo conducono alla stazione. Sin dalla prima fase del viaggio il sergente registra gravi episodi: gli aguzzini fanno fuoco per un nonnulla, già un compagno è morto e altri sono rimasti gravemente feriti. I carcerieri sembrano essere stati scelti dopo un’accurata selezione in funzione della loro malvagità: le crudeltà più gratuite, più umilianti, portano i prigionieri allo sfinimento. La prigionia è caratterizzata da una totale assenza di assistenza medica, oltre che dalla più grande incuranza per le necessità basilari dell’essere umano. Gli uomini sono distribuiti lungo una linea bianca che delimita il campo, sotto il sole cocente, senza possibilità di un riparo, con una sola copertina per le notti gelide, con un rancio di acqua calda in cui galleggia qualche cereale; l’acqua da bere si riduce a poche cucchiaiate a testa, spesso non è potabile, prelevata da bacini in cui galleggiano carogne di animali: «Sarà il vostro posto al sole – ghignò un vecchio “adjutant” legionario abbrutito dall’alcool – Un magnifico posto al sole per voi e per il vostro Mussolinì». Il pane destinato ai prigionieri viene lasciato muffire in sacchi di iuta, per essere poi distribuito molto tempo dopo, avariato, quando la fame spinge molti a nutrirsene ugualmente, per poi contorcersi dal dolore, tra le risate sguaiate dei carcerieri. «Ricordatevi bene, e ditelo pure chiaramente ai vostri soldati, che nessuno di voi tornerà vivo in Italia e che in ogni modo, se pure qualcuno la scamperà, in Italia ci ritornerà rovinato per sempre». I carcerieri, uomini consumati dalla follia dell’odio e dall’alcool trangugiato copiosamente a quelle temperature, periscono più numerosi dei loro prigionieri. Gli aguzzini del campo XXVI di Mechra Benabbou sono al comando del feroce tenente Mezier che, con l’arrivo di altri contingenti di prigionieri, decide della sorte di tremila anime «poste alla mercè di un criminale pazzo di odio, e di una accolta di lupi inferociti». Gli altri duemila prigionieri che hanno raggiunto il campo provengono dalla spaventosa marcia da Pont-du-Fahs a Costantina, passando per gli scontri di Algeri. Col tempo, la fame, la sete, la debilitazione fisica e morale riducono i prigionieri a un disperato stato animalesco: «mi capitò un giorno di vedere un uomo, che ormai non era più tale, frugare fra le feci alla ricerca di qualcosa da ingoiare». La fame fa sparire le lumachine bianche che passeggiano sui pali del campo, insieme a qualunque altra cosa che possa essere ingoiata. Se un prigioniero riceve una dose di acqua o di cibo anche solo di poco più “generosa”, esplodono risse violente in tutto il campo. Alla mancanza di vitto, di vestiario e di protezione dagli agenti atmosferici, si aggiungono i più inauditi atti di violenza: dalle staffilate e colpi di «nervo» al lavoro forzato; dal «tombeau»  alla raffica di mitra nel campo. Così, tra colpi di frustino, bastonate e calci di fucile che si abbattono sulla schiena dei poveri malcapitati, i prigionieri sono costretti a lavorare: vengono racimolati indiscriminatamente e a forza, condotti alla cava, dove devono accollarsi grossi macigni, oltremodo pesanti per i loro corpi ormai senza forze; da lì trasportano le pietre in un punto dove altri prigionieri hanno il compito di frantumarle e lavorarle, formando così una penosa processione per la catena di montaggio: «Una colonna di pochi esseri coperti di pochi stracci, per lo più a dorso nudo, a piedi scalzi, scheletrici, capelli e barba incolta, si snodava interminabile sotto la scorta armata dei Marocchini, ripetendo innumerevoli volte il viaggio su e giù per quella montagnola, a passo funebre, sotto il peso dei sassi». E capita che qualcuno non ce la faccia più e cada riverso a terra: in tal caso, l’uomo viene brutalmente colpito, anche se è svenuto e non reagisce, fino a diventare «un orrendo impasto di sangue». Non c’è da stupirsi se i prigionieri invidiano coloro che sono morti in trincea.
Tra i prigionieri c’è anche un medico italiano, costretto a esercitare senza alcun medicinale a disposizione. È stato catturato anche un cappellano italiano — Don Giovanni Sframeli — che è immediatamente posto in isolamento. Un giorno, gli si concede di celebrare la S. Messa su un piccolo altare di fortuna; ma la predica accorata che pronuncia per rincuorare i prigionieri non è gradita da Mezier che si affretta a rispedirlo in quarantena.
Solo raramente, per quelli che vanno a lavorare fuori dal campo, c’è la possibilità di avere un poco più di acqua e di avvicinare gli abitanti del luogo, che talvolta procurano loro un po’ di cibo e fichi d’India.
Non è raro che qualcuno venga ucciso “per sbaglio”, come il prigioniero abbattuto di notte da una sentinella, per essersi avvicinato alla trincea, scavata a due o tre metri dal reticolato, che serve da latrina. Ai più “fortunati” può capitare di ricevere un proiettile nell’occhio o in punti non vitali.
Dopo mesi di incubo, Mezier sembra accorgersi che l’uccisione di tremila soldati potrebbe creargli delle grane e decide di trasferire i prigionieri in un campo dove le condizioni sono più sostenibili. Così, i sopravvissuti sono caricati su un treno per Casablanca, dove li attende il vecchio stadio abbandonato, «Les Arènes». È facile immaginare la gioia e la speranza che rincuorano quegli uomini, per i quali lo scherno della gente che assiste alla loro triste marcia non è davvero nulla, consapevoli di poter ormai sopportare qualunque angheria, perché niente potrà essere peggio di Mechra Benabbou. Scalzi, scarniti oltre ogni misura, spogliati di ogni indumento, «molti di noi erano addirittura avvolti semplicemente nei resti di una coperta da campo a brandelli, per coprire la totale nudità», vengono umiliati attraverso le strade della città, messi alla gogna. «Abbiamo ricevuto sputi e insulti, ma ci fu dato per la prima volta di vedere le donne italiane di Casablanca sfidare la canea pubblica e le ire dei Marocchini per gettarci del pane, per incoraggiarci con parole di conforto e di fede nell’avvenire. Erano le prime prove di una solidarietà senza limiti che ci avrebbe seguiti con ammirevole costanza ed affetto sino al giorno del rimpatrio». Più avanti si legge: «[…] mamme, uomini anziani e giovani figli che unici avevano evitato l’internamento e il richiamo alle armi. Quanto si siano prodigati costoro per porre riparo alle situazioni più drammatiche e disastrose, quali sacrifici e quanti pericoli abbiano affrontato nel nome di una Patria comune che in molti casi essi nemmeno avevano conosciuto se non attraverso i racconti nostalgici dei genitori o dei nonni, potrebbe formare oggetto di una commovente narrazione […]. Solo Iddio sa quanti reduci dalla prigionia debbono il loro attuale stato di buona salute e la loro salvezza ai sacrifici personali dei connazionali che fornirono ad essi in extremis quei preziosi aiuti mercè i quali poterono evitare il tracollo fisico: meravigliosa e sublime prova di fratellanza e di patriottismo, tanto più encomiabile avuto riguardo alle particolarissime contingenze in cui fu offerta. Il tempo ha cancellato molte cose e sopito i rancori e gli odi. Ma ha fatto forse dimenticare troppo presto questi umili figli d’Italia che nell’ora della sconfitta più dura hanno donato alla Patria la più pura delle vittorie: la vittoria dello spirito.» E infine la denuncia: «Le Autorità italiane non hanno mai ritenuto di spendere una sola parola, un solo gesto che esprimesse la riconoscenza della Nazione a questa umile gente che del nome d’Italia aveva fatto un mito e che tutto aveva donato in silenzio, senza nulla chiedere. Noi che siamo così poca cosa, dedichiamo loro questa pagina di ricordi che ha una sola ambizione: quella di mostrar loro una piccola parte della nostra gratitudine».
Ancora oggi i “vecchi” del Marocco ricordano con emozione le loro madri, le loro donne che si industriavano ogni giorno per portare nei campi, ai loro connazionali — che spesso non conoscevano affatto —  teglie di maccheroni, pane, dolci e sigarette facendo prova di una generosità senza eguali, tanto più che le loro possibilità economiche erano state ridotte ai minimi termini.
Il racconto di Ernesto Buttura si chiude sull’incontenibile gioia dei prigionieri quando, all’ingresso del «catino denominato “Arènes”, vecchio stadio destinato alle battaglie dei toreri», scoprono che il muro che delimita l’interno della loro nuova dimora è disseminato di rubinetti dai quali scorre incessantemente acqua. L’acqua, in abbondanza, a mischiarsi alle lacrime, a lavare via dolori e incubi. Finalmente, l’acqua.
L’opera denuncia il fatto che non è stato valutato appieno, sia sul piano umano sia su quello giuridico, «il pauroso dramma attraverso il quale sono passati i prigionieri italiani nei campi francesi d’Africa». Attraverso il loro lavoro, i curatori chiedono che siano ricordati i familiari delle vittime: poveri, indigenti e – soprattutto – dimenticati.
Ancora oggi, si riesce a fatica a far rispettare la Convenzione di Ginevra, che stabilisce che un prigioniero è anzitutto un uomo. Ed è come un brivido gelido il pensiero che, a più di sessant’anni di distanza, non si sia imparato nulla e il mondo vada avanti nello stesso modo: le grandi potenze continuano ad arrogarsi il diritto di ignorare le più basilari regole etiche e civili. Ma tutti, prima o poi, pagano il loro conto con la storia.





Tratto da Schegge di memoria. Gli italiani in Marocco. Senso Unico Editions, Mohammedia 2009. In Marocco il libro è in vendita in tutte le librerie . In Italia gli interessati ad averlo dovranno rivolgersi all’autrice, all’indirizzo e-mail robertayasmine@gmail.com.)




Roberta Catalano
Roberta Yasmine Catalano è nata a Roma nel 1975. Di origini italo-libanesi, ha vissuto quindici anni in Marocco ed è poi tornata a Roma dove si è laureata in Letterature Comparate all’università “La Sapienza”. Ha svolto approfondite ricerche sull’emigrazione italiana in Tunisia. Collabora con diverse case editrici. Ha tradotto testi, pubblicato recensioni, saggi e racconti su numerose riviste letterarie. Ha vinto tre premi letterari giovanili. “Schegge di memoria. Gli italiani in Marocco.” è il suo primo libro.




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